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Un aumento quantitativo delle conoscenze è sufficiente per parlare di Progresso?

di Francesco Lamendola - 16/11/2009


L’idea di «progresso» è un’idea squisitamente moderna: non l’avevano né gli antichi, né i medievali.
La parola latina «progressus» è composta dalla particella «pro» (avanti) e da «gressus», che è il participio passato di «gradi» (camminare). Quindi essa indica il movimento del camminare in avanti e, in senso figurato, il miglioramento del singolo o della società, la crescita del benessere, l’aumento del sapere.
Tutti questi elementi, tuttavia, non formavano affatto quell’idea complessiva di trasformazione radicale, che la parola ha assunto nella modernità. Per gli antichi, tanto l’individuo quanto le comunità potevano progredire, ma lentamente e gradualmente, nell’ambito di un rapporto fra l’io e il mondo, fra la propria collettività e quelle altrui, che non era mai di natura brusca e traumatica, ma sempre moderato e tale da poter essere metabolizzato.
E questo perché la concezione del tempo propria degli antichi non era lineare, ma ciclica, per cui non si vedeva la storia come una marcia verso il futuro, ma come una parabola destinata a riportare gli esseri umani là dove si trovavano in precedenza. Non esisteva, quindi, l’atteggiamento di superiorità dei  «moderni» nei confronti degli «antichi»: sarebbe stato un atteggiamento assurdo e incomprensibile.
La concezione lineare del tempo comincia a essere rivista non con l’avvento del cristianesimo, come è stato detto, ma con l’espansione formidabile dell’Impero Romano, che condusse molti intellettuali - Virgilio in primis - a vedere in esso uno strumento del Fato, che, come tale, non può essere interpretato che in senso non casuale, ma provvidenzialistico. È il Fato che muove l’Impero di Roma verso il compimenti della propria missione: riunire tutti i popoli dell’Orbe sotto una sola legge ed assicurare ad essi pace e giustizia.
In questo senso, l’Impero Romano opera una rottura rispetto alla storia precedente e introduce elementi di messianismo e perfino di soteriologia, non senza l’influsso determinante di alcune religioni universalistiche provenienti dall’Oriente, ma anche di una religione orientale che non era affatto universalistica, ma, al contrario, strettamente nazionalistica: l’ebraismo. Solo delineando un contesto di questo genere, si può spiegare un testo letterario come la IV ecloga delle «Bucoliche» di Virgilio, tutta pervasa da una trepidante ansia di rinnovamento del «saeculum», ossia del mondo, in chiave spirituale e religiosa.
La filosofia cristiana trova già pronta questa sensibilità e vi innesta la propria concezione cosmologica e teologica, la quale vede la storia come un processo lineare che parte con la Creazione, culmina con la Redenzione ed avrà termine con il Giudizio finale. Tuttavia, il cristianesimo insiste sull’idea di progresso come fatto spirituale e, soprattutto, come risultato di una collaborazione fra l’uomo e Dio, termine ultimo al quale il primo aspira a ricongiungersi ed al quale domanda, con fede, il dono della Grazia. Inoltre, la prospettiva storica del cristianesimo è escatologica: il mondo non è eterno; verrà la fine dei tempi e ogni cosa tornerà al suo Creatore, per cui la storia stessa perderà di significato e sarà annullata, con tutte le sue illusioni di potenza e di sicurezza (il Regno di Dio verrà come un ladro nella notte, dice il Vangelo).
Bisogna arrivare all’Illuminismo, le cui basi teoriche sono già contenute nella Rivoluzione scientifica del XVII secolo, perché la cultura europea giunga ad elaborare l’idea di progresso così come la conosciamo noi oggi. L’«Enciclopedia» definisce il progresso come un continuo accrescimento del sapere, beninteso ad esclusivo vantaggio dell’uomo, secondo il vecchio motto di Francesco Bacone: «sapere è potere».
