Le città le conosco bene. Ci sono nato, ci ho trascorso decenni, ancor oggi non posso dire di esserne del tutto uscito. Sono quei luoghi in cui i contorni delle cose sono invariabilmente linee rette, in cui l’aria è spesso irrespirabile, in cui d’estate si muore di caldo e le finestre fino al secondo o terzo piano sono chiuse da inferriate metalliche. Sono quei luoghi dove sei continuamente circondato da migliaia di facce e da nessun volto, dove i suoni sono stridenti e ugualmente lo sono le relazioni fra gli uomini. Sono quei luoghi dove è impossibile incontrare un riccio, imbattersi in una sorgente, raccogliere more selvatiche. Sono i luoghi in cui si esiste per produrre, ed è vietato fermarsi. Sono tutto ciò e altro ancora. Potrebbero mai essere qualcosa di diverso?

Le città nascono, insieme a molte altre cose, in una fase storica ben precisa. Nascono quando l’uomo cessa di essere un raccoglitore che vive in piccoli gruppi sociali egualitari, nascono insieme all’agricoltura e all’allevamento, che segnano l’inizio del distacco dell’uomo dalla vita di relazione con le forme viventi non umane, nascono insieme alla gerarchia, allo stato centralizzato, insieme alla cultura della crescita, della contrapposizione uomo-natura e, conseguentemente, del dominio. Quando l’insieme di queste cose è entrato nell’orizzonte dell’uomo la città, che già esista o no fisicamente, è virtualmente nata, perché è il tipo di insediamento consono a tutto ciò.

Trascorrono i millenni, questo nuovo modo di essere dell’uomo si fa strada, diviene ben presto dominante e sempre maggiore è la parte di umanità che si ammassa nei centri urbani, lontana da tutto ciò che non sia se stessa. La città mantiene nel tempo la sua natura, la sua funzione, portandola a livelli sempre crescenti di “perfezione”: un’enorme massa tumorale di cemento brulicante di “cellule” malate occupate in una frenetica, ossessiva attività, di cui esse stesse hanno cessato di domandarsi il fine. Tappiamoci il naso e proviamo brevemente a guardarla da dentro.

Mi trovai un giorno a essere spettatore di un dialogo in un gruppo di discussione sulla Decrescita. Una persona particolarmente attiva in quel gruppo sosteneva che la città è il contesto ideale per l’uomo perché solo in essa si riesce a essere liberi. Una piccola comunità al contrario tende inevitabilmente a esercitare un controllo omologante sull’individuo. Quest’ultima cosa è possibile che sia vera e non dovremo sottovalutare il rischio di andare verso un futuro popolato da una miriade di microdittature paesane. Ma che nella città si realizzi non so che condizione ideale per garantire la libertà degli individui, non vedo come lo si possa affermare. Nelle città si perde inevitabilmente l’idea di comunità, che può venirsi a formare solo nella piccola dimensione. In un agglomerato di centinaia di migliaia o milioni di individui che rete di rapporti personali può mai formarsi? Si rimane chiusi in un isolamento pullulante di facce sconosciute e mute, si rimane soli, ignorati da tutti perché a nostra volta sconosciuti a tutti. E’ questo essere ignorati da tutti ciò che è stato chiamato “libertà”. Se nessuno si cura di te, è chiaro che puoi fare ciò che vuoi, a condizione naturalmente che tu lo faccia da solo… e che sia innocuo.

Ma poi, siamo così certi di essere “liberi”? E’ vero che siamo soli perché hanno tagliato ogni relazione orizzontale fra noi e gli altri, ci hanno separati da coloro che ci sono, ormai solo fisicamente, vicini, ma ciò non significa che siamo completamente soli. Se hanno tagliato i fili che collegano gli uni agli altri, hanno con ciò creato le condizioni affinché si rafforzasse quello che collega tutti a un’unica entità, chiamiamola “il capobranco”, quella che emana le direttive di comportamento che identificano l’appartenenza del signor Rossi alla sociocultura dominante. E il signor Rossi ha un totale bisogno di sentirsi appartenere a essa. Si sente perso al di fuori di essa perché ne dipende totalmente.

Ecco dunque apparire sugli schermi televisivi (sono essi la principale emanazione del “capobranco”) un ometto col codino, e improvvisamente sulle nuche degli italiani pullulano i codini. Un giorno l’ometto va dal barbiere e se lo fa tagliare. Improvvisamente milioni di codini spariscono all’unisono. Qualche anno dopo è la volta di un tale che esibisce una luccicante testa rasata, e lungo tutta la penisola fioriscono le teste rasate. Siamo certi di essere “liberi”? Cos’è il controllo diretto esercitato sull’individuo da una piccola comunità di fronte al controllo via mass media esercitato, nei confronti di milioni di individui disgregati, da un unico centro radiante, invisibile, astratto, impersonale? Ma così capillare ed efficace da poter fare di un ex cantante per croceristi un “presidente del consiglio dei ministri”.

