Newsletter, Omaggi, Area acquisti e molto altro. Scopri la tua area riservata: Registrati Entra Scopri l'Area Riservata: Registrati Entra
Home / Articoli / Torquato Tasso: dotto accademico, lirico ed epico poeta

Torquato Tasso: dotto accademico, lirico ed epico poeta

di Fabrizio Legger - 19/11/2009

 

 

Tra i grandi poeti della letteratura italiana, Torquato Tasso (1544-1595) è stato quello che più di ogni altro ha cercato di teorizzare la propria opera, analizzandola criticamente, con scritti e discorsi che compiono una vera e propria minuziosa radiografia della sua opera maggiore, l’opera di tutta una vita, e cioè, il poema epico Gerusalemme Liberata.

Perfezionista sino all’eccesso, mai soddisfatto dai risultati raggiunti, sensibile fin troppo alle critiche e alle polemiche, sempre incalzato da un presunto senso di inferiorità nei confronti dell’Ariosto e del suo Furioso, il Tasso fu l’unico poeta che, dopo avere scritto un grande poema, volle anche scrivere tutta una serie di opere (dai Discorsi del poema eroico all’Apologia della Liberata) per spiegare, analizzare e confutare a sua volta tutte le critiche, i giudizi, i battibecchi e le questioni sorte in seguito alla prima pubblicazione  della Liberata (tra l’altro, non autorizzata dal poeta, perché in quel tempo si trovava nel carcere-manicomio di Sant’Anna).

Molti critici hanno liquidato sbrigativamente i Discorsi del poema eroico dicendo che si tratta di un’opera noiosa, accademica, pesante, che nulla aggiunge alla gloria del Tasso. Io, invece, ritengo che sia un’opera preziosa, la cui lettura risulta utilissima (e, direi, quasi indispensabile) per comprendere a fondo il poema tassiano.

Infatti, in quest’opera, il Tasso illustra le motivazioni che lo indussero a scrivere certi episodi e certe scene della Liberata, rivelando quali devono essere, secondo lui, i perfetti ingredienti di un poema eroico, tracciando paralleli con altri grandi poemi e facendo le dovute distinzioni tra gli elementi che caratterizzano le opere della poesia epica cristiana da quelle della poesia epica pagana.

In questi Discorsi, il Tasso ci mostra tutta la sua cultura di dotto accademico, disquisendo con somma abilità e grande cultura sulle caratteristiche tipiche del poema epico, sulla necessità delle “scelte” che devono necessariamente essere fatte per la composizione degli episodi salienti del poema, sullo stile e sul linguaggio che devono caratterizzare un perfetto poema eroico.

Ceto, non si tratta di una lettura particolarmente dilettevole o rilassante, ma certo non si possono liquidare i Discorsi del poema eroico come un’opera particolarmente tediosa e stancante. In essi, esattamente come nella Liberata, c’è l’anima del Tasso, il quale non visse che per il suo poema, e in questi scritti critici ed estetici egli dà fondo a tutto il suo sapere, a tutta la sua cultura, a tutta la sua esperienza di abile cesellatore del verso e di accademico aristotelico per difendere quella che riteneva fosse l’opera di tutta la sua vita.

Forse, nei Discorsi, non gli riuscì di essere dilettevole, ma fu decisamente molto illuminante e dotto, sviscerando e  analizzando nella sua vastità e complessità, un genere letterario certo non semplice e non di spensierata lettura, come è appunto il poema eroico. E scusate se è poco!

Un’altra opera tassiana in prosa, ancora più importante dei Discorsi, è costituita dai Dialoghi, incominciati a scrivere durante gli anni di prigionìa al Sant’Anna, a partire dal 1579, e poi continuati sino al 1594, cioè, sino a poco prima della morte, avvenuta nell’aprile del 1595.

