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Tutti gli uomini salva Berlusconi

di Andrea Colombo - 30/11/2009

L’articolo che segue è stato pubblicato ieri, 30 novembre  sul quotidiano Gli Altri. Viene qui riproposto per gentile disponibilità della direzione del giornale e dell’Autore.

La redazione

I prestanome del sovrano

Ogni dubbio è più che giustificato quando si arriva alla credibilità del pentito Spatuzza, quello che s’avvia a inguaiare don Silvio come mai prima in una lunga e onorata carriera d’imputato, scaricandogli addosso la reputazione, addirittura, di stragista (e difficile immaginare cosa verrà dopo, essendo improbabile l’accusa di essere stato il vero mostro di Firenze: però non si sa mai). Ma quando l’uomo d’onore, al solito come Bruto, afferma che guardando il guardasigilli Angelino Alfano, con quella faccia da bamboccio mai cresciuto, gli pare di vedere in trasparenza i meno infantili volti di Berlusconi Silvio e Dell’Utri Marcello, proprio non gli si riesce a dare torto.

Tra i serventi del sovrano nessuno, nemmeno il petulante Gasparri dei bei tempi, ha mai comunicato un’altrettanto invincibile sensazione di trovarsi di fronte a un’impiegato neanche troppo di concetto. Uno di quelli che “alla prima che mi fai ti licenzio e te ne vai”. E in effetti proprio questo democratico discorsetto, stando ai mai smentiti retroscena comparsi in giro per quotidiani, gli avrebbe tenuto di recente il principale, a fronte di qualche peraltro timidissimo dubbio espresso dal bamboccio in merito all’ultima del Ghedini, il già notissimo “processo breve”.

Ma il povero Angelino, si sa, è solo l’ultimo di una serie lunga. Quando questa caricatura di repubblica sarà solo un imbarazzante ricordo, materia di storiografia tragico-grottesca, i prestanome dell’Unico meriteranno un capitolo a parte. Sono quei poco onorevoli che hanno accettato, nel corso del tempo, di inoltrare con le loro firme e battezzare col loro nome leggi scritte da altri, di solito da qualche avvocato dell’imputabile, e pensate con in testa un solo caso, quello dell’imputato in questione. Non sono mica tutti uguali. Rappresentano, al contrario, una tipologia politico-antropologica vasta e a modo suo esaustiva. Illustra infatti con mirabile precisione i mille rivoli che, pur nascendo da fonti diverse alcune delle quali persino trasparenti, sono poi confluiti nel fiume inquinatissimo del servilismo collettivo, il morbo che impedisce anche ai meglio intenzionati di prendere sul serio la pagliaccesca destra italiana.

Chi glielo fece fare, per esempio, a un politico di lungo corso e invidiabile carriera come l’ex liberale Alfredo Biondi, avvocato di grido, reputazione specchiata, a firmare nel ‘94 il decreto passato alla storia come”salvaladri”, impiombato dagli stessi soci del Berlusca, sia i leghisti che i nazional-alleati, e oltretutto vergato, secondo i beniformati, neppure da lui in persona ma da un altro ministro-avvocato, di reputazione però meno limpida, Cesarone Previti? In parte glielo fece fare, di certo, la riconoscenza nei confronti dell’ “homo (politicamente) novus” che lo aveva salvato dai gorghi in cui era affondata , appena un anno prima, tutta la classe politica di cui aveva fatto parte, gli uomini (che di donne ce n’erano ben poche) del “pentapartito” al governo per tutti gli allegri anni ‘80.

Ma in parte glielo fece fare anche una sincera convinzione, perché quelli erano altri tempi, la melmosa seconda repubblica era ancora ai primi vagiti e si riteneva ancora che per varare una legge almeno un pochino bisognasse crederci. Biondi Alfredo era un vecchio e sincero garantista, e il decreto in questione non era affatto quell’abominio che sembrava in quel luglio 1994: si limitava a limitare i tempi, di fatto quasi illimitati, della carcerazione preventiva e a renderlo esecrato non erano tanto i contenuti quanto il momento intempestivo in cui fu varato nonché il sospetto, il semplice sospetto, che potesse un giorno tornare utile a Silvio il presidente. Altri tempi.

Poi, per sette anni più nulla: quelli in cui Silvio il nostalgico guardava palazzo Chigi rigorosamente dall’esterno. La slavina si annunciò subito dopo il rientro dall’esilio, con la legge che decapitò settemila rogatorie internazionali in stato di già avanzata richiesta. Firmava Marcello Dell’Utri, cui tutto si può dire ma non che sia un prestanome, e con lui due giornalisti per la verità assai poco servili: Guzzanti e Jannuzzi.

