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Che cosa vide realmente Enea nel tempio di Giunone a Cartagine?

di Francesco Lamendola - 01/12/2009


Che cosa vide realmente Enea quando penetrò, insieme al fido compagno Acate, nel tempio di Giunone a Cartagine, dopo essere giunto nella città della regina Didone a causa della burrasca che aveva gettato la sua flotta contro le coste africane?
Immaginiamoci un eroe dei tempi antichi, "bello di fama e di sventura", come avrebbe detto Foscolo, spingersi, dopo un naufragio, per le strade di una città in costruzione da parte di un popolo anch'esso straniero e giunto da poco in quei lidi. Immaginiamo, inoltre, che una nebbia soprannaturale lo avvolga, lui e il suo compagno (come già aveva narrato Omero nell'episodio di Ulisse che si reca nella città di Alcinoo, re dei Feaci, dopo il romantico incontro con la principessa Nausicaa), in modo da celarlo alla vista altrui e da consentirgli di passare inosservato. E infine, immaginiamo di vederlo penetrare nel bosco sacro a Giunone e poi nel tempio della dea, di recentissima costruzione, ma già prefetto in ogni particolare.
La situazione è già di per se stessa emozionante, degna di un moderno romanzo d'avventura; anzi, volendo spingersi ancora più in là con le analogie, degna di un romanzo del genere "fantasy",, come nel celebre "Le montagne della follia", del grande solitario di Providence: H. P. Lovecraft; e, magari, con forti venature di mistero, come ne "L'uomo invisibile", di H. G. Wells, il padre (insieme a J. Verne) della fantascienza.
Ecco, ad esempio, come Lovecraft descrive le scultore dei Grandi Antichi, all'interno degli edifici abbandonati di una ciclopica città sperduta fra i ghiacci dell'Antartide, nel suo romanzo "At the Mountains of Madness" (traduzione italiana di Gianni Pilo, Roma, Gruppo Editoriale Newton, 1994, pp. 74-75):

"L'originale caratteristica decorativa era costituita  dall'uso quasi universale della scultura murale, che tendeva a correre in strisce orizzontali ininterrotte, larghe un metro e prolungantesi dal pavimento al soffitto, e strisce di analoga ampiezza di disegni geometrici. . Vi erano delle eccezioni in questo schema, ma la loro preponderanza era schiacciante. Spesso, comunque, si poteva notare una serie di tessere levigate, contenenti gruppi di puntini disegnati bizzarramente su una delle strisce dell'arabesco.
Ci rendemmo subito conto che la tecnica era perfetta, ed esteticamente evoluta fino ai più alti livelli delle culture civilizzate, sebbene totalmente aliena in ogni dettaglio rispetto a qualsiasi arte tradizionale conosciuta della razza umana. Nessuna scultura che avessi mai visto riusciva ad avvicinarsi a quelle della Città Deserta, considerata la minuzia dell'esecuzione. […]
Il soggetto delle sculture ovviamente traeva origine dalla vita dell'epoca ormai svanita di quando erano state fatte, e riassumeva una gran parte di quel periodo storico… "

Infatti, tornando all'"Eneide", la situazione diviene ancora più intrigante, e altamente suggestiva, allorché il nostro eroe, penetrato all'interno del tempio, vi scopre, sulle pareti, una lunga e fitta serie di raffigurazioni - forse dipinte, forse scolpite nella pietra o nel marmo - della guerra di Troia, della quale egli è stato uno dei protagonisti ed alla quale è fortunosamente scampato, dopo l'incendio e la drammatica fine della città asiatica.
A pochissimi anni di distanza da quei fatti, egli ha la ventura di scorgere un possente ciclo decorativo ove nulla è stato dimenticato di quella recente tragedia, e in cui lo sfortunato valore degli sconfitti è stato messo adeguatamente in rilievo, più che la brutale iattanza dei vincitori, come attesta il celeberrimo verso virgiliano:

"sunt lacrimae rerum et mentem mortalia tangunt".