Si tratta di un’opera corposa, costituita da ventisei dialoghi che trattano dell’amore, dell’amicizia, della vita familiare, dell’onore, della pace, del gioco, della poesia e di tutto ciò che poteva interessare un poeta cortigiano e accademico come era appunto Torquato Tasso. Taluni critici reputano i Dialoghi come un’opera minore, ma errano in ciò, perché i Dialoghi sono, insieme alla Gerusalemme Liberata, la maggior opera scritta dal Tasso, sicuramente una di quella da cui traspare maggiormente il suo pensiero sull’uomo, sulla società e sull’esistenza umana.

Essendo stati scritti nell’arco di molti anni, non possiedono tutti lo stesso livello qualitativo: in molti abbonda un immaginismo decorativo che si alterna alla chiarezza razionalistica dell’esposizione, ma non bisogna dimenticare che il Tasso era un poeta e non un filosofo, quindi, è vano cercare nei suoi dialoghi quel medesimo acume speculativo che si trova nei dialoghini Platone o in quelli di Giordano Bruno.

È vero che i Dialoghi sono una forma di letteratura che tenta di fare rivivere una speculazione filosofica che, verso il finire del Cinquecento, era ormai avviata al tramonto, ma è anche vero che in quest’opera ritroviamo il Tasso cortigiano e il Tasso accademico, il Tasso gentiluomo e il Tasso dotto letterato, il Tasso amante appassionato e il Tasso maestro di cavalleria, ragion per cui i Dialoghi sono e restano un’opera complessa, imponente, alla quale il poeta lavorò con grande passione e con il ben preciso intento di farne un’opera in prosa grande ed importante almeno quanto la Liberata.

Ovviamente, il Tasso fu un uomo del suo tempo, e nei Dialoghi si trova molto del crepuscolo del Rinascimento, ma non per questo devono essere considerati un’opera di decadenza, una sorta di “archeologia-enciclopedica” di una società avviata alla fine: i Dialoghi sono prima di tutto espressione sincera e limpida di un’anima appassionata, che trovò nel genere letterario del dialogo lo strumento più idoneo per divulgare le proprie concezioni sul mondo, sulla società e sull’uomo, dando al tempo stesso ampio e vasto sfoggio della sua immensa cultura.

Il dialogo, sostanzialmente, offriva al Tasso, poeta-filosofo, la possibilità di sviscerare dialetticamente le tematiche esistenziali che più gli stavano a cuore, utilizzando le figure dei diversi interlocutori per dibattere, sviscerare, analizzare tutti quegli aspetti della sua vita di cortigiano e di accademico che avevano contrassegnato in maniera inequivocabile la sua esistenza di uomo e di letterato. Al tempo stesso, il genere dialogico gli offriva lo strumento più idoneo per dare voce ai contrasti e alle diatribe, alle contraddizioni e alle problematiche in cui le sue ricerche filosofiche finivano spesso per cristallizzarsi, ma gli permetteva anche di provare a comporre e contrasti e i tormenti che facevano sfociare la sua attività filosofica in una sorta di continua, ossessiva e delirante angoscia mai sazia di pur ben ponderate risposte.

Il pensiero speculativo tassiano ondeggia fra platonismo e aristotelismo e ciò, dai Dialoghi, traspare con molta evidenza. In essi si possono notare influssi notevoli delle concezioni panteistiche del primo Rinascimento e di certe idee decisamente platoneggianti che, però, spesso si chiudono, si cristallizzano, si irrigidiscono in categoriche chiusure di stampo controriformistico dalle quali risulta evidente come il Tasso scrivesse con lo sguardo bene attento a quelli che sono i dogmi del Cattolicesimo e di Santa Madre Chiesa, della quale egli ambiva ad essere il poeta per eccellenza.

Ma le pagine più interessanti e avvincenti dei Dialoghi non sono quelle in cui il poeta disquisisce di argomenti cortigiani, codici cavallereschi o estetica letteraria: al contrario, quelli migliori sono i dialoghi in cui il Tasso, ramingo e tormentato, dà voce ai travagli della sua infelice esistenza, esprimendo nostalgie, ricordi d’infanzia e di giovinezza, desiderio di quiete e di affetti domestici, aspirazione ad una vita frugale, semplice, tranquilla, priva di preoccupazioni economiche e allietata da quegli affetti familiari che al poeta della Liberata mancarono così tanto.

