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Teheran dice "ni", per l'Occidente è "no"

di Simone Santini - 05/11/2009

 

Il dilemma iraniano. La proposta El Baradei prevedeva il principio che l'Iran trasferisse all'estero, in Russia e poi in Francia, il suo uranio bassamente arricchito (sotto il 5%) per essere prima trasformato in uranio a medio arricchimento (20%), necessario per usi civili ma inadatto a scopi militari, e quindi ridotto in barre per i suoi usi specifici (1).
Quale risposta dare a questa eventualità deve aver aperto una autentica lotta all'interno del regime iraniano, di cui in occidente sono giunti solo echi. Già significativa la sola tempistica. El Baradei aveva concesso quarantotto ore alle parti per studiare la proposta ed accettarla, l'Iran aveva chiesto quasi una settimana di proroga. Intanto, in quei giorni di attesa, si erano rincorse voci, indiscrezioni, dichiarazioni.
In un primo momento sembrava che gli iraniani avessero intenzione di rifiutare l'accordo, poi questo aveva lasciato posto alla richiesta di "modifiche sostanziali" pur nell'accettazione dei principi della proposta ("attitudine positiva" era definita da Teheran). La "controproposta" si condensava in due esigenze: Teheran non voleva privarsi di gran parte del suo uranio (l'80%) tutto in una unica soluzione, preferendo la formula di più invii successivi all'estero; nel contempo, si ventilava la possibilità che ad ogni invio di materiale fissile a basso arricchimento corrispondesse lo scambio con altrettanto uranio a medio arricchimento, così da mantenere sempre integra la propria riserva. Tutto ciò affinché non esistesse la possibilità di bloccare il programma nucleare da parte delle potenze straniere.
Questa risposta di compromesso, mai formalmente ufficializzata, veniva inoltrata in una lettera del 28 ottobre alll'Agenzia che annunciava essere in corso consultazioni del Direttore generale Mohamed El Baradei con tutte le parti in causa "con la speranza che un accordo sulla proposta" potesse "essere raggiunto in tempi brevi" (Apcom 29 ottobre).
Il giorno successivo, durante un pubblico discorso nella città di Mashad, il presidente Ahmadinejad dichiarava che "le potenze occidentali sono passate da una politica di confronto alla cooperazione nella questione del nucleare iraniano, per questo ora possiamo collaborare, ma non cambieremo assolutamente la nostra posizione sul diritto al nucleare [...] non indietreggeremo di una iota [...ma...] accogliamo favorevolmente lo scambio di combustibile, la cooperazione nucleare, la costruzione di reattori e di centrali nucleari. Siamo pronti alla cooperazione".
Questa apertura veniva parzialmente ridimensionata da dichiarazioni dello stesso Ahmadinejad all'agenzia Isna il 31 ottobre: "La realtà ha imposto alle potenze occidentali di tollerare l'Iran" perché Teheran "guida l'opinione pubblica mondiale [...] Speriamo che le trattative continuino e i Satana non interferiscano, perché il regime sionista (Israele, ndr) e i Paesi che vogliono il dominio sono arrabbiati a proposito di questi negoziati [...] Se una mano sincera viene tesa all'Iran la nostra risposta sarà costruttiva, cordiale e positiva, ma se sarà tesa con ipocrisia, allora la risposta sarà la collera rivoluzionaria e li faremo pentire". La nazione iraniana lo può fare, secondo il presidente, perché essa è "forte", mentre "i nemici sono delle zanzare" (Ansa, 31 ottobre).
Questa ambivalenza di Ahmadinejad ed il ricorso alla retorica sono facilmente spiegabili in termini di dialettica politica interna. Il presidente si trova tra due fuochi, la sua autorevolezza minata dai dissidi interni.
Il presidente del Parlamento iraniano, Ali Larijani, considerato un conservatore "realista", già mediatore iraniano sul nucleare fino alle sue dimissioni e apprezzato in quella veste dalle cancellerie occidentali per la sua moderazione, ha stavolta tenuto una posizione insolitamente dura: "L'Occidente insiste nel trovare sotterfugi o imporre alcune delle sue pretese all'Iran. Gli occidentali stanno insistendo per prendere una strada che rappresenta un imbroglio ed un'imposizione [...] stanno dicendo vi daremo il 20 per cento di uranio arricchito per il reattore di Teheran solo se voi date a noi il vostro uranio arricchito. Non vedo il collegamento tra le due cose" (ASCA-AFP, 24 ottobre).
Addirittura netto e oltranzista il giudizio di un altro importante esponente del Parlamento, il portavoce della commissione esteri e sicurezza nazionale, Kazem Jalali, sulla proposta El Baradei: "Totalmente inaccettabile. Non c'è alcuna garanzia che il nostro uranio torni trasformato in combustibile. Non è accettabile che inviamo 1.200 chilogrammi del nostro uranio all'estero, l'Iran potrà comprare il combustibile da qualunque Paese, senza restrizioni" (Ansa, 31 ottobre).
E anche il riformista moderato Mir Hossein Mussavi, principale avversario alle scorse presidenziali di Ahmadinejad e uno dei leader delle proteste anti-governative, si è dichiarato contrario, insieme ad altri deputati, all'ipotesi dell'arricchimento all'estero dell'uranio (Televideo RAI, 29 ottobre).