Singolare ventura davvero: capitare in un paese sconosciuto, penetrare in una città mai prima veduta, e trovare se stessi e i propri amici, molti dei quali ormai esclusi dalla luce del sole, raffigurati dalla mano di un ignoto artista, con tale maestria e con tale realismo, da consentire a chiunque di ricostruire le dettagliate vicende che portarono alla distruzione della propria città, come se si trattasse di un libro aperto: e ciò a così breve distanza dai fatti!
Virgilio, senza dubbio, è caduto qui in un anacronismo logico e storico, come spesso gli accade: non importa; le ragioni della poesia superano nel suo poema, come è giusto, quelle della razionalità e della verosimiglianza. L'"Eneide" non è un'opera storica, ma di altissima poesia; senza contare che l'autore non ha avuto il tempo di dargli la mano definitiva, e quel che ci resta è poco più di un abbozzo, di una intelaiatura generale; non l'opera finita.
Rimane la suggestione per la situazione in cui Enea ed Acate si sono venuti a trovare all'interno del tempio di Giunone (loro mortale nemica); una situazione così anomala e strana, così carica di potenti emozioni - tanto è vero che Enea, osservando le scene rappresentate, non riesce a trattenere le lacrime, proprio come era accaduto ad Ulisse alla corte di Alcinoo, ascoltando il racconto dell'aedo Demodoco - da evocare una atmosfera di sottile magia.
Atmosfera strana, quasi fuori del tempo, che ricorda, per taluni aspetti, quella percepita dall'avventuriero americano John Spencer, allorché questi penetrò nei sotterranei del monastero buddista di Tuerin, in Mongolia, facendovi una sbalorditiva scoperta (cfr. il libro di Peter Kolosimo, "Non è terrestre", Milano, Sugarco, 1968, pp. 59-64).
Riportiamo qui di seguito i versi del II libro dell'"Eneide" (441-497) che descrivono Enea e il suo amico intenti ad osservare la raffigurazione della guerra di Troia:

"Lucus in urbe fuit media, laetissimus umbrae,
quo primum iactati undis et turbine Poeni
effodere loco signum, quod regia Iuno
monstrarat, caput acris equi: sic nam fore bello
egregiam et facilem victu per saecula gentem.
Hic templum Iunoni ingens Sidonia Dido
condebat, donis opulentum et numine divae,
aerea cui gradibus surgebant limina nixaeque
aere trabes, foribus cardo stridebat aënis.
Hoc primum in luco nova res oblata timorem
leniit, hic primum Aeneas sperare salutem
ausus et adflictis melius confidere rebus.
Namque sub ingenti lustrat dum singula templo
reginam opperiens, dum, quae fortuna sit urbi,
artificumque manus inter se operumque laborem
miratur, videt Iliacas ex ordine pugnas
bellaque iam fama totum volgata per orbem,
Atridas Priamumque et saevom ambobus Achillem.
Constitit et lacrimans  "Quis iam locus" inquit, "Achate,
quae regio in terris nostri non plena laboris?
En Priamus. Sunt hic etiam sua praemia laudi,
sunt lacrimae rerum et mentem mortalia tangunt.
Solve metus; feret haec aliquam tibi fama salutem."
Sic ait artque animum pictura pascit inani
multa gemens largoque umectat flumine voltum.
Namque videbat, uti bellantes Pergama circum
hac fugerent Grai, premere Troiana iuventus;
hac Phryges, instaret curru cristatus Achilles.
Nec procul hinc Rhesi niveis tentoria veli
adgnoscit lacrimans, primo quae prodita somno
Tydides multa vastabat caede cruentus,
ardentisque avertit equos in castra, prius quam
pabula gustassent Troiae Xanthumque bibissent.
Parte alia fugiens amissis Troilus armis,
infelix puer atque impar congressus Achilli,ù
fertur equis curruque haeret resupinus inani,
lora tenens tamen; huic cervixque comaeque trahuntur
per terram et versa pulvis inscribitur hasta.
Interea ad templum non aequae Palladis ibant
crinibus Iliades passis peplumque ferebant,
suppliciter tristes et tunsae pectora palmis:
diva solo fixos oculos aversa tenebat.
Ter circum Iliacos raptaverat Hectora muros
Exanimumque aurom corpus vendebat Achilles.
Tum vero ingentem gemitum dat pectore ab imo,
ut spolia, ut currus, utque ipsum corpus amici
tendentemque manus Priamum conspexit inermis.
Se quoque principibus permixtum adgnovit  Achivis
Eoasque acies et nigri Memnonis arma.
Ducit Amazonidum  lunatis agmina peltis
Penthesilea furens mediisque in millibus ardet,
aurea subnectens exsertae cingula mammae,
bellatrix, audetque viris concurrere virgo.
Haec dum Dardanio Aeneae miranda videntur,
dum stupet obtutque haeret defixus in uno,
regina ad templum, forma pulcherrima Dido,
incessit magna iuvenum stipante caterva."