Si noti che i campioni del nuovo paradigma scientista e razionalista della modernità non hanno fatto altro che trasportare nella propria concezione della storia le categorie proprie del pensiero cristiano: il passato corrisponde al male (cioè all’ignoranza; così come, nella visione religiosa, al peccato); il presente, al bene (cioè al sopraggiungere dei «lumi» della ragione; così come, nella prospettiva cristiana, alla redenzione).
Insomma anche l’Illuminismo è una religione di salvezza, basata sul concetto di caduta e di riscatto. Non ha forse Kant definito l’Illuminismo come l’uscita dell’uomo dallo stato di minorità, in cui si trovava per propria COLPA? Solo che il nuovo Dio è il Progresso, e lo strumento della prossima redenzione è la ragione logico-matematica.
Va da sé che, assumendo una tale prospettiva, i moderni si sentono automaticamente superiori agli antichi, per il puro e semplice fatto di venire cronologicamente dopo di essi e, pertanto, di disporre d'un maggior cumulo di conoscenze. Ed è proprio qui la radice di quella insofferenza, e, ben presto, di quell'autentico disprezzo, che la cultura della modernità elargisce dapprima all’aristotelismo di impostazione tomista, poi al Medioevo «tout-court», visto come epoca dell’oscurantismo e della superstizione per antonomasia.
Anche i moderni, come il Virgilio dantesco, possono dire della cultura medievale, e anche di quella antica: «nel tempo de li dei falsi e bugiardi» («Inferno», I, 72); sottintendendo che essi, invece, vivono nel tempo della vera religione: quella del Progresso.
Senonché, a ben guardare, qui ci troviamo in presenza di un duplice errore, metodologico e speculativo.
Errore metodologico, perché i cantori dell’ideologia progressista non hanno minimamente considerato che «antico» e «moderno» sono termini relativi, non assoluti; e che ciò che oggi è moderno, domani sarà antico, così come vi è stato un tempo nel quale fu moderno ciò che oggi ci appare antico: per cui è assurdo caricarli di giudizi di valore, come se la modernità fosse intrinsecamente superiore all’antichità, ossia un valore auto-evidente.
Errore speculativo, perché rimane tutto da dimostrare che l’accumulo puro e semplice delle conoscenze costituisca di per sé un bene, per non dire un progresso.
Innanzitutto, bisogna vedere quali conoscenze, e afferenti a quale ambito di realtà. Possono davvero migliorare la vita, di per se stesse (vale a dire, indipendentemente dall’uso che se ne farà) delle nuove conoscenze relative all’ordine materiale?
In secondo luogo: quando mai si è visto che la semplice crescita quantitativa corrisponda, automaticamente, ad una crescita qualitativa e, quindi, ad una crescita complessiva della nostra conoscenza? Sarebbe come dire che un calcolatore elettronico, capace di immagazzinare infinite conoscenze, è qualche cosa di più progredito di un essere umano, che può apprenderne e conservarne solo un numero limitato. E, purtroppo, questo è precisamente il versante lungo il quale la cultura moderna sta scivolando.
Una descrizione molto chiara dell’idea moderna di progresso, e perfino commovente nella sua ingenua autoreferenzialità, è contenuta nella «Introduzione» di Isaac Asimov del suo libro «Esplorando la Terra e il cosmo» (titolo originale: «Exploring the Earth and the cosmos,» Nightfall, 1982; traduzione italiana di Roberta Rambelli Pollini, Milano, Mondatori, 1983, pp. 9-10):

«Al giorno d’oggi siamo così abituati alla vastità della conoscenza umana, estesa in cento direzioni diverse, che tendiamo a dimenticare quanto siamo limitati come individui.
Dimenticate tutto ciò che è venuto prima di voi, tutto ciò che esiste oltre a voi, e considerate ciò di cui voi potete avere un’esperienza diretta. Non è molto!
"Tutto ciò che l'occhio può vedere si trova entro una distanza massima di un paio di chilometri.. Provate a viaggiare senza l'aiuto di altre persone o di mezzi inanimati e vi accorgerete che già una ventina di chilometri diventa un'impresa sfiancante. In effetti, fino a tempi molto recenti, in maggioranza la gente viveva tutta la sua esistenza entro un raggio di pochi chilometri rispetto al luogo di nascita.. Tutto il resto lo conosceva per sentito dire.