Le pressioni occidentali. Ma la dirigenza iraniana non si trova solo a dover affrontare contraccolpi interni, dall'esterno giunge un vero e proprio fuoco di fila, tra pressioni e minacce, che si inseriscono nelle pieghe dei dissidi interni al regime quasi esistesse una comune orchestrazione.
Il 26 ottobre, due giorni dopo la dura presa di posizione di Larijani, il ministro degli Esteri francese, Bernard Kouchner, in una intervista al britannico Daily Telegraph, dichiarava che gli israeliani "non tollereranno mai che esista una bomba iraniana, lo sappiamo bene tutti [...] noi possiamo fermare [con un accordo] questa escalation verso il conflitto. Abbiamo il tempo che Israele ci darà prima di reagire, perché è chiaro che Israele reagirà dal momento che raggiunga la certezza che c'è una minaccia". Questa posizione è doppiamente grave poiché da un lato contempla e tacitamente accetta un'azione di guerra preventiva di Israele contro l'Iran, dall'altro espone il fianco dei mediatori di Teheran più inclini alla trattativa alle critiche di debolezza e cedimento nei confronti dei nemici israeliani ed in genere degli occidentali da parte dei "falchi" interni. Non bisogna poi trascurare che è stata proprio la Francia, durante i negoziati di Vienna, a porre in grave pericolo l'accordo con la sua azione diplomatica.
Il 28 ottobre, dopo che gli iraniani avevano spedito la loro controproposta alla Aiea, la Apcom, citando la France Presse, lanciava questa agenzia: "Gli Stati Uniti sono pronti a rispondere all'Iran in caso di mancato rispetto degli impegni assunti sul programma nucleare: lo ha affermato il consigliere per la Sicurezza nazionale statunitense, James Jones. "Che sia ben chiaro: il nostro obbiettivo è che l'Iran sospenda i propri programmi nucleari", ha ribadito Jones in un discorso tenuto presso la J-Street, un'associazione israeliana di Washington". In un momento delicatissimo, il consigliere di Obama lanciava un missile che da solo poteva essere in grado di affondare qualunque ulteriore trattativa, rassicurando gli alleati israeliani sulle reali intenzioni americane su una posizione, la sospensione del programma nucleare, da sempre considerata del tutto inaccettabile dall'Iran.
Significative poi le reazioni dal Dipartimento di Stato americano. Il segretario Hillary Clinton passava dai primi toni interlocutori, "stiamo cercando di capire cosa vogliono gli iraniani" (CNN, 30 ottobre), ai toni minacciosi mentre si trovava in visita ufficiale proprio in Israele: "Teheran accetti ora la bozza, la nostra pazienza ha un limite" (Ansa, 31 ottobre), fino ad una sorta di ultimatum dichiarato mentre si trovava in Marocco: "E' un punto di svolta. Chiediamo all'Iran di accettare l'accordo così come noi l'abbiamo proposto. Non lo cambieremo" (France Presse, 2 novembre).
E quasi a decretare la parola fine a questi scambi dialettici, e forse a chiudere definitivamente gli spazi per una trattativa, è giunta la risposta alla Clinton da parte dell'ayatollah Khamenei: "L'Iran rifiuta negoziati i cui esiti siano già stati decisi dagli Usa, un tale dialogo sarebbe come quello tra un lupo e un agnello [...] Mentre sorridono gli americani nascondono un pugnale dietro la schiena. I responsabili governativi che dovessero essere ingannati da quel loro sorriso tattico sarebbero degli ingenui. [...Gli oppositori interni vorrebbero...] stendere il tappeto rosso agli americani ma questo non sarà loro consentito" (Ansa, 3 novembre).

