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Quale buddhismo. Perché. Per chi.

di Jiso Giuseppe Forzani & Mauricio Yushin Marassi - 13/12/2009


Una proposta europea

I. La cultura europea, egemone nel mondo.
Anche i Paesi orientali, pur mantenendo o cercando di mantenere le proprie
tradizioni, seguono ormai il modello di sviluppo economico, sociale,
politico e culturale che l'Europa ha elaborato e diffuso ovunque. Nello
stesso tempo un sempre maggior numero di persone, soprattutto in Europa e in
America, sente che quel modello è in crisi, forse è arrivato al proprio
limite, o comunque ha perso la propria freschezza e non riesce a rinnovarsi.
Uno dei motivi che spingono molti europei a guardare al buddhismo risiede
proprio nella coscienza, più o meno consapevole, di questa crisi.
La natura particolare della crisi che l'occidente attraversa consiste in
quello che potremmo chiamare il fallimento del suo successo. La
civilizzazione occidentale, infatti, ha raggiunto, almeno nel cosiddetto
"primo mondo" (Europa e America con l'appendice asiatica del Giappone), gli
obiettivi che si era prefissa a partire da un certo momento della propria
storia, dopo le grandi rivoluzioni democratiche americana e francese.
Gradatamente si è verificato un mutamento di rotta rispetto all'orientamento
dell'epoca antica e medioevale. L'ordine della civiltà europea antica era
fondato sulla visione escatologica cristiana, che si realizza nel tempo e
nella storia come fabbricazione della città degli uomini sul modello della
città di Dio, in attesa della rivelazione finale del piano divino.
Con l'esaurimento della spinta ideale di quella visione e la rottura dell'ordine
tradizionale che ne era derivato, emerge una concezione umanistica di
progresso, che si esprime nella ricerca di emancipazione dell'uomo dalla
propria condizione materiale e spirituale tramite strumenti elaborati dalla
ragione: la valorizzazione dell'individuo, lo sviluppo della tecnica, la
ricerca del benessere materiale. In questo processo si mantengono alcune
istanze egualitarie e comunitarie del cristianesimo originario, che sono all'origine
dei grandi movimenti sociali del XIX secolo, mentre si indebolisce la
dimensione spirituale dell'uomo e la cognizione del suo posto nella natura.
La storia del XX secolo segna il precipitare nell'orrore delle degenerazioni
perverse delle visioni utopistiche totalitarie, con al centro la catastrofe
della seconda guerra mondiale. Da lì emerge unico vincitore un modello di
sviluppo senza orizzonte e senza orientamento, appiattito sulla ricerca del
benessere. Organi operativi di questa visione sono il primato dell'economia,
come chiave della soddisfazione dei bisogni materiali, lo sviluppo della
tecnologia, come strumento di superamento dei limiti naturali, il dominio
della democrazia maggioritaria quantitativa, come forma di generalizzazione
del consenso e di omologazione delle differenze.
La breve euforia postbellica non tarda a rivelarsi drogata: la formula
machiavellica si inverte e sono i mezzi a determinare e giustificare il
fine. L'economia da strumento di soddisfazione dei bisogni diventa
produttrice di bisogni da soddisfare per mantenere se stessa, riducendo l'uomo
a strumento di una crescita economica indefinita e alla funzione di
consumatore di merci, di se stesso e dell'ambiente. La tecnica, da strumento
dei mestieri e delle arti per realizzare i sogni e le visioni dell'uomo,
tende sempre più a trasformarsi in tecnologia, ovvero velocizzazione ed
efficienza nella soddisfazione di desiderio stimolato, al servizio dell'assunto
per cui la soluzione di ogni problema stia nel possesso e nel consumo di
"beni". La democrazia maggioritaria, che enfatizza il responso della
"volontà popolare", valutato a misura quasi esclusivamente della quantità
dei voti, produce la manipolazione del consenso, l'idolatria dei sondaggi e
il controllo della comunicazione: la realtà tende a coincidere con il
racconto che ne fa chi detiene momentaneamente il potere.
Questa strategia ha successo: tutti in un modo o nell'altro partecipiamo,
concorrendo a riprodurre gli stessi meccanismi. Ma questo successo si rivela
essere il vero fallimento, perché non è la realizzazione di una visione che
tenda a una meta condivisa, con alla guida dei conduttori consapevoli, è la
ripetizione meccanica e corale dello stesso meccanismo.
