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Abbiamo bisogno di una visione unitaria del reale, non di un Pensiero Unico che ci omologhi

di Francesco Lamendola - 22/10/2009

 

Qual è la differenza sostanziale che corre fra l’azione educativa esercitata verso i bambini ed i giovani nelle società pre-moderne (compresa la nostra società contadina) e la società moderna nella sua fase attuale?
Si potrebbe rispondere, con una battuta, che la società odierna non esercita alcuna azione educativa, almeno a livello consapevole; che vi ha, di fatto, rinunziato; che oggi l’educazione, o la diseducazione dei giovani, è condotta da agenzie private finalizzate al guadagno, prima fra tutte la televisione (sarebbe meglio dire: la pubblicità televisiva, mascherata con qualche programmino di nessuno spessore educativo, anzi, il più delle volte, profondamente diseducativo).
Certo, una battuta, ma neanche poi tanto. In ogni caso, sarebbe un modo di sottrarsi alla domanda che ci eravamo posta: quale differenza?
Ebbene, la differenza sostanziale, a nostro avviso, risiede nel fatto che l’azione educativa delle società pre-moderne - ad esempio, quella medievale - aveva quale fondamento una visione unitaria del reale, e sia pure attraverso la distinzione di un ordine naturale ed un ordine soprannaturale, collegati però dalla presenza del divino; mentre quella della società odierna poggia su basi fragilissime, per non dire inesistenti, dal momento che la modernità non crede più in nulla, nemmeno nell’apparato tecnoscientifico di cui va tanto fiera e del quale crede di servirsi, mentre, in realtà, si è ridotta ad esserne il servitore.
Ora, nessuna azione educativa è possibile senza una base filosofica. Non si può insegnare nulla ad alcuno, né, tanto meno, trasmettere ideali e valori, se non s possiede una bussola, almeno di ordine pratico, con cui orientarsi nel groviglio dell’esistenza. Ne abbiamo già parlato nell'articolo intitolato: «Per essere persone e non pecore nel gregge è necessaria una visione unificatrice della vita» (consultabile sempre sul sito di Arianna Editrice). E se ciò è vero a livello individuale, lo è anche - e a maggior ragione - a livello collettivo: perché qualsiasi azione educativa è sempre un fatto sociale, e, con buona face dell’Emilio di Rousseau, nessun bambino può venire educato separatamente dai propri simili.
Quello che vogliamo dire è che un’azione educativa, per essere efficace, presuppone un contesto culturale di ideali e valori condivisi; presuppone, cioè, una visione unitaria del reale, che faccia da base e da fondamento all’azione educativa rivolta ai singoli individui. Tuttavia, è chiaro che non si può dare ciò che non si possiede; e, pertanto, una società priva di una visione unitaria del reale, come lo è la nostra, non potrà mai impostare alcuna seria azione educativa, neppure se lo volesse (e, di fatto, non lo vuole, nel senso che vi ha abdicato).
La società moderna, infatti, non possiede una filosofia del reale; ne possiede sei, sette o forse più; ma nessuna di esse presenta caratteri tali, da farne uno strumento di lettura complessiva del reale; tutte appaiono come delle risposte parziali, sovente faziose. Per essere più precisi: non si tratta di visioni del reale, ma di pura e semplice ideologia, contrabbandata per filosofia.
E a chi ci obiettasse che ogni filosofia è, necessariamente, anche una ideologia, risponderemmo che una tale affermazione tradisce già in se stessa il proprio carattere ideologico, ossia l’assoluta impossibilità di pensare in termini di comprensione del reale, di TUTTO il reale: operazione, quest’ultima, che non è affatto impossibile, come ci si vorrebbe far credere, ma che presuppone l’abbandono dell’atteggiamento giudicante e l’adozione di un atteggiamento essenzialmente contemplativo, aperto e accogliente.
Infatti, se è vero che nessuna cultura può pretendere di porsi in posizione preminente rispetto ad altre culture, perché i fattori culturali sono valutabili solo all’interno del proprio sistema di riferimento, del proprio paradigma filosofico, pure è altrettanto vero che una cultura degna di questo nome non rinuncia affatto ad elaborare una propria visione unitaria del reale; proprio come il singolo individuo non dovrebbe rinunciare a perseguire l'obiettivo della chiarificazione interiore, invocando il risibile pretesto che sarebbe sbagliato farlo, prima che tutti gli altri esseri umani siano pervenuti alla medesima soglia.