Altri bagliori di guerra segreta. Non è solo con le schermaglie diplomatiche palesi che si può imbrigliare l'avversario per condurlo dove si desidera. Efficacissime sono ovviamente le operazioni segrete di cui i rapporti Iran/Occidente presentano molteplici casi (2).
Maurizio Molinari, su La Stampa del 19 ottobre (3), racconta del lavoro investigativo di due giornalisti d'inchiesta, l'americano Seymour Hersh e l'israeliano Ronen Bergman, il primo autore di uno studio pubblicato sul New Yorker sulle "Black Operations" occidentali contro il regime degli ayatollah, il secondo di un volume dal titolo esemplificativo "The secret war with Iran".
Entrambi ricostruiscono come, durante l'Amministrazione Bush, il Congresso americano stanziasse "400 milioni di dollari a sostegno delle operazioni clandestine in Iran, da condurre in solitudine o con gli alleati", fondi che Barack Obama non ha ancora chiesto di bloccare.
Continua Molinari: "Trattandosi di operazioni clandestine non vi sono fonti disposte, pur coperte dall'anonimato, a parlarne. E' tuttavia possibile, seguendo i tracciati di Hersh e Bergman, ricostruire quella che assomiglia ad una morsa di attività aggressive".
E così nasce il sostegno all'organizzazione del Belucistan (sud-est dell'Iran) "Jundallah" responsabile di numerosi attacchi, dal 2005 fino ai più recenti, soprattutto contro le milizie dei Pasdaran ma non disdegnando lo stragismo indiscriminato come nel caso dell'attentato alla moschea di Zehdan.
Oppure ai guerriglieri in Kurdistan (nord-ovest) del Pjak capaci "di vere e proprie operazioni belliche come l'abbattimento di elicotteri e, nello scorso aprile, l'assalto in forze ad una stazione di polizia nel Kermanshah".
Infine, nella regione del Khuzestan (sud-ovest), dove "operano diversi gruppi per «la liberazione dell'Ahwaz» che nel 2005 hanno rivendicato gli attentati dinamitardi con cui e' iniziata la «intifada» arabo-sunnita mirata a staccare la provincia del Khuzestan dall'Iran".
Caratteristica comune a questi gruppi sono i legami con strutture terroristiche e guerrigliere che agiscono nei paesi confinanti con l'Iran, ovvero Pakistan, Afghanistan e Iraq, tutti quanti, con varie forme e modalità, sotto il controllo militare e di intelligence americano, britannico, israeliano e in taluni casi anche francese.
Oltre l'attività insurrezionale che si inserisce lungo linee di frattura etnico-religiose, una particolare azione eversiva è quella del terrorismo attraverso incidenti aerei, "che dal 2002 bersagliano scienziati, militari e pasdaran, in maniera talmente misteriosa da suggerire una matrice israeliana. Si tratta di oltre una dozzina di incidenti, la cui sequenza e' impressionante: nel 2002 cade un Antonov uccidendo 46 scienziati aerospaziali russi e ucraini, nel 2003 e' la volta di un Ilyushin con 276 pasdaran, nel 2005 un C-130 militare si schianta a Teheran, nel 2006 tocca ad un velivolo dei pasdaran con 11 alti ufficiali, nel 2008 e' la volta di un Boeing kirghizo affittato da Teheran e lo scorso luglio di un Tupolev in viaggio verso Erevan, a bordo del quale vi sarebbero stati 9 scienziati nucleari iraniani e 3 russi. La guerra continua".

Altro elemento da considerare con massima attenzione è l'incontro segreto che si sarebbe svolto a Il Cairo alla fine di settembre tra la responsabile israeliana della Commissione per l'energia atomica, Meirav Zafary-Odiz, e il capo negoziatore iraniano per il nucleare Ali Ashgar Soltanieh, un incontro storico tra rappresentanti di paesi che non avveniva dalla rivoluzione khomeinista del 1979. I due avrebbero discusso di non proliferazione nucleare in Medio Oriente e di questioni attinenti il nucleare civile. Pare che durante i colloqui il negoziatore iraniano abbia chiesto alla responsabile israeliana: "Ma allora ce l'avete o no la bomba atomica?", ricevendo come risposta solo un beffardo sorriso.
Difficile dare una interpretazione di tali avvenimenti. Secondo l'attento analista di questioni mediorentali Gaetano Colonna (4) "negoziati diretti sono il segnale di un punto di gravità molto alto, un punto di svolta decisivo, e l'Iran ci arriva nella grande incertezza derivante dalla debolezza strutturale del paese".
Di certo la tempistica con cui il quotidiano israeliano Haaretz ha divulgato la notizia dell'incontro, destinata a rimanere riservata, non è apparsa neutrale, avvenendo il 22 ottobre (5), il giorno dopo l'ufficializzazione della proposta di El Baradei uscita dai negoziati di Vienna, mentre Teheran stava studiando la risposta che era attesa per il giorno successivo. Non a caso le autorità iraniane hanno dovuto seccamente smentire l'avvenuto incontro, proprio per non far apparire una eventuale accettazione dell'accordo, nei confronti dei settori più oltranzisti, come un cedimento verso gli israeliani e gli occidentali. Un accorto uso dei mezzi di stampa per limitare, se non addirittura minare, gli spazi diplomatici di manovra del nemico.

