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Lasciarsi andare al richiamo dell'Essere come l'acqua che si affretta giù per la cascata

di Francesco Lamendola - 08/12/2009

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Osservando l'acqua di una cascata che si precipita giù dal salto e si rovescia sulle rocce sottostanti, formando una nuvola di minutissima schiuma, vien fatto di pensare che quella di cadere nel vuoto, verso l'abisso, debba essere un'esperienza terribile, spaventosa: tutto il nostro essere si ribella all'idea, e ne rabbrividisce.
Ciò avviene perché noi, istintivamente, tendiamo ad identificarci con quelle goccioline d'acqua, conservando, però, tutta la nostra dimensione egoica, tutto il nostro attaccamento alle cose, tutto il nostro incontrollabile istinto di conservazione. Infatti, se davvero ci identificassimo con quelle goccioline d'acqua, dovremmo anche liberarci dai condizionamenti della ragione strumentale e calcolante, farci acqua e natura, lasciarci prendere dal libero gioco degli elementi.
Allora, e solo allora, giungeremmo a comprendere, anzi, a constatare, che le goccioline d'acqua non provano né angoscia, né spavento, allorché si affrettano giù per la grande avventura: il salto nel vuoto, la corsa verso la propria meta. Al contrario, esse - se fosse lecito immaginarle dotate di una qualche scintilla di consapevolezza -, non potrebbero che nutrire gioia e impazienza, perché quel salto rappresenta una tappa decisiva verso il conseguimento del loro fine.
Il fine dell'acqua di un fiume è quello di entrare nel mare. I fiumi non scorrono a caso: vanno verso una meta, hanno uno scopo e una precisa ragion d'essere. Ogni cosa, nell'universo, possiede una precisa ragion d'essere, uno scopo e una meta. Ogni cosa obbedisce a un'immensa armonia, che tutto abbraccia e che di tutto si serve, perfino delle note discordanti e delle pause d'incertezza da parte di alcuni di noi.
Tuttavia, si potrebbe obiettare, anche ammesso che l'acqua non provi spavento né dolore all'idea di rovesciarsi giù da una cascata e di affrettarsi verso il mare, non resta pur sempre il fatto che, una volta raggiunta la sua meta, il fiume, in quanto tale, cessa di esistere, così come cessano di esistere le singole gocce che lo componevano?
Anche queste domande, però, a ben guardare, nascono da un residuo di antropocentrismo, di attaccamento egoico davanti al mistero del flusso cosmico. Le goccioline d'acqua non sono mai esistite in una dimensione separata, se non in circostanze assolutamente rare ed effimere, come la rugiada sulla vegetazione, nel fresco del primo mattino; ma poi, ben presto, col levare del Sole, esse evaporano e ritornano all'aria, formando l'umidità di cui si alimentano le nuvole; e, sotto forma di  pioggia, torneranno di nuovo sulla terra, in un ciclo perenne.
Così, fin da quando il fiume ha origine, lassù fra le montagne, dalla sua sorgente, non esistono singole gocce d'acqua, ma un rivoletto che scende dal ghiacciaio o che scorre giù per una parete rocciosa: dunque, esse non scompaiono entrando nel mare, perché, in quanto realtà separate, non esistevano neppure prima. E nemmeno il fiume scompare: cessa di essere visibile, questo sì; confonde la sua corrente con quella del mare: ma ciò non significa che scompaia. Continua ad esistere, in una forma diversa: proprio come la rugiada che evapora al Sole non cessa di esistere, ma diventa umidità presente nell'aria, e, più tardi, nuvole e ancora pioggia. Non cessa di esistere, esiste in modo differente, in uno stato diverso da quello di prima.
Così è per l'anima dei viventi: essa non cessa di esistere, mai: cambia semplicemente la veste che indossa, diventando invisibile.
E ciò non riguarda solo la sua condizione dopo la morte del corpo cui è associata (e prima del concepimento, cosa alla quale, in genere, non si presta attenzione); ma anche, in un certo senso, la sua condizione presente, allorché, conosciuti la propria meta e il proprio scopo, compresa la propria ragion d'essere, essa incomincia a liberarsi, già qui e ora, nell'attuale dimensione spazio-temporale, di molti degli orpelli e delle cose inutili che ne ritardano il cammino e le impediscono di sfolgorare in tutta la sua viva luce.