E poi? A che altezza potete arrampicarvi? A che profondità potete scendere? Da soli, potete arrampicarvi su un albero alto qualche metro  o calarvi in un pozzo egualmente profondo pochi metri. Potete guardare gli uccelli e sognare, ma si tratta appunto d'un sogno. E i corpi celesti? Sono l'epitome stessa dell'irraggiungibile- "Volere la Luna" è una frase fatta per alludere a ciò che non si può avere; eppure tra tutti i corpi celesti la Luna è la più vicina.
Che cosa riuscite a ricordare, da soli? Forse i vostri nonni, e ciò che vi raccontavano dei tempi in cui erano giovani, e dei loro nonni? Fino a cent'anni fa, magari: e poi tutto si dissolve nella nebbia.
Qual è la cosa più grande di cui potete fare l'esperienza? Una montagna? La più piccola? Un granellino di polvere che danza i un raggio di sole? La più calda? Un falò? La più fredda? Una gelida mattina d'inverno? Siete limitati in tutte le direzioni, e il mondo vi circonda con la sua piccolezza
Ma gli esseri umani hanno qualità che, per quanto ne sappiamo, nessun altro essere vivente possiede.  Abbiamo una curiosità inesauribile e un'immensa ingegnosità. […]
Il patrimonio delle conoscenze e delle idee finì per raggiungere dimensioni mondiali e permanenti, e venne il momento in cui ogni individuo ebbe a sua disposizione tutte le conquiste fatte e dai contemporanei e da coloro che vennero prima di noi.
La conoscenza crebbe, dapprima lentamente e poi con una vera e propria esplosione, e l'orizzonte umano si allargò in tutte le direzioni…»

Ebbene, già dalla prima affermazione di Asimov traspare chiaramente la deformazione materialistica e razionalistica, propria della cultura moderna. Egli afferma, come preambolo di tutto il suo ragionamento (se di un ragionamento si tratta, e non piuttosto di una petizione di principio) che ciò di cui noi possiamo avere una esperienza diretta «non è molto».
Ma questa è una dichiarazione estremamente opinabile: non la pensavano così Buddha, Socrate, Gesù e molti altri illuminati. Al contrario, essi pensavano che ciò di cui possiamo avere una esperienza diretta, ovvero il nostro stesso io, la nostra interiorità, è molto, moltissimo; e, comunque, costituisce tutto ciò su cui effettivamente l’essere umano è in grado di lavorare, anche nell’ipotesi che egli persegua una trasformazione del mondo esterno.
Segue un grossolano errore di fatto, là dove Asimov sostiene tranquillamente che «tutto ciò che l'occhio può vedere si trova entro una distanza massima di un paio di chilometri».I corpi celesti si trovano a distanze immense da noi, eppure li vediamo distintamente: ad occhio nudo, sono non meno di duemila le stelle e gli altri oggetti celesti visibili nel corso dell'anno, da un punto qualsiasi della superficie terrestre. Fino al cannocchiale di Galilei, l'astronomia studiava il cielo ad occhio nudo: questo non ha impedito ad Egiziani, Babilonesi, Minoici, Indiani, Cinesi, Maya, Greci ed Arabi, di acquisire conoscenze estremamente sofisticate sul cielo notturno e suoi movimenti di stelle e pianeti.
Il pianeta Urano, che si dice invisibile a occhio nudo ed il merito della cui scoperta viene generalmente attribuito all'astronomo William Herschel, nel 1781, in realtà era già noto al popolo africano dei Shilluk, perché non è vero che sia invisibile, ma si trova al limite della visibilità umana, e quel popolo africano era riuscito a vederlo assai prima che gli Europei cominciassero a scrutare il cielo notturno per mezzo di strumenti ottici di ingrandimento.
