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Dimenticare Calvino e la legge coercitiva della prestazione, per riscoprire l’uomo integrale

di Francesco Lamendola - 02/11/2009


C'è un cattivo genio che allunga la sua ombra malaugurante sull'Europa e sul mondo moderno: quello di Giovanni Calvino, il nero corvo della predestinazione, il moralista che aveva trasformato Ginevra in una gigantesca stazione di polizia sessuale, il teologo fanatico e spietato che accendeva il rogo sotto i piedi dei dissidenti.
Ma il danno più grave, Calvino lo ha fatto con la sua paranoica ansia da prestazione, mediante la quale s'immaginava di scorgere i segni della benevolenza divina e la promessa della eterna beatitudine. Il puritanesimo americano, la cosa forse più brutta creata dalla modernità, viene dritta dritta dal mantello di questo funereo profeta dell'apocalisse, da questo nevrastenico del peccato e della dannazione, da questo figlio degenere del Rinascimento che meglio sarebbe stato in compagnia dei profeti esaltati e sanguinari dell'Antico Testamento, sempre pronti ad annunciare ecatombi e immani distruzioni per quanti incorrono nell'ira del Signore.
È per opera sua se la mentalità dell'azione, volta alla incessante produzione di ricchezza, è entrata nei cromosomi della modernità, trasformando prima l'Occidente, poi il mondo intero, in un immenso manicomio, ove non ci si cura di realizzare una vita a misura d'uomo, ma di produrre e consumare sempre di più, sempre di più, per raggiungere guadagni sempre più cospicui e per accumulare ricchezze sempre più ingenti.
È da Calvino che vengono l'individualismo brutale e l'inesorabile determinazione negli affari; l'ipocrisia feroce che spinge a giudicare senza alcuna indulgenza le debolezze umane, salvo poi praticarle in segreto (come si vede ne «La lettera scarlatta» di Nathaniel Hawthorne); l'incrollabile convinzione di tanti uomini politici - da Wilson a Roosevelt, da Reagan a Bush - di essere sempre e comunque nel giusto, in quanto campioni della lotta del Bene contro le forze del Male. È da Calvino che vengono quei neri corvacci senza sorriso e senza amore, i Padri Pellegrini, che andavano alla messa della domenica con la Bibbia in una mano e il fucile nell'altra, pronti ad ammazzare il primo Indiano che osasse mettere la testa fuori dai cespugli (la colpa degli Indiani: abitare da sempre una terra che Dio aveva concesso ai puritani, come già nei tempi antichi aveva concesso agli Ebrei, l'altro popolo eletto, la Palestina).
Da lì vengono la catena di montaggio, il taylorismo e il fordismo, il «destino manifesto» degli Americani, Wall Street e le Torri Gemelle, l'atomica e l'esportazione forzata della democrazia e del libero mercato, i blu-jeans e la Coca Cola, Mac Donald's e Hollywood. In breve, tutta quella mentalità efficientistica e narcisistica, quel compiacimento intriso di paternalismo e di razzismo, quella ridicola presunzione priva di consapevolezza, quell'arroganza che non sa nulla di autocritica: Lincoln e Rockefeller, Teddy Roosevelt e il gruppo Hearst, il generale Patton e il miliardario Murdoch.
Il calvinismo costituisce il presupposto, logico e cronologico, dello scientismo arrogante di Bacone e Galilei, del razionalismo inumano di Cartesio, del pietismo velleitario dell'etica di Kant, dell'idealismo delirante di Hegel e del pragmatismo utilitaristico di Dewey: filosofie tra loro diversissime, eppure collegate dalla comune smania di manipolare gli enti e di innalzare l'uomo a spese dell'intero creato. Il tutto sulla base di un antropocentrismo non mai sfiorato da un'ombra di dubbio, non mai rinfrescato da un alito, per quanto tenue, di salutare confronto con l'altro, su un piano di rispetto e di pari dignità.
Nel suo famoso e discusso libro «Essere cristiani» (titolo originale: «Christ sein», München, R. Piper & Co. Verlag, 1974; traduzione italiana di Germano Re e Marco Beck, Milano, Mondatori, 1976,  pp. 666-68), il noto teologo cattolico dissidente Hans Küng ha tracciato un ritratto efficace della degenerazione occidentale del senso della prestazione:

«Nella vita moderna contano i risultati che si conseguono. Non si domanda tanto:”Chi è il tale?”, quanto piuttosto: “Che cosa fa?”, con ciò intendendo la sua professione, il suo lavoro, le sue realizzazioni, la posizione che occupa e il prestigio di cui gode nella società. È questo che conta?
Si tratta di una problematica meno ovvia di quanto non sembri. Tipicamente “occidentale” sebbene oggi interessi anche i paesi socialisti del blocco orientale (secondo Mondo) e i Paesi in via di sviluppo del Terzo Mondo (Europa occidentale e America settentrionale) dove si è sviluppata la MODERNA SOCIETÀ INDUSTRIALE. Soltanto qui esisteva da tempo una scienza razionalmente organizzata con esperti altamente specializzati. Soltanto qui un lavoro razionalmente organizzato in libere imprese sulla base della produttività. Soltanto qui una vera e propria borghesia e una razionalizzazione specifica dell’economia e della stessa società in generale secondo una nuova mentalità economica. Perché mai soltanto qui?