Conclusioni. L'analisi dei fatti e la loro concatenazione cronologica sembrano dimostrare che, tanto sui negoziati di Vienna, che sulle successive schermaglie diplomatiche tendenti ad influenzare le decisioni iraniane, sia pesantemente aleggiato lo "spirito di Rambouillet". Come durante le trattative tra occidente e Serbia che precedettero la guerra del Kosovo, infatti, scopo delle potenze occidentali, in accordo nel caso attuale con Israele, non è sembrato quello di giungere ad una soluzione di compromesso ma piuttosto creare le condizioni politiche favorevoli per una recrudescenza dei rapporti cercando di farne ricadere la responsabilità sulla controparte.
C'è da dire che per far fallire Rambouillet fu necessario che all'ultimo momento gli americani inserissero nell'accordo "l'allegato 7" che di fatto chiedeva a Belgrado la dismissione della propria sovranità nazionale a favore della Nato, ovvero una resa incondizionata. Solo l'arroganza occidentale e l'accondiscendenza vergognosa di una "informazione di guerra" consentirono di far credere alle opinioni pubbliche europee ed americane che furono i serbi a rifiutare l'accordo.
Per le trattative di Vienna sul nucleare iraniano è stato sufficiente molto meno. É bastato il sapiente e concertato uso dei negoziati diplomatici che hanno sfruttato le debolezze e le divisioni nel campo avversario, e il terreno fertile già predisposto nel corso degli anni attraverso operazioni psy-ops e di intelligence militare.
In condizioni normali l'accordo con l'Iran sarebbe già stato raggiunto. In condizioni normali le trattative potrebbero ancora proseguire ed arrivare ad un esito positivo. Appare infatti del tutto chiaro come Teheran non abbia attualmente né la volontà né la possibilità fattuale di costruirsi la bomba nucleare, e certificarlo, per l'occidente, sarebbe molto semplice. Se questo non avviene è solo perché la questione nucleare è in realtà il pretesto che copre interessi geopolitici e strategici di straordinaria importanza.
L'Iran, dal canto suo, sembra avere definitivamente sprecato la sua grande occasione. Certo, le remore iraniane sul possibile blocco del suo programma nucleare civile, insite nelle pieghe dell'accordo di Vienna, sono legittime; certo, a nessun altro paese è chiesto di negoziare un proprio diritto assoluto (l'accesso al nucleare civile) sulla base di un sospetto indimostrato; certo, questo paese subisce attacchi terroristici e campagne mediatiche aggressive proprio da quei nemici che gli intimano di negoziare.
Allo stesso tempo, se gli iraniani avessero avuto la lucidità, e il coraggio, di accettare la proposta El Baradei, appoggiandosi sulle garanzie che poteva offrire la Russia, avrebbero potuto spuntare in modo decisivo le manovre avversarie e raffreddare i motori dei bombardieri israeliani.
Questo non è avvenuto, con ogni probabilità era l'ultima occasione. Il clima sull'Iran torna plumbeo, e nei prossimi mesi, a meno di un colpo di scena che allo stato appare improbabile, non potrà che peggiorare.


(1) Per una puntuale ricostruzione si veda il precedente "L'Iran nella strategia del ragno"
http://www.clarissa.it/esteri_int.php?id=1239
(2) Per approfondimenti rimandiamo ancora al precedente "Bagliori di una guerra segreta"
http://www.clarissa.it/esteri_int.php?id=1236
(3) Maurizio Molinari,"La guerra segreta degli 007", La Stampa, 19 ottobre
http://archivio.lastampa.it/LaStampaArchivio/main/History/tmpl_viewObj.jsp?objid=9634251
(4) Gaetano Colonna è autore del poderoso studio storico-politico "Medio Oriente senza pace", di prossima pubblicazione per Edilibri, in cui si ricostruiscono le tormentate vicende dell'ultimo secolo in quell'area.
(5) "Iran, Israel attend secret nuclear meet in Cairo", Haaretz, 22 ottobre
http://www.haaretz.com/hasen/spages/1122798.html.