Quello della cancellazione dei rapporti diretti, comunitari fra gli esseri umani è stato un processo durato millenni e rimasto con tutta probabilità a lungo incompiuto. La scarsa disponibilità di trasporti rapidi ha privilegiato fino a pochi decenni fa la vita di quartiere facendo sì che le città restassero in realtà aggregati di piccole comunità, i quartieri appunto, benché inquinate da un contesto socioculturale che già, come detto, da lungo tempo non era più quello delle originarie piccole comunità non gerarchiche e solidali da cui la storia dell’uomo, con tutta probabilità, ha preso avvio. Il processo di disgregazione della comunità e di totale appropriazione dell’individuo da parte del “sistema” è dunque storia antica ma raggiunge il suo compimento quando si disgrega il quartiere come luogo di lavoro e di socialità, quando la città diviene monolitica e allo stesso tempo più che mai tumorale e amorfa.

Ma c’è un altro genere di rapporti che la città ha fin dal suo nascere contribuito a cancellare: quello con il non umano che ci circonda. La città è una creazione mossa dal fondamentalismo più estremo: non ammette altro che se stessa, cancella, sterilizza ogni altra cosa in sé e, per un raggio che pochi immaginano quanto sia ampio, anche intorno a sé.
Negli ormai lontani anni ’70 udii raccontare alla radio il seguente aneddoto: un bambino milanese fu portato per la prima volta in campagna, in visita a una fattoria. Lì gli fu messo in mano un pulcino. Egli lo tenne per un po’ poi cominciò a rigirarlo e tastarlo ovunque. «Cosa fai?» gli chiese la madre. «Cerco l’interruttore per spegnerlo», rispose il bambino. Tanto può la città.

Ma può ancora di più: può storpiare le menti umane fino a farsi percepire da esse come la perfetta realizzazione del paradiso. Conobbi molti anni fa un bravo fotografo romano che per alcuni anni aveva vissuto in un paese della provincia vicino a quello in cui ora abito io. Poi era tornato in città, in un appartamento della desolata periferia. Facendomi forza sono andato a trovarlo alcune volte. Una di esse il fotografo mi disse: «quando sono tornato qui sono rinato». Questa frase mi fulminò. Uscendo, quella sera, diedi un’occhiata in più a ciò che mi circondava, un’occhiata di troppo. Il paesaggio era ed è dei più opprimenti: in ogni direzione lo sguardo si scontra con muraglie di cemento dai colori spenti o pacchiani forate da file innumerevoli di finestre tutte desolatamente uguali; da molte di esse, dopo il tramonto (che nessuno vede), emerge la luminescenza spettrale di un televisore acceso. Le strade non sono meno desolate: file fittissime di automobili parcheggiate alla meno peggio interrotte ogni tanto da un cassonetto della spazzatura o dall’importuna presenza di un albero striminzito che par quasi domandarsi cosa sta a farci lì in mezzo.
Mi venne in mente quella sera la parola assuefazione ma ciò cui mi ero trovato di fronte era in realtà qualcosa di più forte: era l’apologia dello squallore, del vuoto che diventa paradigma della vita. Da molto tempo, pur sentendolo non meno amico del passato, non vado più a trovarlo.

Dunque, abbandonare le città al loro destino? Sarebbe la scelta migliore, se esse avessero la correttezza, la discrezione di abbandonare noi al nostro, sì, insomma, di lasciarci in pace. Ma la città è l’espressione urbanistica di una sociocultura che non conosce il concetto di “lasciare in pace”. Crescere “per sempre” significa espandersi, espandersi significa schiacciare e cancellare. Non speriamo dunque di poter far finta di niente. Con le città, come con la sociocultura che le ha generate, bisognerà, bisogna già adesso, fare i conti. Dunque agire al loro interno per rallentarne la devastante avanzata ma anche per far emergere quelle componenti umane positive altrimenti destinate a disperdersi (e a perdersi) nel dilagante vuoto, farne una forza sociale che prepari la transizione consapevole verso il ritorno a una vita “ecosistemica”, ben diversa dall’attuale “fuga dalle città”, mossa da motivazioni esclusivamente economiche e non meno distruttiva delle città stesse. Il cittadino in fuga dalla città infatti non per questo cessa d’essere cittadino: il suo modo di essere, e dunque di fare, nei confronti del mondo che lo circonda rimane lo stesso, rimane un rapporto di dominio, mediato dall’artificialità e dal denaro.

Il processo di deurbanizzazione, che possiamo e dobbiamo auspicare, affinché non si traduca in un ennesimo disastro ecologico, deve essere accompagnato da un mutamento culturale profondo, non solo nel modo di concepire le tecniche produttive ma anche nel modo di rapportarsi al mondo vivente non umano con cui si interagisce. Esso inoltre è pensabile solo parallelamente a un processo di decrescita della popolazione. Bisogna invertire la domanda (tipica del resto della “logica” della crescita): «come fare a sostenere la presenza di n miliardi di persone?» e sostituirla con: «quale numero di persone la biosfera terrestre può sostenere senza collassare?» Il che equivale poi a sostituire il punto di vista forsennatamente antropocentrico che guida da sempre la sociocultura della crescita con un più equilibrato punto di vista ecocentrico: non l’uomo che vive sulla Terra ma l’uomo che vive insieme alla Terra.