Nella sua classica analisi, “L’etica protestante e lo spirito del capitalismo” (1905) […], Max Weber ha indagato a fondo questo processo. La razionalizzazione venne senz’altro stimolata da determinate condizioni economiche (fin qui aveva ragione Marx). Tuttavia (osserva giustamente Weber) non si sarebbe giunti alla razionalizzazione economica occidentale senza una nuova mentalità economica spiccatamente razionale-pratica, radicata in un ben preciso costume religioso. Furono precisi contenuti di fede e precise concezioni del dovere a generare e introdurre decisamente questo nuovo spirito nella vita e nell’economia? In che modo? Le radici del fenomeno risalgono – fatto abbastanza sorprendente – a quei problemi del tempo della Riforma che oggi si dice non siano più attuali. Applicando con involontaria coerenza la rigida dottrina calvinistica di una duplice elezione (predestinazione degli uni alla beatitudine, degli altri alla dannazione), si sottolineò nelle chiese influenzate da Calvino il valore della “santificazione”, delle opere nella vita quotidiana, del lavoro professionale come compimento dell’amore del prossimo, nonché il valore del successo di questa attività – il tutto inteso come segno visibile di una positiva elezione alla beatitudine eterna.  Fu quindi per motivi religiosi, non razionali, che maturò lo spirito del lavoro assiduo, del successo professionale e del progresso economico: un connubio gravido di conseguenza tra un’intensa religiosità e un senso capitalistico degli affari, rinvenibile in chiese e in sette storicamente importanti, presso i puritani inglesi, scozzesi e americani, tra gli ugonotti francesi, nelle comunità francesi dei riformatori e dei pietisti.
Quanto più la secolarizzazione si estese ai vari ambiti della vita e quanto più si formò il sistema economico moderno, tanto più assursero a virtù dell’uomo secolare, dell'uomo autonomo e operante nella "società industriale", l'attività infaticabile ("industria"), la disciplina severa e l'elevato senso di responsabilità. L'"abilità" in tutti i campi divenne la virtù per eccellenza, l'"utilità" il criterio dominante, il "successo" l'obiettivo finale, la "produzione" la legge di questa moderna SOCIETÀ DELLA PRODUTTIVITÀ», in cui ciascuno è chiamato a svolgere un suo ruolo particolare  (ruolo principale nella professione e per lo più svariati ruoli secondari).
L'uomo cerca così, in un mondo e in una società che si sviluppano dinamicamente, di realizzare se stesso. Diversamente da quanto avveniva nello statico mondo preindustriale, l'autorealizzazione umana, che resta in ogni caso un traguardo dell'uomo, si realizza su prestazioni personali. Si realizza solo chi realizza qualcosa. E non c'è rimprovero più amaro del sentirsi rinfacciare che non si combina nulla. Lavoro, carriera, guadagno: che cosa ci potrebbe essere di più importante? Industrializzare, produrre, espandersi, consumare a tutti i livelli; sviluppo, progresso, perfezione, miglioramento del tenore di vita sotto ogni possibile rispetto: non è questo il senso della vita? Come giustificare il senso dell'esistenza se non mediante prestazioni personali? I valori economici occupano il vertice della scala dei valori umani, la professione e le capacità personali determinano lo status sociale, la tensione verso la prosperità e la produzione fa sì che i paesi industriali sfuggano alla stretta di una povertà ancestrale e diano vita a quella che è l'odierna società del benessere.
Ma proprio questa MENTALITÀ PRODUTTIVISTICA, avallata da tanti successi, costituisce in definitiva una seria minaccia per l'umanità dell'uomo: uomo che rischia di perdere di vista non solo i valori più alti e il senso generale della vita, ma anche di essere stritolato dai meccanismi, dalle tecniche, dalle forze e dalle organizzazioni anonime che formano il tessuto di questo sistema. Quanto maggiori sono il progresso e la perfezione tecnologica,  tanto più accentuato è l'inquadramento dell'uomo nel complicato processo economico-sociale. Una disciplina sempre più rigida stringe l'uomo nella propria morda. Un'operosità  e un impegno sempre più esasperati non gi permettono di recuperare se stesso.»

Dimenticare Calvino, dunque, come atto necessario per ritrovare il senso di ciò che conta realmente nella vita: non produrre e consumare sempre di più; non possedere e manipolare illimitatamente gli enti; non anteporre l'avere e il sembrare all'essere, ma, al contrario, scendere nelle profondità dell'anima per trovarvi il tesoro inestimabile dell'autenticità.
Fino a quando continueremo a credere che la quantità sia più importante della qualità; che l'agire sia più importante del contemplare; che la riuscita dell'esistenza si possa valutare con il metro del successo esteriore, e non con quello della fedeltà alla chiamata: fino ad allora, inevitabilmente, rimarremo prigionieri di una logica disumana, che mette le cose al di sopra della vita e che pretende di commercializzare e reificare tutto, compresi valori e sentimenti.