Ed ecco la traduzione di Luca Canali di questi bellissimi versi virgiliani (da: Virgilio, "Eneide", a cura di Ettore Paratore, Fondazione Lorenzo Valla e Arnoldo Mondadori Editore, 1978, 1994, vol. 1, pp. 36-40):

"V'era, in mezzo alla città, un bosco rigoglioso
d'ombra, dove prima gettati dalle onde e dal turbine
i punici scavarono il segno che aveva indicato Giunone
regale, il teschio d'un cavallo da guerra; così la stirpe
sarebbe famosa in guerra e prospera in pace per secoli.
Qui la sidonia Giunone fondava un tempio maestoso
A Giunone, opulento di offerte e del nume della dea,
a cui sui gradini sorgevano soglie di bronzo,
e travi connesse di bronzo, e strideva il cardine a bronzei
battenti. In questo bosco dapprima l'apparire d'un fatto
inatteso lenì il timore, ed Enea osò sperare
salvezza e avere migliore fiducia nelle avverse vicende.
Infatti mentre osserva tutto nel tempio maestoso,
aspettando la regina, mentre ammira tra sé
la fortuna della città, e la mano degli artefici e l'industria
delle opere, vede per ordine le iliache battaglie
e la guerra già nota per fama in tutto il mondo,
gli Atridi, e Priamo, e Achille, a entrambe le parti crudele. Ristette
e disse in lagrime: "Qual luogo ormai, Acate,
o regione della terra non riempie il nostro travaglio?
Ecco Priamo. Anche qui il valore si pregia.
Si compiangono le sventure e gli eventi umani commuovono
L'animo. Lascia il timore; la fama ti porterà salvezza.
Così dice, e pasce il cuore nella vana pittura",
molto gemendo, e bagna il volto di largo pianto.
Infatti da una parte vedeva come lottando intorno
A Pergamo fuggissero i greci, li inseguisse la gioventù troiana,
dall'altra come Achille crestato sul carro incalzasse i frigi.
Non lontano di qui riconosce piangendo
Le tende dai candidi teli di Reso, che tradite
nel primo sonno, il Tidide devastava con grande strage
cruento, e riportava gli ardenti cavalli nel campo,
prima che avessero gustato i pascoli di Troia e bevuto
allo Xanto. In un'altra parte, fuggente, perdute le armi,
Troilo, sventurato ragazzo, impari allo scontro con Achille,
è trascinato supino dai cavalli e attaccato al carro
vuoto, tuttavia tenendo le briglie, la nuca e i capelli
strisciano in terra, la polvere è rigata dall'asta riversa.
Le donne d'Ilio frattanto andavano al tempio
dell'inclemente Pallade, disciolti i capelli, vestite
del peplo, supplici, tristi, battendosi il petto con le palme;
la dea incurante teneva gli occhi fissi al suolo.
Achille trascinava tre volte Ettore intorno
alle mura iliache, e vendeva a peso d'oro il corpo esanime.
Allora emise un grande gemito dal profondo
del petto, quando vide le spoglie e il carro e il corpo
dell'amico, e Priamo che tendeva le mani inermi.
Ravvisò anche se stesso, mischiato ai prìncipi
Achivi, e le schiere eoe e le armi del nero Memnone.
Pentesilea furente guida torme di Amazzoni
Dai piccoli scudi lunati, e arde tra le migliaia
Allacciando l'aurea cintura sotto la nuda mammella;
vergine guerriera, ardisce scontrarsi con uomini.
Mentre al dardanio Enea appaiono queste cose mirabili,
mentre stupisce, immobile, fisso nel solo sguardo,
la regina entrò nel tempio, la bellissima Didone,
stretto intorno a lei un grande stuolo di giovani."