Ai suoi Dialoghi, il Tasso teneva molto, e ciò è dimostrato anche dalle molte lettere in cui, rivolgendosi ai suoi vari corrispondenti, egli accenna più volte ai dialoghi che stava componendo oppure a quelli già terminati o addirittura già dati alle stampe. Eppure la critica, nel corso dei secoli, non è stata molto tenera con i Dialoghi: è stato detto che il Tasso non aveva capacità speculative, che anche scrivendo in maniera dialogica egli restava più un letterato che un filosofo, che le tematiche scelte non sono così altamente “filosofiche” come, per esempio, quelle che animano i dialoghi di Giordano Bruno e di Tommaso Campanella.

Bella scoperta dell’acqua calda! Con i suoi Dialoghi, il Tasso non intendeva affatto scrivere opere “filosofiche” ma, al contrario, “letterarie”. E infatti, gli argomenti dei Dialoghi non sono riconducibili alle tematiche proprie della metafisica, dell’ontologia, dell’ermeneutica, di cui si nutre la grande filosofia, ma, al contrario, sono quasi tutte tematiche letterarie, che vanno da quelle riguardanti il gioco e le maschere, a quelle sul piacere, sulla pace, sull’amore, sulla famiglia, sulla corte, sulla poesia toscana, sull’onore e sulla vita contemplativa.

Questo perché il Tasso non intendeva affatto gareggiare né con Aristotele, né con Platone, né con Plotino, non possedendo egli una mente speculativa come quella del Ficino, del Pomponazzi o del già citato Bruno. Egli era un poeta, e anche se scriveva dialoghi in prosa, restava sempre e comunque un poeta.

Ecco perché i suoi Dialoghi non sono riconducibili a quelli di un Telesio, di un Algarotti o di un Voltaire: in lui, il letterato è più forte del filosofo e il poeta prende il sopravvento sul metafisico e sullo speculativo. Egli indaga, sviscera, analizza, approfondisce, ma lo fa da uomo di lettere e non da uomo di scienza. In ogni caso, personalmente, ritengo che i Dialoghi tassiani siano bellissimi e mi pare costituiscano un ottimo, efficae e suggestivo corollario alle sue opere in versi.

Sono infatti convinto che i Dialoghi, scritti in prosa, completino, in qualche modo, la grande opera poetica iniziata con il Rinaldo e proseguita con la Gerusalemme Liberata, l’Aminta, il Re Torrismondo e Il Mondo Creato.

In essi, il Tasso affronta molti temi che gli erano cari e che, nelle opere in versi, per ovvi motivi, non aveva potuto approfondire. Anzi, sono sicuro che i Dialoghi siano la più importante opera in prosa che il Tasso abbia scritto, più dei Discorsi del poema eroico e delle Lettere, anche perché la maggior parte dei Dialoghi risale agli anni bui e dolorosi del Sant’Anna, anni che cambiarono per sempre (e in maniera irreparabile) non solo la vita del poeta, ma soprattutto la sua fragile psiche e il suo delicato equilibrio interiore.

In ogni caso, i Dialoghi sono l’opera in prosa più importante tra quelle del Tasso, un’opera che non deve essere sottovalutata e che, per molti aspetti, rappresenta il completamento della Liberata, perché è dall’ambiente cortigiano e accademico di cui essi sono vivace e colta espressione che nacque e prese forma concreta il grande poema tassiano.

Nell’ambito della poesia lirica del secondo Cinquecento, le Rime del Tasso sono sicuramente tra le più perfette, le più affascinanti e le più elaborate, e, sinceramente, non so come facesse Pier Paolo Pasolini a non appassionarsi allo studio delle liriche tassiane (che egli, in un’intervista, bollò come “vecchiume lirico di pagine ingiallite dal tempo”).

