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Democrazie senza democrazia

di Fabio Gallese - 23/11/2009

Fonte: appelloalpopolo



 
La democrazia è quel sostantivo in nome del quale negli ultimi anni si è fatto di tutto: bombardare civili, distruggere intere città, stravolgere ecosistemi in equilibrio da millenni, fondamentalmente rubare e mentire.
 
Nell'esportarla a cannonate abbiamo dimenticato il senso e il significato della parola: cercheremo di porvi rimedio con queste righe ispirate all'agile scritto di Massimo L. Salvatori: “democrazie senza democrazia”, di sole 94 pagine molto intense e sentite, chiare ed esplicite.
 
Democrazia era parola sconosciuta nella politica mondiale sino alla riscoperta dei classici nel secolo dei lumi. Prima al massimo si parlava della respublica degli antichi, come forma di governo non più praticabile (essendosi corrotti gli animi umani) e la sovranità rimaneva saldamente intesa come discendente da Dio: chi osava pensare che fosse cosa umana era eretico e come tale annientato.
 
Prodromica alla riscoperta della democrazia fu la riforma protestante, che accentuò al massimo il valore della responsabilità individuale e il principio dell'uguaglianza degli uomini: da qui a vedere nella democrazia ateniese del V secolo l'esempio da seguire il passo è breve.
 
Prima digressione tecnica: la democrazia ateniese, come quella di alcuni piccoli cantoni svizzeri (come quella delle comuni di Parigi del 1848 e 1871 e delle assemblee dei soviet) è il sistema politico nel quale tutti partecipano alle decisioni con metodo assembleare, un consesso di pari con cariche esecutive aperte a tutti: è forma di governo affascinante, ma materialmente irrealizzabile quando gli aventi diritto raggiungono numeri da piccola cittadina, figurarsi (e lascio a Voi lettori questo incubo) una riunione di condominio da 5.000 partecipanti!
 
Il rimedio alla assemblea totale permanente è la democrazia rappresentativa, nella quale il corpo sociale sceglie rappresentanti delegati a discutere in assemblea i problemi e eseguire le soluzioni.
 
Nel primo sistema tutto il corpo sociale è chiamato a partecipare alle decisioni, si presuppone uguale conoscenza dei problemi e capacità di  partecipare alla formazione ed alla applicazione delle soluzioni. Corollario ne è che la scelta dei governanti è aperta a tutti.
 
Nel secondo si prende atto che non tutti i cittadini sono eguali, e che chi più ha strumenti tecnici e culturali per operare le scelte sia delegato a esprimere le soluzioni e gli uomini per applicarle. Permane ancora la base della democrazia: istituzioni che permettono il controllo pacifico dei governati sui governanti e la possibilità di ottenere cambiamenti di azione da parte di questi senza dover necessariamente ricorrere alla violenza. 
 
La prima applicazione del sistema democratico fu il modello “liberale” nato nell'Inghilterra della rivoluzione del Lord Protettore e diffusosi dapprima nei nascenti Stati Uniti d'America, poi nella Francia pre e post napoleonica e in tutta l'Europa. Sue caratteristiche sono: a) una costituzione che faceva dello Stato un arbitro imparziale tra i cittadini secondo i principi legali presenti nella stessa; b) la separazione dei poteri; c) il suffragio ristretto, in modo da mettere al sicuro i possidenti dagli “assalti” giuridici dei non abbienti (o non abbastanza abbienti).
 
La struttura si reggeva sulla compattezza sociale della classe dirigente: non più la nascita aristocratica o l'appartenenza al clero, ma il censo era elemento scriminante la cittadinanza attiva. L'agone politico andava occupato da coloro che avessero autodeterminazione, che potessero passare da governati a governanti, avendone i mezzi finanziari e cognitivi: gli altri soggetti non erano autonomi, essendo dipendenti e salariati, e quindi ne erano esclusi.
 
Il sistema del parlamentarismo borghese esercitava all'interno del proprio stato nazionale una sovranità giuridica, politica, economica, militare assoluta.  
Questo sistema è naturalmente evoluto nel sistema liberaldemocratico, grazie all'allargamento sempre maggiore del suffragio, a sua volta derivante dal maggiore coinvolgimento nella politica di larghi strati della popolazione in proporzione dell'aumento della ricchezza e dell'istruzione, e della nascita dei “partiti”, movimenti di opinione che catalizzano sui propri esponenti il consenso (e quindi i voti) sulla base di proposte di governo.
 