Fin da quando, sui banchi di scuola, ci siamo imbattuti per la prima volta in questo brano dal fascino indefinibile, non abbiamo potuto sottrarci a una spiccata sensazione d'un che di misterioso e di indefinito, come di una vaga lontananza che, tuttavia, si proietta stranamente vicina, vicinissima: un po' come le chiome degli alberi e la vegetazione che si riflettono nelle acque tranquille di un piccolo fiume in mezzo alla campagna, insieme al cielo e alle nuvole in esso vaganti. Qual è la realtà, qual è l'immagine riflessa? E quest'ultima, non è forse reale anch'essa, e, per certi aspetti, perfino più reale di quell'altra, ossia quella del mondo ordinario?
Tutta la situazione è strana, quasi sospesa fra la dimensione della realtà e quella del sogno; vi è qualcosa di onirico in quel procedere dei due Troiani, nascosti da un velo di foschia, per le strade piene di gente; in quel tempio che sorge, superbo, al centro di un bosco lussureggiante, un bosco all'interno e non fuori le mura di Cartagine; in quella particolareggiata narrazione visiva degli episodi più celebri della lunga e sfortunata guerra sostenuta dai Troiani contro i Greci, per la vita e per la morte.
Ma di che genere di raffigurazione si trattava, esattamente: erano pitture ad affresco, sul tipo di quelle delle celebri ville di Pompei, o magari a mosaico; oppure si trattava di sculture in pietra, nel marmo o forse nel legno, sbalzate con la tecnica del bassorilievo?
Virgilio, al principio, non si sbilancia, rimane deliberatamente nel vago; solo al verso 464 usa il vocabolo "pictura", che parrebbe lasciare adito a pochi dubbi; ma ne siamo proprio sicuri? "Pictor", infatti, è senza dubbio un pittore, e "pictura" è un dipinto; d'altra parte, Cicerone adopera questo vocabolo anche nel senso figurato di "descrizione".
La questione, pertanto, rischia di rimanere aperta e impregiudicata, e ha visto gli studiosi di Virgilio e i traduttori del suo poema dividersi in due partiti. La domanda, da un punto di vista storico, è se gli antichi abitanti del Mediterraneo, parecchi secoli prima di Cristo (e prima che Roma venisse fondata), conoscessero e praticassero l'arte della pittura; cosa che alcuni studiosi hanno posto in dubbio, almeno in passato, ritenendo che la scultura abbia preceduto, e di molto, la pittura; mentre la cosa, oggi, non si presenta più in questi termini.
Sta di fatto che lo Heyne, partendo, appunto, dalla convinzione che, ai tempi di Enea e Didone, la pittura non fosse ancora praticata, e appoggiandosi sulla testimonianza in tal senso di Plinio il Vecchio, ritiene che le sette storie della guerra di Troia raffigurate nel tempio di Giunone dovevano essere necessariamente in forma di sculture.
La posizione di Heyne è stata recepita da una minoranza di traduttori dell'"Eneide", fra i quali ricordiamo, per limitarci agli Italiani, Adriano Bacchielli: "vide scolpite in ordine da lato le iliache battaglie e la gran guerra" (Torino, Paravia, 1963).
Guido Vitali preferisce non sbilanciarsi, e  traduce: "Egli vide le iliache battaglie e la guerra già nota in tutto il mondo"; nel commento, infatti (Milano, Edizioni Scolastiche A. P. E., 1975) precisa che doveva trattarsi di dipinti o di sculture in bassorilievo. Analoga prudenza dimostra Mario Gammarco (Milano, Bompiani, 1995), che nella traduzione resta sul vago, ma, nel commento, precisa che poteva trattarsi tanto di affreschi, come di bassorilievi.
Altri studiosi, come il Forbiger, pur non accettando questa interpretazione, ritiengono che Virgilio pensasse a delle pitture, ma in deroga alla realtà storica dei tempi eroici. Egli, pertanto, sarebbe incorso in un tipico anacronismo, come quando aveva introdotto i ludi equestri nel corso dei giochi funebri in onore di Anchise, nel quinto canto del poema, compiendo una evidente forzatura rispetto alla situazione vigente al tempo di Enea. Del resto, anche le porte e i battenti di bronzo del tempio di Giunone appaiono quanto meno dubbi, per non dire improbabili: data l'epoca, sarebbe stato molto più logico pensare a portoni di legno.
Fra i traduttori che non esitano a decidersi per le pitture, invece, ricordiamo Enzio Cetrangolo (Firenze, Sansoni, 1993): "vede dipinte per ordine le Iliache battaglie, vede la guerra ormai già diffusa nel mondo"; Cesare Vivaldi (Torino, Edisco, 1981), che si spinge ancora più nel dettaglio, traducendo, invero con una certa libertà: "ecco che lo colpisce una serie di affreschi raffiguranti la guerra di Troia, già famosa in tutto il mondo"; e Mario Scaffidi Abbate (Roma, Newton Compton, 1994): "scorse, dipinte sopra una parete, in ordine, la guerra e le battaglie d'Ilio, già note in tutto il mondo"; e, ancora, Alberto Grosso e Rosa Calzecchi Onesti. Di questa opinione è anche il principe dei traduttori dell'"Eneide", il celebre Annibal Caro.
La questione è stata riassunta in modo sintetico ma esauriente da Ettore Paratore (ed. cit., vol. 1, pp. 193-94):