Le Rime tassiane sono opera di un grandissimo poeta, tanto che si trovano sonetti eccellenti non soltanto nelle “rime d’amore” (il che è abbastanza scontato) ma anche nelle “rime d’occasione e d’encomio”, dedicate a nobili ed illustri personaggi della sua epoca, come, per esempio, don Ferrante Gonzaga, donna Marfisa d’Este, Margherita Turchi Bentivoglio, monsignor Paolo Leoni, il professor Sperone Speroni, il nobile Alessandro Pocaterra e moltissimi altri che oggi sono nomi ignoti ma che, al tempo del Tasso, erano persone illustri e di grande prestigio.

Il Tasso, che ai suoi tempi era detto anche il Tassino (in quanto Tasso era chiamato il grande poeta Bernardo Tasso, suo padre, autore di due poemi cavallereschi, Amadigi e Floridante), scrisse rime a partire già dall’adolescenza, ad imitazione del Petrarca, ovviamente, ma anche di suo padre, il quale pubblicò anch’egli un volume di Rime.

Continuò a scriverne per tutta la vita, sino a poco prima di morire, ma durante i lunghi anni di detenzione nel carcere-ospedale di Sant’Anna, a Ferrara, decise di riordinare e raccogliere in un’unica opera tutte le sue liriche, composte prevalentemente da sonetti, madrigali e canzoni. Il Tasso corresse, rivide e riscrisse buona parte delle poesie composte sino ad allora, poi le suddivise in tre parti (rime d’amore, rime d’occasione e d’encomio, rime sacre) e le ordinò per la pubblicazione. Le prime due parti delle Rime vennero pubblicate nel 1591 e nel 1593, pochi anni prima della scomparsa del Tasso, mentre la terza parte, comprendente liriche composte sino agli ultimi giorni di vita, fu pubblicata postuma.

Il linguaggio della lirica tassiana è, ovviamente, ancorato ai canoni del petrarchismo cinquecentesco, secondo al ben nota interpretazione e canonizzazione data da Pietro Bembo all’inizio del secolo, ma la grandezza del poeta, la sua originalità, il suo canto accorato, fantasioso, malinconico e tumultuoso, traspare anche dalle poesie più fredde e di circostanza, come, per esempio, le rime d’encomio e di occasione, scritte per celebrare matrimoni, funerali, feste, oppure come ringraziamenti in versi per doni o favori ricevuti. Tutte poesie dedicate a potenti aristocratici, ricchi ecclesiastici, duchi, pontefici, marchesi, cardinali: a prima vista potrebbero sembrare rime piuttosto fredde, convenzionali, cerebrali, di circostanza, e invece la somma abilità poetica del Tasso riesce a trasformarle in liriche che racchiudono bei versi, caratterizzate da un linguaggio aulico e, quasi sempre, ricche di spunti autobiografici fondamentali per conoscere la vita del poeta.

In queste liriche, generalmente le meno apprezzate dalla critica in quanto classico esempio di “poesia cortigiana”, traspare invece la grande saggezza del Tasso, maturata e sviluppatasi nei giochi galanti e nelle cerimonie raffinate della vita di corte e acuitasi attraverso la precoce esperienza delle pene e delle angosce del quotidiano, saggezza che, a poco a poco, pare attenuare in un raffinato sorriso di edonista l’urgenza sentimentale del tema amoroso, urgenza che si fa lode della femminilità ed esaltazione della sensualità della donna, capace di ingentilire e conquistare il cuore guerriero dell’uomo (tema, questo, perfettamente sviluppato nella Liberata, con gli amori di Tancredi per Clorinda, Erminia per Tancredi e Rinaldo per Armida).

Ma, secondo me, le migliori rime del Tasso sono quelle “sacre”, ovvero quelle dedicate a tematiche religiose. Il Tasso fu un sincero credente, un devoto cattolico, un fedele dotato di temperamento mistico, ma la sua fu una religiosità tormentata, in quanto egli era perennemente lacerato tra le aspirazioni celesti e le chimere terrene, così come era spesso vittima di angoscianti dubbi. Temeva di non essere del tutto ortodosso, aveva paura di cadere in pensieri eretici, si logorava nel meditare su molti passi della Liberata che, a suo stesso giudizio, non erano abbastanza consoni ai dettami della morale cattolica.