Si spostò l'attenzione dai singoli, protagonisti del precedente sistema, ai partiti stessi, come gruppi organizzati, con una propria elitè che decide il programma, seleziona candidati, mobilita le basi. Di fatto i cittadini sono  eterodiretti, chiamati ad aderire a pacchetti di linee di condotta preconfezionati, ma il sistema permetteva a chiunque, operando all'interno di partiti, anche creandoli, di partecipare effettivamente alla vita democratica, a condizione di avere consenso: il rischio, purtroppo divenuto realtà, di questo sistema è la sua vulnerabilità alle demagogie, l'allettamento delle masse con promesse e suggestive parole d'ordine che ne solletichino l'ego, senza costruire nulla di reale.
Due sono le forze che demoliscono questo sistema dall'interno: la spinta conservatrice delle classi egemoni, che ritengono il sistema liberaldemocratico troppo aperto alle istanze dei non proprietari, e la  contraria spinta dal basso di chi non si riconosce nelle strutture liberaldemocratiche, le ritiene  maschere del potere dei gruppi  dominanti: la liberaldemocrazia diventa figlia di nessuno.
L'assioma elaborato da Locke, cioè che la funzione primaria dello stato era quella di proteggere la proprietà, riemerse con forza per contrastare le istanze di quella parte di popolazione non beneficiaria della ricchezza e che quindi non aveva interesse a partecipare a questo gioco, in cui era scritto che non aveva diritto a vincere. Ma, si rilanciava dall'altro lato, anche le organizzazioni di partito, specie nei partiti di massa, non fanno altro che creare oligarchie che combattono contro altre oligarchie per la supremazia.
 
Questa lotta prima si svolgeva all'interno delle singole nazioni, dove la “sovranità” era “nazionale”, come l'”economia”, e come tale quest'ultima era strumento ed interesse della classe dirigente “nazionale”.
Il superamento di questa seconda fase dei regimi socialdemocratici,  avviene negli anni 70 del XX secolo, quando le teorie economiche neoconservatrici di Von Hayek si saldano con la perdita di sovranità degli stati sull'economia.
Col tacherismo in Inghilterra e Reagan negli USA, e il correlativo crollo economico del sistema sovietico, è venuta a mancare una controparte, anche solo teorica, che facesse ascoltare una voce alternativa.
Di conseguenza, gli stati democratici sono divenuti sempre più succubi delle lobby d'affari internazionali e transnazionali, che già dettavano le proprie regole all'interno degli Usa, condizionando l'elezione del Presidente sin dagli inizi del secolo.
L'estensione di fatto di quel sistema plutocratico a tutto il mondo ha portato all'attuale stato mondiale.
 
Il sistema plutocratico, avversato in origine all'interno degli Usa senza successo da grandi pensatori e politici, ma alla fine vincente sul campo, ha portato alla prima crisi del 1929, con gli stessi meccanismi della più recente crisi del 2009, con la differenza che la prima nacque in ambito nazionale, nello stato federale che era già la maggiore potenza economica mondiale, e si diffuse nel mondo come conseguenza, mentre la seconda è nata nel nulla dell'economia globale, quel mondo artificiale fatto di soggetti indefiniti, di soldi virtuali e di ricchezze anonime: di conseguenza è nata in ogni luogo e nessun luogo, ha bruciato soldi virtuali nati da speculazioni ma ha affamato interi continenti dipendenti per le loro esigenze dalla grande truffa del Commercio Globale.
 
Non possiamo essere della stessa opinione di Massimo Salvatori, storico autorevole che, con il pregevole libro testé citato, ha ispirato questa riflessione; l’Autore vede nell'elezione di Obama la possibile nascita di un nuovo corso democratico mondiale.
Non basta l'ascesa di un presidente statunitense di colore per rompere il patto d'acciaio tra multinazionali e governi occidentali: infatti il nuovo presidente degli Stati Uniti non riesce neanche a far passare una seria legge istitutiva di quel minimo di welfare che non è stato smantellato neanche in Italia (anche se svariati colpi li ha subiti anche qui), e cioè la garanzia di cure mediche per tutti.
Il punto più oscuro, come ha dimostrato la speculazione di Soros sulle monete nel 1992, è che gli Stati che si definiscono democratici sono ostaggi di fondi di investimento delle più svariate e dubbie origini, che possono essere espressioni di stati che universalmente democratici non sono: sultanati, emirati, lo stato Cinese, la Russia post comunista, il Vaticano, la mafia, o chiunque possegga grossa liquidità. Negli Stati Uniti la plutocrazia ha preso il sopravvento molto prima che in Europa; perciò al più è Obama che deve imparare dalla esperienza europea (esclusa l'esperienza recente e quella del recente passato, quando anche in Europa la democrazia è divenuta plutocrazia).
 
Le cosiddette democrazie occidentali sono ostaggio di enti privati anonimi, che possono anche finanziarsi  con mezzi illeciti, ma che con operazioni sui mercati esprimono il loro gradimento o mancato gradimento di una qualsiasi scelta politica, condizionandone l'accoglimento o addirittura l'efficacia.
Si deve ripensare il concetto di democrazia a partire dai suoi elementi di base, cioè patto di convivenza pacifico tra uguali. Se per sottrarsi al potere delle multinazionali è necessario riallocare la democrazia all’interno dello stato nazione, questa strada va percorsa, senza timori generati da un internazionalismo che ha perso del tutto il significato originario ed è privo di un nuovo significato positivo: colui che oggi è internazionalista, salvo che intenda l’internazionalismo come alleanza tra popoli che intendono decidere autonomamente sulla loro terra,  è filo capitalista, favorevole alla formazione di eserciti di lavoratori di riserva  e sostenitore della plutocrazia, anche se non ha l’intelligenza per esserne consapevole.