In luogo della soddisfazione per gli obbiettivi raggiunti si diffonde un
malessere individuale e generalizzato, un senso di incertezza che alimenta
oscure paure, uno smarrimento esistenziale di cui non si comprende l'origine
e non si vede la fine. E' questo il cuore della crisi: è profonda la
sensazione di essere in un vicolo cieco, senza sapere perché ci si è finiti
e come uscirne.
II. In questo quadro, quale può essere la funzione del buddhismo?
La civilizzazione occidentale non può uscire dalla crisi globale in cui si
trova perché non può uscire da se stessa, non può vedersi dall'esterno, in
modo da comprendere quale è il punto cruciale. Si osserva dall'interno e
gira a vuoto, come un cane che si morde la coda. Ha bisogno di un punto di
osservazione "esterno", di un osservatore non intrappolato da quel
meccanismo, che indichi il punto in cui la strada si è smarrita. Il
buddhismo, che si è sviluppato in forme distanti e differenti da quelle
emerse all'interno della cultura europea e occidentale, può svolgere questa
funzione, perché è contemporaneamente già presente all'interno delle società
occidentali ma non ancora inglobato completamente nei loro meccanismi.
Da un punto di osservazione buddhista, si può dire che il momento in cui ha
avuto inizio la crisi spirituale dell'occidente coincida col momento in cui
l'esperienza religiosa cristiana ha progressivamente abbandonato l'esperienza
mistica per dedicarsi soprattutto all'elaborazione teologica. Nell'esperienza
mistica cristiana Dio e Uomo sono Uno: questa è la sua caratteristica
distintiva. "Tu sei più intimo a me della mia parte più intima" afferma sant'Agostino
nelle Confessioni (3,6,11). Ma il cristianesimo ha progressivamente tradito
la propria esperienza originaria e ha separato Dio dall'Uomo, l'Uomo da Dio.
La formula stessa del dialogo, il fatto di dare del "Tu" a Dio pur
affermando l'unità intrinseca di umano e divino, contiene in sé il germe
della separazione. Mettere Dio e Uomo in relazione, anche se si tratta di un
espediente del linguaggio per dire qualcosa in sé indicibile, crea lo spazio
per operare una separazione che bisogna poi sanare e ricucire.
Dare del tu a Dio ha in sé il germe della possibilità di dare realtà
autonoma all'io che pronuncia quel "tu": così facendo Dio diviene per l'Uomo
un oggetto "di fronte" (anche se interiore), un oggetto per un soggetto. Qui
si potenzia il processo di ontologizzazione dell'io, caratteristico del
pensiero filosofico occidentale, fin dalle sue origini, laddove l'essere è
certificato dal pensiero, dalla coscienza di esserci. L'uomo si identifica
sempre più esclusivamente con il proprio modo di pensarsi, perché l'autocoscienza
è lo strumento che permette all'uomo di riconoscersi. Questo processo ha il
suo culmine nella visione cartesiana, che ribadisce con forza l'identità di
essere e pensiero: anche l'essere di Dio è affermato e certificato sulla
base del pensiero umano.
Il Dio creatore increato diviene creatura del pensiero umano. La concezione
di Dio come persona, intesa a rendere possibile la sua presenza nella storia
e la sua relazione con l'uomo, ne fa una sorta di alter ego che prende
sempre più, nella rappresentazione che l'uomo se ne fa, le sembianze di un
super io personale, con fattezze antropomorfe e idealizzate. Non più l'uomo
a immagine e somiglianza di Dio, ma Dio a immagine e somiglianza dell'idea
che l'uomo se ne fa.
Nell'esperienza mistica Dio parla all'Uomo per mezzo del silenzio, come dice
la parola stessa (mistico deriva dal verbo greco muein - tacere). La parola
di Dio è il silenzio. Mentre la parola, qualunque parola, per grande e
potente che sia, è commensurabile, il silenzio non è né piccolo né grande, è
incommensurabile. L'ascolto del silenzio da parte dell'uomo equivale all'abbandono
di qualsiasi pensiero, idea, concezione - di fronte al silenzio di Dio l'uomo
non può stare che silente. Il silenzio di Dio implica il silenzio di io, lo
annichilisce e rende così incommensurabile anche l'uomo in ascolto.
La teologia cristiana ha imboccato la via opposta. Ha ridotto Dio a idea, ha
preteso di pensare l'impensabile, e di dire l'indicibile: Dio è divenuto il
pensiero di Dio, lasciando così intatto, anzi potenziando a dismisura, l'io
pensante. Qui sta l'origine dell'individualismo e del relativismo oggi tanto
deprecato dalla teologia e dalla gerarchia istituzionale della Chiesa
cattolica.