Arrivati a questo punto del nostro ragionamento, tuttavia, dobbiamo dissipare un equivoco che potrebbe facilmente generarsi. Una visione unitaria del reale non è affatto il sinonimo di un Pensiero Unico: al contrario, ne è praticamente l’opposto. Tra i due concetti corre la medesima differenza che esiste fra una onesta transazione commerciale e una rapina a mano armata.
Le società pre-moderne, Medioevo compreso, erano ispirate ad una visione unitaria del reale, ma non erano dominate e tiranneggiate da un Pensiero Unico, invasivo e totalitario.
Una simile affermazione farà certamente sobbalzare sulla poltrona (magari di barone universitario) i tanti cantori delle «magnifiche sorti e progressive» della modernità. Ma come!… Il Medioevo: l’epoca delle streghe e dei monaci fanatici, l’epoca delle credenze superstiziose e del sonno della ragione; in una parola: l’epoca della Santa Inquisizione, non era forse dominato e tenuto in ostaggio da un ferreo Pensiero Unico, a sua volta tenuto in piedi dalla perversa commistione del potere temporale dell’Impero e da quello spirituale della Chiesa?
Ahimé, le leggende illuministe sono dure a morire, anche per via della malafede di certi intellettuali poco scrupolosi, i quali sanno benissimo che l’epoca in cui i roghi della Santa Inquisizione sono stati accesi a ritmo febbrile, non è stata affatto quella del «buio» Medioevo, ma il XVI e il XVII secolo: vale a dire, l’esordio della modernità.
Che cosa distingue, allora, una società ispirata ad una visione unitaria del reale, da una che, invece, è fondata sulla omologazione degli individui entro i rigidi schemi di un Pensiero Unico? Essenzialmente, il rispetto della diversità.
Ecco un’altra affermazione di quelle che potrebbero far venire un accidente ai tanti sapientoni che ci vogliono dipingere le società pre-moderne come il trionfo della uniformità e del rifiuto del diverso. Eppure, quella immagine stereotipata si basa, a ben guardare, su di un grosso equivoco; e sarà il caso di guardarlo bene in faccia, per dissiparlo una volta per tutte.
Come era visto il diverso nelle società pre-moderne? Certo, non possiamo generalizzare eccessivamente, bisognerebbe vedere caso per caso; e, tuttavia, a grandi linee, un atteggiamento comune è ugualmente riconoscibile.
Presso i Pellerossa del Nord America, ad esempio, l'omosessuale non era in alcun modo disprezzato e discriminato; la società gli trovava una collocazione ben precisa: lo autorizzava a vestirsi e comportarsi da donna e perfino a sposarsi; spesso, inoltre, gli affidava il ruolo dello sciamano, per via della credenza antichissima (e universale) che l'androgino sia più vicino alla perfezione, e quindi alla divinità, dell'individuo nettamente definito sul piano sessuale.
Presso la società occidentale del Medioevo, il vagabondo, il lebbroso, il mendicante, non erano disprezzati e discriminati; non che la loro vita non fosse dura e che non vi fossero momenti di tensione con la «brava gente»; ma la loro condizione di marginali era considerata naturale e non combattuta in quanto tale, perché, essendo la cultura medievale molto diffidente verso la ricchezza, in fondo vi era l'idea che costoro, sebbene fossero gli ultimi tra gli uomini, avrebbero potuto anche diventare i primi al cospetto di Dio.
Presso gli antichi, ad esempio i Greci e i Romani, gli epilettici erano ritenuti prediletti della divinità: il loro male era visto come un segno celeste.
Gli stranieri, poi - i diversi per eccellenza - presso quasi tutte le culture pre-moderne, godevano e godono di uno status quasi sacrale: è doveroso accoglierli con ospitalità e benevolenza (vedi Ulisse tra i Feaci), ed è considerato sacrilego levare la mano contro di essi.
Certo, sappiamo benissimo che, presso molte società pre-moderne, altre forme di diversità non erano bene accette, o, addirittura, erano crudelmente perseguitate: tuttavia, a ben guardare, ci si accorge che si tratta di quelle forme di diversità che, estendendosi, avrebbero potuto minare le fondamenta della società stessa (ad esempio, nel Medioevo cristiano, gli eretici), distruggendo quello che, per esse, era ed è il valore fondamentale: la stabilità.