Altro che due chilometri di visuale! Noi possiamo vedere con molta chiarezza, dall'emisfero meridionale, una nuvola di polveri stellari nella Croce del Sud, denominata Sacco di Carbone, che è distante dalla Terra la bellezza di 500 anni luce! Strano che Asimov, come scrittore di fantascienza (da noi non particolarmente ammirato, ma questo è un altro discorso), sia incorso in una svista così macroscopica.
E non è finita. Subito dopo, Asimov afferma che già viaggiare a piedi, o a dorso di animale, per una ventina di chilometri, è impresa sfiancante; e che, fino a pochi anni fa, quassi nessuno si muoveva oltre gli angusti confini del proprio orizzonte. Anche lasciando da parte l'antichità e le straordinarie imprese esplorative dei Fenici, dei Polinesiani e di altri popoli, basterebbe ricordare che, nel Medioevo, moltissime persone comuni intraprendevano lunghi pellegrinaggi religiosi da un capo all'altro del continente europeo, per esempio a Roma, a San Giacomo di Compostella o a Monte Sant'Angelo, sul Gargano, senza sfiancarsi troppo e senza sentirsi degli eroi. Il fatto è che Asimov, da bravo scientista e neopositivista, riecheggia qui, pedissequamente, i soliti luoghi comuni sul Medioevo come età di immobilismo, pigrizia e incultura. Ma se perfino i costruttori di Stonehenge fecero viaggiare per centinaia di chilometri le enormi pietre destinate al sito in cui avrebbero eretto il monumento!
Oppure che dire di Giovanni da Pian del Carpine, di Guglielmo da Rubruck o dei fratelli Polo, che percorsero migliaia e migliaia di chilometri nel cuore dell'Asia, mentre in Europa un miracolo di fede e di amore faceva sorgere le grandi cattedrali gotiche, quelle montagne di pietra che innalzano arditamente le loro volte e le loro guglie verso il cielo, come una preghiera levata al cospetto dell'Onnipotente?
Curiosa, poi, l'affermazione che, da soli, possiamo salire solamente di qualche metro, arrampicandoci su un albero; o che possiamo ricordare al massimo un paio di generazioni precedenti alla nostra. Occorre ricordare che Annibale valicò le Alpi con un intero esercito, carri, cavalli ed elefanti al seguito? E che molti popoli nativi, ad esempio i Maori della Nuova Zelanda, erano in grado di tenere a mente abitualmente fino a trenta generazioni prima della propria; per non parlare del fatto che gli aedi dell'antica Grecia recitavano a memoria, con perfetta sicurezza, le migliaia e migliaia di versi dell'«Iliade» e dell'«Odissea»?
Pur di mostrare quanto fossero insignificanti gli esseri umani prima che l'avvento della tecnologia li guidasse verso «le magnifiche sorti e progressive» della modernità, Asimov non esita a presentare i nostri progenitori come delle creature dall'esperienza estremamente limitata, per i quali un bel fuoco scoppiettante era la cosa più calda che potessero immaginare, e un freddo giorno d'inverno, la cosa più fredda.
Invece i nostri progenitori sapevano fondere i metalli, cosa che richiede la capacità di produrre temperature di oltre mille gradi; per non parlare di come le eruzioni vulcaniche e le colate di lava, come quelle dell'Etna o del Vesuvio, offrissero agli occhi dell'uomo lo spettacolo altamente impressionante della materia fusa e incandescente. E, quanto al freddo, forse che gli Inuit o Eschimesi non erano abituati a vivere e navigare presso le coste di un mare perennemente gelato, in mezzo ai giganteschi ghiacci galleggianti? Forse che i popoli antichi delle Alpi non conoscevano lo spettacolo grandioso dei ghiacciai, che scendono dai monti ampi come fiumi, o delle stalattiti di ghiaccio, simili a iridescenti cattedrali?
Tuttavia, queste non sono che imperfezioni e semplificazioni di poco conto, in confronto alla desolante banalità della parte in cui Asimov tesse le più alte lodi della maniera prodigiosa, spettacolare, con cui si sono diffuse le conoscenze umane, rendendo l'uomo non solamente capace di dominare in lungo e in largo il mondo in cui vive, ma anche di oltrepassare i confini del Sistema Solare, e di spingersi perfino più in là.