III. Curare la radice.
Per curare un male radicale, come è la crisi dell'uomo contemporaneo, è
necessaria la cura della radice. La radice è la parte profonda dell'albero,
della sua manifestazione evidente. Oggi in molti rivendicano le radici
cristiane della cultura e della civiltà europea. Nel Vangelo, Gesù afferma
che l'albero si riconosce dai frutti. Se i frutti dell'albero Europa, che
oggi tutti mangiamo nel mondo, sono malati o avvelenati, sarà forse il caso
di guardare con maggior attenzione questa radice originaria.
Se sul piano storico la malattia della cultura europea inizia a manifestarsi
nell'epoca (intorno al XII secolo) in cui l'esperienza mistica viene
mortificata e spesso perseguitata dalla Chiesa, il germe di quella malattia
va cercato nella radice stessa. Ed è proprio la metafora dell'albero a darci
indizi rivelatori. Nei Vangeli si trova ripetuto in varie occasioni e con
differenti esempi che l'albero buono è quello che produce molti frutti. E'
vero che spesso troviamo nelle parole di Gesù affermazioni che invitano a
non cercare guadagno, a non darsi affanno per produrre e per accumulare. Ma
molto più forti risuonano gli ammonimenti a far fruttare, che si tratti di
talenti o di vigna, e a tagliare, estirpare, bruciare tutto ciò che non
porta frutto, fino alla maledizione e all'essiccamento dell'albero di fico
che non produce fichi in inverno, fuori stagione! Chi porta frutto avrà in
premio il regno dei cieli, chi non porta frutto è destinato al fuoco eterno.
La cultura europea è rimasta talmente influenzata da questa atmosfera
produttiva, da strutturarsi su una didattica etica che ha fatto del
progresso, dell'accrescimento, della quantità i valori trainanti della
propria storia recente.
Dall'inizio dell'età moderna, la spinta che sosteneva la visione
escatologica della cristianità si è applicata sempre di più alla
realizzazione dei valori supremi (giustizia, eguaglianza, libertà) nella
storia e nel mondo, spostando l'attenzione e l'impegno dall'interiorità all'esteriorità
dell'uomo. La mentalità contemporanea ha del tutto scordato quello che era
un cardine della visione mistica e spirituale, religiosa e filosofica: di
nuovo con la parole di sant'Agostino, mistico, filosofo, teologo: "Non
uscire fuori di te, ritorna in te stesso: nell'interiorità dell'uomo abita
la verità, e se troverai la tua natura mutabile, trascendi anche te stesso"
(De vera religione XXXIX). Il progressivo spostamento del baricentro dell'uomo
fuori di sé, culmina nell'epoca moderna nella ricerca del valore e del senso
della propria vita quasi esclusivamente nella relazione che l'uomo ha con
ciò che lo circonda.
In questa situazione il buddhismo può essere un fattore determinante di
autentica conversione.
La conversione nel buddhismo non è conversione al buddhismo, nel senso di
aderire a una dottrina che si chiama buddhismo. La conversione è ciò che
Dogen nel Fukanzazengi indica con la seguenti parole: ??????????????? -
subekaraku eko hensho no taiho wo gakusubeshi - è essenziale imparare a fare
un passo indietro, volgendo la luce a rischiarare dentro di sé. Il buddhismo
può svolgere il compito di indicare all'uomo contemporaneo, occidentale e
orientale, quale è la sola cosa che conta perché, secondo le parole del
Vangelo: "Là dov'è il tuo tesoro, sarà anche il tuo cuore" (Mt. 6,19-21).
Proprio questo sembra essere il problema dell'uomo contemporaneo: non sapere
più dove è il suo tesoro, e mettere dunque il cuore là "dove tignola e
ruggine consumano e dove ladri scassinano e rubano". Il buddhismo può
insegnare all'uomo occidentale, orientato fuori di sé in una prospettiva di
progresso che non conduce da nessuna parte, a fermarsi, a tornare in sé, a
illuminare se stesso per cercare, in sé e a partire da sé, il proprio
tesoro.
IV. In che modo?
Il buddhismo ha un grande vantaggio rispetto alla problematica di cui stiamo
parlando: non ha mai elaborato un'idea di Dio, non ha mai "pensato Dio".
Quello che i cristiani chiamano Dio è per il buddhismo impensabile. Il
buddhismo non ha bisogno di liberare l'uomo da Dio, come invocavano i
mistici cristiani, perché non ha mai dato sostanza e sostegno all'idea di
Dio. Libero da Dio l'uomo è anche libero da quel se stesso fatto a immagine
e somiglianza di Dio.