A questo servivano i clan, le confraternite, le arti e le gilde del Medioevo: a dare stabilità al corpo sociale, assorbendo la conflittualità tra i singoli e le famiglie, tra gli abitanti dei quartieri e dei borghi, tra i maestri di bottega e i lavoratori salariati. Le arti, ad esempio, avevano tra i loro scopi principali quello di impedire la concorrenza tra le diverse botteghe; non la concorrenza sleale, si badi, ma proprio la concorrenza in quanto tale. L'uomo medievale non credeva che la concorrenza fosse l'anima del commercio; pensava, al contrario, che ne fosse la perversione e il sovvertimento: perché teneva, prima che al guadagno, alla stabilità sociale.
Noi, membri di una società che ha fatto dell'intraprendenza e della concorrenza i propri idoli (mastro-don Gesualdo è il prototipo dell'eroe moderno, almeno nella letteratura italiana), facciamo molta fatica a comprendere una società che considera la stabilità sociale più importante della legge del profitto; ammesso che una tale «legge» esista.
La filosofia delle società pre-moderne può essere mirabilmente esemplificata da questo ragionamento degli anziani Borana, una popolazione africana di pastori, la cui sopravvivenza è legata all'approvvigionamento dell'acqua da alcuni profondi pozzi scavati nella viva roccia. (Ne abbiamo già parlato nell'articolo «Che cosa stanno cercando di dirci le società "primitive" prima di spegnersi per sempre», inserito sul sito di Arianna il 16/03/2009). I giovani della tribù invocavano il ricorso alle pompe a motore per diminuire la fatica; ma gli anziani della tribù si opposero, dicendo che più acqua avrebbe voluto dire più bestiame; più bestiame, avrebbe richiesto ancora più acqua: e così via all'infinito, fino all'esaurimento sia dell'acqua, che del bestiame.
Ecco, dunque, il punto cruciale che distingue le società premoderne dalla società moderna: il senso del limite, il rifiuti del miraggio dell'accumulazione dei beni.
E tutto questo, a ben guardare, è subordinato ad un valore che le società pre-moderne hanno sempre considerato irrinunciabile, nel senso che, per difenderlo, metteva conto di affrontare qualunque sacrificio, anche la morte: il valore della stabilità. Ma non si può pensare seriamente di difendere il valore della stabilità, se non si possiede una visione unitaria del reale: il relativismo è nemico della stabilità, e così pure lo sono l'indifferentismo e l'agnosticismo.
Del resto, è logico che la società odierna abbia smarrito una visione unitaria del reale: perché, per poter credere nel reale, bisogna ancora credere in qualcosa; mentre la cultura moderna non è che una corsa nichilista verso il Nulla e la morte (cfr. i nostri precedenti articoli: «La cultura moderna sta corteggiando il Nulla perché, in fondo, non crede più nella vita», e «Requiem per una società che insegue una cultura non di vita, ma di morte», consultabili entrambi sul sito di Arianna Editrice).
Una conclusione?
Dobbiamo liberarci dal ricatto del Pensiero Unico: razionalista, materialista, meccanicista, riduzionista, scientista (non sarebbe corretto definirlo ateo: perché in esso la tecnoscienza fa le veci di Dio), recuperando il valore della differenza; differenza, peraltro, che non vuol dire confusione di valori, ma distinzione e confronto tra valori diversi. L'amore per la vita ed il corteggiamento del nulla, ad esempio, non giacciono sullo stesso piano e non dovrebbero godere di eguale dignità; il primo dovrebbe essere incoraggiato, il secondo dovrebbe essere severamente condannato.
In altre parole, dobbiamo rivalutare il valore della stabilità: e, di conseguenza, dobbiamo riscoprire il senso del limite. Dobbiamo porre un freno alla nostra «hybris», alla nostra arroganza intellettuale e materiale, ritornando al senso della comune appartenenza all'universo vivente.
Il diverso non va rifiutato o criminalizzato, al contrario: egli serve a definire la nostra identità, in un confronto che sia rispettoso e reciprocamente produttivo. Non va nemmeno mitizzato: spesso si tende ad attribuirgli virtù che non possiede, solo per stanchezza e fastidio di se stessi.
Di questo abbiamo bisogno: di confronto; ma, per farlo, anche di teste capaci di pensare, e di cuori capaci di sentire, di emozionarsi davanti alla bellezza, di palpitare per qualche cosa di più e di meglio del mero accumulo di beni.