Da tutto questo tormento interiore nacquero molte delle “rime sacre”: in esse troviamo un Tasso desideroso di quiete e di pace, deluso dalle chimere del mondo, amareggiato dai comportamenti degli uomini, tutto proteso verso la celeste meta ultraterrena. Sono liriche di supplica a Dio, di invocazione al Cristo, di preghiera alla Beata Vergine; liriche piene di suggestioni mistiche, dove il poeta sente attorno a sé la presenza di angeli e di anime di santi (come, per esempio, San Benedetto e Santa Scolastica), oppure poesie in cui loda la sublimità dei Santissimi Sacramenti o la quiete dei chiostri e dei conventi. Ovviamente vi sono anche poesie dedicate a sacerdoti, monaci e prelati, ma, sostanzialmente, sono rime caratterizzate da un possente anelito religioso, il quale spinge il poeta ad allontanarsi sempre più dalla caduca realtà terrena per avvicinarsi con sempre maggiore ardore alle supreme realtà del mondo soprasensibile, un modo di pace, luce e gioia illuminato dalla Verità rivelata della fede cattolica.

Altro che trascurare o bollare come sterili poesie di adulazione ecclesiastica le “rime sacre”, che al Tasso furono tanto care, che rielaborò e corresse con incontentabile cura di artista e che, al pari di altre opere poetiche ingiustamente ritenute minori (i poemetti Il Monte Oliveto, Le Lagrime di Maria Vergine, Le Lagrime di Gesù Cristo), furono scritte con il chiaro intenti di ottenere fama e onori anche nell’ambito della poesia religiosa (la quale, in epoca controriformistica, riscuoteva ovviamente molti consensi).

Ma oltre ai Dialoghi e alle Rime, ci sono altre opere del Tasso che sono altrettanto importanti e che la critica e gli editori attuali stoltamente trascurano. Due di queste, ingiustamente ritenute “minore”, sono il poema giovanile Rinaldo, definito malignamente da molti critici “il poema della vigilia poetica tassiana”, e la commedia Intrichi d’amore (da certi critici ritenuta addirittura mai scritta dal Tasso!).

Si tratta, ovviamente, di giudizi mal ponderati, non veritieri, frettolosi e sbrigativi, con cui taluni studiosi tendono a liquidare questo poema e questa commedia per dare solo e sempre spazio alla Liberata e all’Aminta!

Il Rinaldo non è certo un grande e stupefacente poema, su questo sono d’accordo, ma è comunque un bel poema cavalleresco scritto da un colto sedicenne (ce ne fossero ancora di sedicenni come il Tassino, capaci di scrivere simili poemi!) il quale, già in tale opera, rivela tutta la stoffa del futuro grande poeta.

Nei dodici canti del Rinaldo, pubblicato a Venezia nel 1562, il Tassino tralascia il difficile campo dell’epica storica (mi riferisco al primo canto del Gierusalemme, che può essere ritenuto un primo concreto abbozzo in versi della futura Liberata) per addentrarsi nel piacevole regno del romanzesco, vale a dire, della poesia cavalleresca di prodigi, amori contrastati, incantesimi e avventure in terre lontane, già magistralmente collaudato dal Boiardo, dal Pulci e dall’Ariosto. È indubbiamente un poema giovanile, a tratti un po’ acerbo, ma ben architettato e ben scritto: in esso si trovano anche ottave molto felici e armoniose, episodi interessanti, personaggi che affascinano e dilettano, sebbene non siano delineati con i fini tratti psicologici di quelli della Liberata.