Egli parla, addirittura, di «esplosione» delle conoscenze. Non lo sfiora nemmeno il dubbio che questa esplosione sia stata soltanto quantitativa e materialistica, e abbia coinciso con il massimo oscuramento della coscienza, con il massimo oblio della verità più profonda, che giace nel mistero dell'anima umana.
Per lui, che adotta con perfetta naturalezza un punto di vista scientista e antropocentrico, non si pone nemmeno la questione di giustificare una siffatta concezione della conoscenza, ossia come un mero accumulo di dati e informazioni; non lo sfiora nemmeno l'idea che, forse, la vera conoscenza sia un'altra cosa, e passi attraverso la consapevolezza del profondo, inscindibile legame che tiene unite tutte le cose esistenti, e l'uomo tra esse.
L'arroganza intellettuale di questo atteggiamento è tradita proprio dalla sua spontanea, ingenua sicurezza in se stesso. Non vale neanche la pena di spiegare, secondo Asimov e quanti la pensano come lui, perché la visione del mondo di uno scienziato occidentale dovrebbe essere infinitamente superiore a quella di uno sciamano siberiano; anzi, per cui la prima sarebbe una conoscenza veritiera ed efficace del mondo (metro per misurarne l'efficacia: il dominio sulle cose), mentre la seconda sarebbe, puramente e semplicemente, una falsa conoscenza.
Che gli esseri umani non siano mai stati così ignoranti riguardo a se stessi e al loro legame con la natura e con l'Essere, quanto lo sono oggi; e che le disastrose conseguenze di tale ignoranza si concretizzino in una serie di minacce gravissime alla nostra stessa sopravvivenza come specie vivente: tutto ciò non passa nemmeno per l'anticamera del cervello degli intellettuali occidentali come Asimov, talmente imbottiti di ideologia neoilluminista e neopositivista, da non vedere altro che i dubbi trionfi del Logos strumentale e calcolante.
Forse, quando si parla di progresso delle conoscenze, bisognerebbe, in primo luogo (e non è una operazione meramente nominalistica), distinguere fra conoscenze e conoscenza.
Le conoscenze sono quelle, parziali e bisognose di continua verifica e di continua revisione, relative al mondo della natura, ovvero le conoscenze scientifiche, ivi comprese anche la matematica, la logica, la linguistica e la storiografia.
La conoscenza, invece, è l'accesso alla sfera dell'Essere, alla quale si perviene essenzialmente mediante l'abbandono del falso ego e un atto di coraggio e di umiltà, consistente nel lasciarsi andare sino al fondo della propria anima: perché è lì che si può realizzare l'incontro con il divino; il divino che - come diceva Friedrich Froebel - si trova già in noi. Essa, quindi, è conoscenza delle verità superiori, relative all'ambito del soprannaturale: ambito che, non essendo esperibile con i sensi ordinari, e tanto meno quantificabile e suscettibile di riproduzione in laboratorio, la moderna cultura materialistica ha negato addirittura, o ha dichiarato non conoscibile e, quindi, ininfluente per la nostra vita e per il nostro sapere.
Questo rifiuto della verità ultima dell'Essere incomincia proprio con l'Illuminismo ed è già chiaramente teorizzato da Kant, e prima di lui da Hume, i quali, respingendo la metafisica nel Limbo delle cose inutili, hanno praticato una vera e propria autocastrazione del pensiero moderno, spacciandola per una conquista e per un progresso.
Andiamoci piano, però, con codesta religione del Progresso. Forse non si tratta d'altro che di un immenso errore della cultura moderna, che ha esaltato l'effimero e disprezzato l'eterno, evidentemente convinta, ma a torto, che «andare avanti» significhi anche, di per se stesso, «procedere per la via giusta, per la via maestra».
Con il risultato che ci stiamo impantanando sempre di più in qualche viottolo fangoso, in qualche azzardato sentiero laterale, che non ci condurrà da nessuna parte.