Più gustoso il caso della legge sul legittimo sospetto, studiata per rendere quanto più facile possibile (per i facoltosi in grado di stipendiare qualche principe del foro) la ricusazione del giudice, firmata nel 2002 da Melchiorre Cirami, detto Rino. Compaesano di Totò Cuffaro da Raffadali, magistrato tra i più chiacchierati di Agrigento, Rino è il modello impareggiabile del frontaliere della politica, uno di quelli abituati a saltare da un polo all’altro trovando a ogni giravolta  il proprio tornaconto. Eletto con il Cdu di Buttiglione nel ‘96 passa all’Udeur di Mastella e Cossiga nel ‘98, giusto in tempo per votare la fiducia al governo D’Alema. «Cossiga -  spiega – mi ha convinto spiegandomi che mandarla al governo è il miglior modo per distruggere la sinistra». Compiuta la missione, Rino se ne torna giulivo sotto i vessilli berlusconiani e dissertare sul perché si sia prestato a varare la legge che si fregia del suo nome sarebbe eccedere in ingenuità.

Il primo a proporre un lodo per rendere non processabile il superprocessato fu Renato Schifani, attualmente secondo cittadino dello Stato, addì 2003. Credeva davvero nel valore del suo lodo? Domanda superflua. Schifani è uno di quelli che crede davvero solo in san Silvio, e ogni suo giudizio si misura su quella pietra di paragone: quel che fa comodo al santo è giusto, ciò che lo disturba turpissimo.

Di questi tipi alla Schifani  o alla Bondi si parla di solito malissimo, e a torto. La loro fedeltà canina è del tutto comprensibile. Quando il cavaliere si affacciò all’orizzonte, erano già rassegnati a vegetare negli angoli più negletti del lussureggiante giardino del potere. Il dottor Berlusca li ha trasformati da un giorno all’altro in figure potenti e riverite, li ha portati più in alto di quanto avessero mai sperato di arrivare. Chiedergli di non credere in lui sarebbe come chiedere a Cenerentola di non credere nella fatina buona.

E Gasparri, firmatario di una legge sull’etere che le teste d’uovo Mediaset non avrebbero potuto far meglio? Beh, ricordava anni fa  una sua ex camerata del Msi che alla fine dei ‘70 prese un’altra strada, quella delle armi: «Maurizio è uno che all’asilo portava il cestino con la merenda di Fini, e non è mai cambiato». In effetti, a cambiare sono stati solo il proprietario del cestino di turno, e anche un po’ l’accresciuta solerzia nel soddisfare al volo i suoi desideri e i suoi capricci.

Nulla da eccepire, poi, su Gaetano Pecorella,”autore” della legge 2006, parzialmente affossata dalla Consulta l’anno seguente, che introduceva l’inappellabilità da parte del pm per le sentenze di proscioglimento. Il senatore ha fatto il suo dovere. E’ pur sempre l’avvocato del premier, tipo gioviale,certo, ma comunque gran lombardo: lavora, guadagna, paga. Pretende.

L’eccezione, in questo poco selvaggio mucchietto, si chiama Edmondo Cirielli. Il parlamentare di An, ufficiale dei carabinieri, si era scritto una bella leggina forcaiola, per tenere ben chiusi sottochiave i recidivi. Quando ha scoperto che, grazie a una sapiente aggiuntina dei forzisti, il senso del suo provvedimento-chiavistello veniva quasi rovesciato, dal momento che riduceva di brutta i termini della prescrizione, il maggiore, attualmente presidente della provincia di Salerno, non c’ha visto più e ha preteso che si cancellasse il suo nome dalla legge. Che proprio per questo è diventata la”ex-Cirielli”.

Non è che il berlusconismo sia, come pensano i maniaci dell’antiberlusconismo, sia sempre uguale a se stesso. Nel tempo è cambiato parecchio. In peggio. E se i prestanome sono uno specchio fedele della destra italiana, l’attuale guardasigilli riflette con precisione estrema la deriva finale del berlusconismo. Perché fra tanti prestanome uno che sin nella postura fisica ricordasse tanto un cameriere ancora non s’era trovato. Roba da urlare: «Aridatece Alfredo Biondi e il suo salvaladri, che a paragone del processo breve era una perla».

 

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