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Federico Fellini, genio provinciale che intuì la decadenza italiana

di Stenio Solinas - 10/11/2009

 

«Siamo nati con tre immagini» diceva Federico Fellini: «II re, il duce, il papa». E ancora: «Per la mia generazione, la prostituta è stata l’alter ego della madre all’italiana. Ci ha iniziato alla vita sessuale con la stessa ineluttabilità con cui quest’ultima ci ha nutriti e vestiti». Era una interpretazione interessante, anche se parziale, ma Fellini non era uno storico o un sociologo, bensì un artista attratto più dalla finzione che dalla realtà, convinto anzi che la seconda fosse la prima: via Veneto o Rimini rifatte in studio, gli attori che al posto delle battute recitavano dei numeri, il copione che non esisteva, il film che era un pretesto... La vita come un susseguirsi di immagini, volti, travestimenti che a seconda di chi guardava cambiava di senso e di significato: la processione religiosa che si fa sfilata militare, défilé di moda, corteo politico, puttan-tour... Non è un caso che nel dedicargli questa imponente mostra al museo Jeu de Paume il curatore, Sam Stourdzé, le abbia dato per titolo La Grande Parade; né che la retrospettiva con cui la Cinémateque di Parigi lo celebra si intitoli «La fabbrica dell’immagine». Forte di più di trecento immagini, numerosi inediti, spezzoni di film, di documentari e di interviste, La Grande Parade ha nel cinquantenario della Dolce vita il suo punto focale, luogo deputato di un’estetica e, a suo modo, di un’etica.

Oggi è difficile rendere il clima, stroncature feroci ed esaltazioni assolute, che accompagnò quel titolo: interventi della Chiesa e dello Stato, articoli a getto continuo, cinema presi d’assalto, sputi e/o applausi durante le proiezioni. Il film non piacque ai grandi maestri dell’epoca, i Rossellini, i Visconti, i De Sica. Il primo pensò che Fellini, considerato un discepolo, fosse improvvisamente impazzito; il secondo disse che i nobili di La dolce vita «erano i nobili visti dal mio cameriere»; il terzo lo definì «una cafonata, il sogno di un provinciale». Avevano torto e insieme avevano ragione, perché con esso Fellini usciva definitivamente dal neorealismo, evitava il giudizio dall’alto, si stupiva e quindi si commuoveva dal basso, andando a raccontare mondi che non conosceva con la passione un po’ infantile che si ha quando si avanza in un territorio sconosciuto. Ma il «gran rifiuto» dei tre maestri dell’epoca fa un po’ piazza pulita di molto del pasticcio intellettual-critico costruito a posteriori, la favola di un’Italietta provinciale e arretrata che gridava contro il capolavoro, incompreso e temuto e una classe dei colti progressista e illuminata che invece lo difendeva. Nella realtà era tutto più complesso e Fellini vedeva in anticipo ciò che nell’Italia di allora era ancora embrionale: lo svacco e lo sbraco, la crisi delle idee e degli ideali, l’asservimento intellettuale, lo strapotere dei soldi, il venir meno delle élites. Pochi film emanano lo stesso sentimento di impotenza e di decadenza.
Anche sul fenomeno della dolce vita come invenzione felliniana, bisogna intendersi. La Hollywood sul Tevere, via Veneto e i paparazzi, le sbronze e le botte, il gratin mondano che mischiava cinematografari e romanzieri, il diavolo degli spogliarelli al Rugantino e dei festini a Capocotta con l’acqua santa delle messe nelle cappelle dei palazzi nobiliari esisteva veramente e negarlo è stupido oltre che falso. Dallo Specchio a Cronache italiane a Paese sera all’Espresso, il pettegolezzo della stampa era ancora in bilico fra il dileggio e l’attrazione, lo stile moralistico con cui si dava conto di amori e scandali, elementi che facevano vendere, e però ci si riservava il diritto di farvi su la morale.
Certo, era un’Italia provinciale, una Roma provinciale, un Fellini provinciale. Ma era una provincialità consapevole, senza complessi. La provincialità di produttori come Peppino Amato, che al culmine di una discussione sui costi del film, grida agli avvocati di Fellini: Siete pazzi. Che vulite da me? ’O culo? e si cala i pantaloni... Oppure, al momento di firmare finalmente il contratto, dice serio: «Piuttosto mi bevo l’inchiostro», lo fa, si sente male e corre al cesso mentre Fellini lo segue con il tampone della carta assorbente... La provincialità del romano che sa cos’è la fame e che di fronte all’arrivo sul set dell’attrice Anouk Aimée, magra, sofisticata, urla all’indirizzo del regista: A Fellì, portela ar Verano, ovvero al cimitero... La provincialità di chi, come Fellini stesso, sa che Roma nella sua storia ha ingoiato tutto e tutto digerito, e a salvarla è proprio il cinismo bonario di chi vive in un’eternità impalpabile quanto reale...
Nelle intenzioni del regista La dolce vita doveva essere anche «una testimonianza ingenua, affettuosa, incantata. Volevo solo constatare che nonostante la confusione, la paura, lo sgomento, la vita potesse essere dolce». Può anche darsi che lo stoicismo felliniano stridesse in quell’Italia del 1959 che, uscita dal dopoguerra, stava per entrare e per perdersi nel boom dei Sessanta. C’era innocenza e speranza, insomma, e si faticava ad accettare che un giovane regista avvertisse che, invece, la festa da poco cominciata fosse già finita.