Quando l'anima dell'uomo - di questa parliamo, perché ne possediamo una diretta esperienza; senza con ciò escludere che anche le altre creature viventi ne possiedano una - viene raggiunta dalla voce della chiamata ed inizia a fare chiarezza entro se stessa, divenendo via via trasparente e luminosa, di pari passo essa inizia a liberarsi della inutile zavorra che la tiene ancorata a terra o che la costringe a volare basso, per innalzarsi verso le regioni spirituali superiori.
Il momento della chiamata è, peraltro, un momento delicato e ineffabile, come quello in cui la sposa si sente prescelta dallo sguardo amorevole dello sposo; un momento, anche, non privo di paura e intensa trepidazione, perché un orizzonte totalmente nuovo e sconosciuto le si apre dinanzi, mettendo in penombra quello di sempre, rassicurante nella sua quotidianità.
Non è cosa che debba stupire il fatto che l'anima, sul momento, sia turbata da un vero e proprio sentimento di angoscia: lasciare il certo per l'incerto è, per essa, come affrontare il salto pauroso di un'altissima cascata, per le acque di un placido fiume che procedono lente e tranquille, cullate dalle dolci sponde su cui si protende una vegetazione amica.
Il rombo della cascata fa paura; e così fa paura, in un primo momento, l'aprirsi di un nuovo orizzonte esistenziale, ove le cose che prima parevano importanti, le cose che conferivano un senso di sicurezza e di protezione, impallidiscono e scompaiono, e cose nuove appaiono, attraenti, ma ignote; e nessuna garanzia preventiva, nessuna certezza anticipata può rendere del tutto indolore il passaggio dall'una all'altra riva dell'Essere.
Non tutte le anime, crediamo, provano un tale momento di sgomento; e non tutte con la stessa forza e con la stessa intensità. Quelle che già avevano incominciato ad intuire la propria vocazione, e ad accordare con essa il proprio cammino, saranno anche le meno turbate; di più lo saranno quelle che avevano sempre rimandato il momento della verità, mettendo a tacere in se stesse, per quanto possibile, la voce della chiamata.
Anche una certa abitudine al colloquio interiore, alla meditazione, alla preghiera; una certa abitudine all'onestà intellettuale, al rigore morale, all'esigenza verso se stessi, contribuiscono a rendere più agevole e meno traumatico il rimbombo della cascata. L'anima che si è abituata per tempo a puntare all'essenziale, a spogliarsi dei fronzoli e delle ipocrisie, troverà anche più agevole separarsi definitivamente dall'uomo vecchio, attaccato meschinamente al proprio ego, alla propria brama di possesso e di gratificazione esteriore.
Il rombo della cascata, comunque, presto o tardi si fa udire a ciascuna anima: per quelle più pigre e neghittose, si fa udire solo all'approssimarsi della morte fisica. Ed esso appare loro spaventoso, perché non si erano mai preparate al distacco, non avevano mai praticato la solitudine, l'ascolto, il dialogo approfondito con se stesse. Istintivamente, esse lo vedono come un salto verso la rovina, verso la dissoluzione: ne provano non soltanto paura, ma anche un profondo rammarico, perché appare loro essenzialmente sotto la categoria della perdita, la perdita più grande che si possa concepire: quella di se stessi.
Ma non è così. Le gocce d'acqua non si perdono nel fiume, e il fiume non si perde nel mare: al contrario, esse realizzano il proprio fine, entrano in comunione con una realtà cosmica di cui erano parte fin dall'inizio, e senza la quale esse non avrebbero ragione di esistere. Nessuno esiste solo per se stesso; nessuna cosa si realizza in completo distacco dalle altre. E nessuno si perde veramente, se non per ritrovarsi su un diverso piano di esistenza e di consapevolezza.
Certo, è possibile ritrovarsi su di un piano inferiore: ciò avviene quando, messa a tacere la voce della chiamata, l'anima si lascia sedurre da false immagini di bene, e insegue una felicità che non potrà mantenere le sue promesse. Ma neppure questo è, veramente, un perdersi: è solo un rimandare il momento della verità, il momento della luce, cui tutti sono chiamati.