La figura di Rinaldo, giovane cavaliere tutto desideroso di avventure e balde imprese, che lascia il castello avìto in groppa la suo focoso destriero, per avventurarsi nel vasto mondo alla ricerca di gloria e di amori, si presenta, letterariamente, come una proiezione artistica dello stesso giovane Tassino, pieno di sogni e di ideali, desideroso di conquistare l’alloro dei poeti e giungere alla bramata fama letteraria.

Tra i personaggi del poema, oltre a Rinaldo, alla dolce Clarice e alla sensuale Floriana (regina della Media), spiccano il prode Francardo, il mago Malagigi, la bella e malinconica guerriera saracena di nome Clizia, il fiero Ransaldo. Certo, si sente che è un’opera giovanile (e dell’opera giovanile ha tutti i difetti e tutte le incertezze), ma è pur sempre un bel poema cavalleresco di amori e di avventure. E poi, come ho accennato, fu scritto da un giovane di soli sedici anni: sfido, oggi, un giovane sedicenne a scrivere un poema simile! Sono sicuro che, in tutta Italia, non se ne troverebbe neppure uno!

Quanto agli Intrichi d’amore, beh, le critiche a questa stupenda e avvincente commedia in prosa mi paiono davvero stucchevoli, insulse e pretestuose.

Innanzitutto, dopo i documentatissimi studi critici di Enrico Malato, basta discutere sulla paternità dell’opera: fu scritta dal Tasso, di suo proprio pugno, tra il 1577 e il 1579, punto e basta! Si tratta di una commedia complessa, intricata, appunto, con molti personaggi e con una trama ben architettata, caratterizzata da dialoghi ottimamente condotti, ragion per cui risulta evidente che fu scritta da un dotto letterato e non da un mero scrittorucolo del teatro delle maschere.

La vicenda è ingarbugliata, di notevole ampiezza, quasi abnorme, tutta incentrata sullo schema tradizionale dell’amante non riamato, attorno alla quale si sviluppano altri intrighi e altre vicende, il che contribuisce a fare di questa commedia una vera e propria opera di ingegno comico. I personaggi sono molti, tutti assai vari, affascinanti e capaci di catturare l’attenzione dello spettatore, anche perché rappresentano tipi ben precisi e riconoscibili in gran parte del teatro cinquecentesco: gli amanti dall’amore contrastato, il vecchio geloso e fastidioso, la scaltra ruffiana, i servi lestofanti pronti ad assecondare i desideri dei loro reciproci padroni, l’astrologo saccente, il pedante rompiballe, la figura del forestiero napoletano (dietro la quale il Tasso potrebbe nascosto se stesso).

Insomma, una gran bella commedia questi Intrichi d’amore, un testo teatrale davvero ben fatto, in cui non si può non riconoscere la mano del Tasso, un’opera capace di stare alla pari con il Re Torrismondo (anche se poi, entrambe, risultano assai inferiori all’Aminta, la quale resta il capolavoro del teatro tassiano).

In ogni caso, sia gli Intrichi d’amore, sia le Rime, il Rinaldo, i Dialoghi e i Discorsi del poema eroico, sono opere interessanti e degne di lettura e di studio, complesse e meritevoli di lode, opere che non si possono (e non si devono!) liquidare sbrigativamente come “opere minori”, perché nel Tasso non c’è nulla di “minore”: il Tasso è il Tasso, e che diamine!

Sia nella Liberata, sia nelle Rime, sia negli Intrichi d’amore, nei Dialoghi e ne Il Monte Oliveto, Torquato Tasso si rivelò un vero e proprio genio letterario, un mostro delle nostre patrie lettere, uno scrittore di prim’ordine e, in quanto tale, ogni suo scritto, anche il più breve, anche il meno letto, anche quello meno elaborato (come, per esempio, Il rogo amoroso, la Genealogia di casa Gonzaga o Le Lagrime di Maria Vergine), è comunque degno di attento studio, sommi elogi e grande considerazione, perché Torquato Tasso, che piaccia oppure no, è stato il maggior poeta italiano del XVI secolo e uno tra i più eccellenti che la nostra letteratura nazionale possa vantare!