L'attuale sviluppo della tecnica e la mal riposta aspettativa che da essa debba scaturire automaticamente un miglioramento dell'esistenza, confermano la diagnosi della nostra profonda malattia spirituale: giacché la tecnica, ipostatizzata ed eretta a norma e valore assoluto essa stessa, non solo non potrà risolvere i nostri problemi morali ed esistenziali, ma non farà altro che aggravarli, mettendo a disposizione di una umanità immatura e deresponsabilizzata un potere materiale spropositato, del quale essa non saprà fare un uso adeguato, mancandole la giusta prospettiva, che può originarsi solo dal senso del limite e dal senso del mistero.
La cosa più curiosa, nell'odierna etica neocalvinista che sta lottando per imporsi a livello mondiale, è che essa si è ormai interamente laicizzata: l'originaria ispirazione religiosa si è ridotto a pura cornice o è scomparsa del tutto, e di essa non è rimasto che il rigorismo inflessibile, lo zelo apostolico, l'ipocrisia sessuale e la sublimazione degli impulsi erotici in progettualità imprenditoriale pressoché instancabile. In altre parole, essa ha conservato il fanatismo originario senza più la dimensione del trascendente, per cui si è trasformata in una implacabile religione dell'accumulazione capitalistica e dell'azione per l'azione.
Ne è risultata una «forma mentis» fondamentalista, ma, al tempo stesso, laica e secolarizzata: una nuova forma di culto della prestazione e della manipolazione, dell'attivismo sfrenato e illimitato, al quale non bastano terre e mari, ma servono sempre nuovi pianeti da conquistare e colonizzare, per esportare ovunque le «meraviglie» di una tecnica fine a se stessa, che non risolve i problemi dell'uomo, ma li aggira e, in larga misura, li aggrava essa stessa.
Se non arriveremo a comprendere la natura fondamentalista e tendenzialmente totalitaria della via che abbiamo imboccato, sulla scia di Calvino, Francesco Bacone, Cartesio e Galilei, non riusciremo mai a esorcizzare i nostri demoni e continueremo a considerarci aggrediti dall'esterno, mentre siamo noi gli aggressori, noi occidentali, a livello mondiale.
Dimenticare Calvino, liquidare i conti con l'etica ipocrita e intollerante del calvinismo, con il suo culto nevrotico dell'azione ad ogni costo, con la sua servile adorazione del successo materiale ed esteriore, significa riconquistare la nostra umanità alienata, liberare le forze migliori che giacciono represse e imbrigliate nel nostro profondo, riconciliarci con la bellezza e l'armonia della vita.
L'etica neocalvinista non ha occhi per la bellezza e non ha cuore per la compassione; ad essa importa solo il risultato immediato, tangibile e plateale; non sa che farsene dell'uomo interiore e dello splendore del mondo.
Ma noi non possiamo accontentarci di vivere a metà, come l'uomo a una dimensione di cui parlava Marcuse; non possiamo adattarci a vivere a misura della nostra professione e dei guadagni che essa può assicurarci.
Tutte queste cose non hanno niente a che fare con la felicità: mentre gli esseri umani sono chiamati alla felicità, cosa che è possibile solo se essi riescono a sviluppare integralmente le loro possibilità migliori: che non sono - evidentemente - solo quelle economiche, ma tutte quelle della mente e del cuore.
L'uomo neocalvinista, l'eroe moderno dell'accumulazione e del «progresso», è un infelice, che cerca di mettere a tacere la propria infelicità accumulando sempre di più, impegnandosi sempre di più, manipolando le cose in misura sempre maggiore. In altre parole, egli è il peggiore nemico di se stesso, perché più soffre, e più cerca sollievo addentrandosi in una via che lo allontana in misura crescente da una possibilità di guarigione.
In fondo, è un uomo pieno di paura: paura di se stesso, di tutta quella vasta parte di sé che non conosce e nella quale non osa gettare neppure uno sguardo. Ecco perché, dietro la maschera efficientista ed aggressiva, dietro il dinamismo esasperato e la competitività senza quartiere, egli cela una enorme fragilità: è un gigante dai piedi d'argilla, che, se perde l'equilibrio anche di poco, cade per non più rialzarsi.
Ma l'uomo non può vivere nella paura, senza condannarsi a una vita da recluso, miseramente mutilata: e poco importa che egli sia il recluso di se stesso, e non già di forze esterne; anzi, questo fatto è proprio ciò che rende più amara e intollerabile la sua prigionia.
L'uomo deve vivere nel coraggio, nel coraggio di essere se stesso e di cercare di realizzare il proprio destino, nella qual cosa consiste la sua felicità.
Perciò dobbiamo dimenticare Calvino, il nero corvo del malaugurio, e la sua etica del lavoro che non dà gioia, che non dà pace, che non sa vedere la bellezza e che non sa provare compassione per lo spettacolo del dolore; ed aprirci con gioia al mistero del mondo e alla luce dell'Essere.