*   *   *
Nei Paesi anglosassoni è assai noto il nome di una scrittrice mistica americana proveniente dalla religiosità quacchera: Hannah Hurnard.
Ella ha scritto un piccolo ma delizioso libro di allegoria sacra, ispirandosi al Cantico dei Cantici e al famoso salmo biblico «Come la cerva anela ai rivi delle acque, così l'anima mia anela a te, o Dio…», il quale, a sua volta, ha ispirato tante celebri opere  d'arte, prima fra tutte il meraviglioso mosaico nel Mausoleo di Galla Placidia a Ravenna. Vi descrive le vicissitudini dell'anima alla ricerca di Dio, in un clima di estatico abbandono e di stupita, trepidante ammirazione per le meraviglie del creato.
In un certo senso, non è un 'opera profonda, se con questo termine si intende una profondità del pensiero razionale; è un'opera semplice, accessibile anche alla lettura di un bambino: ma vi sono cose talmente profonde, nella loro stessa essenza, che non possono venire espresse mediante le categorie del Logos razionale, ma per esse si deve necessariamente ricorrere ad immagini figurate, magari anche ingenue, le sol, però, capaci di suggerire almeno un pallido riflesso di quella verità sublime che non sarebbe possibile esprimere altrimenti.
A volte bisogna essere semplici, per poter dire cose molto grandi; o, almeno, per provare ad alludervi.
Ci piace qui riportare un brano tratto dal capitolo quattordicesimo del libro di Hannah Hurnard «Piedi di cerva sulle Alte Vette. Viaggio a Dio attraverso il Cantico» (titolo originale: «Hind's feet on High Places», London, The Olive Press; traduzione italiana di Daniela Guglielmino, Torino, Gribaudi Editore, 1982, pp. 127-29):

«Ripresero a camminare chinandosi ad ogni pie' sospinto ad accarezzare delicatamente i fiori simili a gioielli o per immergere le dita nei ruscelli spumeggianti. A volte si fermavano estatiche tra tanta bellezza e scoppiavano a ridere di gioia. Il Pastore le condusse, attraverso i campi dove l'erba fresca e profumata arrivava fino alla cintola, verso la cascata, Ai piedi della scogliera si trovarono sotto la frescura delle sua ombra, con piccoli spruzzi che rinfrescavano il viso. Là il Pastore ordinò loro di fermarsi e di guardare in alto.
E Timorosa, una piccola figura ai piedi della possente scogliera, contemplò lo scorrere ininterrotto  delle acque che precipitavano dalle Alte Vette. Pensò di non aver mai visto prima di allora qualcosa di tanto maestoso e di una bellezza così colma di potenza. L'altezza del margine roccioso, da cui le acque si gettavano per infrangersi sulle rocce sottostanti, quasi la terrorizzava. Ai piedi della cascata il rimbombo delle acque era assordante ma anche pregno di significati nobili e solenni, indicibilmente belli.
Quando vi prestò attenzione, Timorosa capì che stava ascoltando la più solenne fra le sinfonie, poiché un'intera orchestra suonava ora il tema originale dei canti che tutti i ruscelli avevano intonato quando si trovava ancora lontana, nella Vallata dell'Umiliazione. Ora era cantata da migliaia e migliaia di voci, con un'armonia più ricca di tutte quelle che aveva sentito nella valle,, anche se il canto era sempre lo stesso.
"Sorgiamo dalle vette per
scendere giù nelle vallate
sempre rispondendo al richiamo
di raggiungere il luogo più basso."
"Timorosa - le disse il Pastore nell'orecchio - che cosa pensi di questa imponente cascata e dello slancio con cui si dona?"
Ella tremò un poco mentre rispondeva: "Penso che sia bella e terribile più di ogni altra cosa che abbia mai visto prima".
"Perché terribile?", chiese il Pastore.
"È il salto che devono fare le acque, la spaventosa altezza da cui si gettano per frantumarsi sulle rocce. Riesco a mala pena a guardare."
"Guarda meglio - insistette - segui con lo sguardo una massa d'acqua dal momento in cui si getta dall'argine superiore fino a quando raggiunge il fondo."
Timorosa seguì il consiglio e quasi rimase senza fiato per la meraviglia. Una volta superato l'argine, le acque diventavano alate, piene di gioia, così totalmente abbandonate all'estasi del dono che Timorosa ebbe l'impressione di star osservando una schiera d'angeli che si librava con ali variopinte, cantando con trasporto lungo il percorso.