"Lo Heyne, sulla base del pregiudizio allora dominante, sulle orme di Plinio il Vecchio ("Nat. Hist.", XXXV, 6), che nei tempi eroici la pittura, e specie quella ad affresco, non fosse ancora conosciuta, suppose che sotto il "pictura" verso 464 vada intesa l'allusione a "quovis opere, quod figuras rerum ac signa repraesentet"; e il Forbiger, pur non accettando quest'interpretazione, che scorge nelle raffigurazioni della guerra di Troia opere scultorie [sic], pensa che Virgilio abbia applicato "suae aetatis mores ad antiquissima illa tempora". Recentemente si è cominciato a pensare che già nel "Bellum Phoenicum" di Nevio, i cui influssi sul libro I dell'"Eneide" sono innegabili, l'archeologia prendesse le mosse non dal frontone del tempio di Agrigento, ma da un ciclo di pitture rinvenuto in una città siciliana. Perciò Virgilio avrebbe tratto da Nevio anche l'ispirazione per i particolari degli affreschi".

Bisogna peraltro tenere sempre presente che Virgilio è un poeta, e che egli ama lasciare i paesaggi e gli ambienti fisici in un'aura di indeterminatezza (si pensi, come esempio classico, allo stupendo "incipit" del secondo libro, quando Enea si accinge a narrare a Didone i suoi personali ricordi dell'ultima notte di Troia); ciò che a lui preme di descrivere nel modo più esatto possibile sono, al contrario, le atmosfere psicologiche e spirituali.
Non è stato forse notato che i sette episodi della guerra di Troia, descritti dal poeta latino nei versi sopra citati, non sono ricordati nel loro esatto ordine cronologico? È evidente, quindi, che non bisogna cercare in lui uno scrupolo di precisione storica, poiché una tale preoccupazione esula dal suo mondo poetico; e, invero, se vi fosse, stonerebbe.
Non vi è nulla di strano, perciò, se si giunge ad ammettere che egli stesso abbia preferito lasciare indefinita anche la natura delle raffigurazioni del tempio di Giunone, affinché il lettore se le immagini come preferisce.
Virgilio non è mai, o quasi mai, un pittore analitico; non ama definire e circoscrivere le cose, ma piuttosto alludere e suggerire, lasciando la più ampia libertà d'interpretazione.
Pitture o sculture, pertanto, che importa? Se noi, personalmente, propendiamo per delle sculture, è cosa attinente al nostro gusto personale; né la verità poetica ci scapita in alcun modo, qualunque sia l'immaginazione del lettore in proposito. Virgilio, di certo, avrà avuto una visione abbastanza precisa di quelle raffigurazioni della guerra di Troia; ma, se avesse ritenuto importante trasmetterla in modo univoco, sarebbe stato assai più preciso nella scelta delle espressioni.
Ma non l'ha fatto; ed è anche per merito di particolari siffatti che noi possiamo misurare tutta la sua grandezza artistica ed anche tutta la sua profonda, vibrante umanità. Egli ha chiamato il lettore a ricreare, con gli occhi della propria mente, una vicenda poetica solamente da lui suggerita e non imposta con parole precise e inequivocabili; e, così facendo, ci ha spronati a diventare a nostra volta, e quasi senza rendercene conto, coautori del suo stupendo poema.