Ella osservò a lungo, poi disse: "Sembra che la cascata sia convinta di compiere l'attività più bella del mondo, come se gettarsi fosse abbandonarsi aduna gioia e ad un'estasi indescrivibile."
"Sì - rispose il Pastore, con voce vibrante di felicità e di gratitudine, - sono contento che tu l'abbia notato. Queste sono le Cascate dell'Amore, che scorrono dalle Alte Vette del Regno. Le incontrerai ancora. Dimmi, ti sembra che la gioia dell'acqua abbia fine quando si frantuma sulle rocce sottostanti?"
Di nuovo Timorosa guardò dove egli indicava e notò che, più l'acqua cadeva in basso, più leggera diventava, come se veramente avesse le ali. Le acque ricadevano insieme sulle rocce in una schiera gloriosa, formando un torrente esuberante, irrompente, che spumeggiava vorticosamente tra le rocce e, sopra di loro, ridendo e gridando forte, le acque si affrettavano sempre più in basso, correndo attraverso i declivi verso un nuovo precipizio, nella gloria del donarsi. Di là si sarebbero gettate ancora più in basso, verso altre vallate. Ben lontane dal soffrire per l'urto contro le rocce, sembrava che ogni ostacolo nel letto del torrente venisse considerato un'altra prova da superare e un'altra opportunità di farsi strada. Il suono dell'acqua si spandeva ovunque, ridente, con grida di giubilo.
"A prima vista forse il balzo sembra davvero terribile - disse il Pastore, - ma, come vedi, l'acqua non ne ha paura e non ha momenti di esitazione, né cerca di ritrarsi; prova solo una gioia straordinaria, perché questo è il suo movimento naturale. Il donarsi è la sua vita. Ha solo un desiderio, quello di scendere e donarsi senza riserve o esitazioni Puoi constatare che, obbedendo a quello stupendo impulso,  gli ostacoli che sembrano tremendi non causano nessun danno e anzi aggiungono gioia al suo movimento." Dopo aver detto questo, le condusse di nuovo ai campi assolati e disse loro premurosamente che nei giorni seguenti avrebbero dovuto riposarsi per prepararsi all'ultima tappa del viaggio.
Udendo le parole "ultima tappa del viaggio", Timorosa fu quasi per svenire per la felicità.»

Ultima tappa: ecco un'espressione che, istintivamente, ci spaventa; che suscita in noi un moto di raccapriccio e perfino di ribellione.
La cultura materialista ed edonista in cui siamo immersi fin dal principio della modernità, ha molto contribuito a suscitare un tale stato d'animo, un tale atteggiamento spirituale, che, inevitabilmente, ci mette in conflitto con noi stessi: perché l'uomo è un viandante, e il suo viaggio deve, necessariamente, avere un termine.
L'uomo pre-moderno sapeva di essere un viandante e non contemplava con raccapriccio l'idea di giungere all'ultima tappa, tanto meno con un senso di ribellione. L'uomo pre-moderno era più saggio di noi: egli, nella propria vita, badava all'essenziale; oppure, se non lo faceva, era consapevole di essersi scostato dalla giusta via, e non menava vanto del proprio errore. Era, anzi, pronto a confessarlo e a riconoscerlo come tale; anche se non sempre, ovviamente, era disposto a ritornare sui propri passi.
Egli era un uomo spirituale; o, almeno, era un uomo che teneva socchiusa la porta sulla dimensione della spiritualità. Non la cacciava deliberatamente, programmaticamente, dal proprio orizzonte esistenziale; ragion per cui, raramente giungeva del tutto sgomento e impreparato all'ultima tappa del viaggio.
Egli sapeva che l'ultima tappa del viaggio coincide con la meta: per questo San Francesco, nel «Cantico delle creature», chiama anche la morte con il dolce appellativo di «sorella».
Certo: la morte, sul piano umano, fa paura. Ma l'uomo spirituale non la teme, anzi, la accoglie come una amica, capace di rivelargli tutta quella luce e tutta quella bellezza che egli, con le sue sole forze, per quanto si sia impegnato,  non è mai riuscito che a intravedere, da lontano e in modo fuggevole.