Poiché nel buddhismo non c'è un oggetto di fede né di pensiero da chiamare
"Dio" né di conseguenza un nome per quell'oggetto, sovrapponendo
approssimativamente i linguaggi possiamo dire che quello che i cristiani
chiamano Dio nel buddhismo è perfettamente vuoto, né esistente né non
esistente, e non può in nessun caso fornire il pretesto per elaborare un'idea
di Dio, né un'idea di io che gli sta di fronte. Se vogliamo continuare ad
usare la parola "Dio", per restare nella terminologia occidentale, possiamo
dire che nel buddhismo Dio e lo spirito dell'uomo sono già non-due, perché è
nello sperimentare quel limpido vuoto che l'uomo incontra se stesso.
Incontra il proprio spirito vuoto di Dio e di sé.
A differenza delle religioni e delle filosofie occidentali, il buddhismo non
ha paura del vuoto. Il pensiero occidentale non si è mai seriamente
confrontato con il vuoto, perché, in un modo o nell'altro, ha sempre
concepito il vuoto come nulla. Il pensiero occidentale ha ontologizzato
persino il vuoto, lo ha rappresentato come nulla e se ne è ritratto
comprensibilmente inorridito.
Per il buddhismo, invece, il vuoto non è né un ente né un sostantivo ma un
attributo, l'attributo fondamentale di ogni cosa. E' la caratteristica che
rende possibile che ogni cosa sia ciò che è, un miracoloso vuoto apparire.
Buddhismo è dimorare nella natura vuota della realtà, dove tignola e ruggine
non consumano, dove non c'è nulla da rubare, da perdere, da guadagnare.
Il buddhismo non è una spiegazione della realtà, una cosmologia o una
filosofia ermeneutica. Non è un'utopia né una dottrina sociale su cui
cercare di modellare la realtà. Non è una dottrina né un'ortodossia. Non è
una terapia per curare il malessere psicologico individuale. Il buddhismo è
la via che indica come mettere in pratica l'esperienza indifferenziata dell'uomo
e di ..., del relativo e dell'assoluto, del condizionato e dell'incondizionato,
del finito e dell'infinito. Una esperienza di unità profonda che può essere
vissuta solo nella fede, nell'abbandono e nella rinuncia a mettere il
sigillo del pensiero umano come determinazione finale della realtà.
Mentre nell'esperienza cristiana la fede è per lo più un moto dello spirito,
uno slancio del cuore oltre se stesso, un'apertura incondizionata a Dio, nel
buddhismo la fede è esperienza vissuta con corpo e spirito, un atto di pura
e serena fiducia, senza la costruzione -che è sempre principio di
appropriazione- di un oggetto. Questa esperienza si sintetizza nel sedersi
in silenzio, quell'atto di corpo, mente e spirito che chiamiamo zazen. Zazen
è l'atto di fede, la fede in atto perché è il modo concreto, la posizione
del corpo e spirito dell'uomo che mette in pratica, nel semplice star
seduto, questa relazione non duale. Se usiamo la terminologia cristiana,
possiamo dire che in zazen Dio e uomo sono non due, perché in zazen si è
liberi sia da Dio che da io. Oppure, nelle parole di Dogen
????????????????????????jiko no shinjin oyobi tako no shinjin wo shite
datsuraku seshimuru nari - abbandonare corpo e spirito di se stessi e corpo
e spirito dell'altro. Dove la relazione non è sostenuta dall'idea né di io
né di tu, la relazione è identità e nulla è di ostacolo alla libertà.
Questo -almeno in un ambito di persone che praticano zazen da molto tempo-
non è difficile, quantomeno a capirsi. Ben più difficile è invece la
realizzazione e la trasmissione della qualità che trasforma lo zazen in atto
religioso in una vita religiosa, lo tiene al riparo dal diventare -come già
avvenuto in passato- una via di potenza, di acquisizione di potere e perciò,
in definitiva, una forma di vita che si sostiene sulla morte. Quella qualità
che fa sì che si possa essere grandi solo rimanendo piccoli, maestri solo se
si vive da discepoli, senza velleità né di accumulare né di apparire né di
contare.
Per poter avere un ruolo vitale all'interno del processo storico in atto,
ben oltre quel livello di ritualità da parata in cui si viene invitati o si
partecipa, "per far sì che ci siano anche i buddhisti" al tavolo più o meno
rotondo del banchetto "interreligioso", magari per aver diritto a una fetta
di torta, sarà necessaria, prima di tutto, una profonda riforma al nostro
interno, un abbandono progressivo della deriva formalistica, gerarchica,
chiesastica che ci assorbe tante energie, per rivitalizzare la spiritualità
della semplicità e della gratuità, la coltivazione del cuore innocente
invece che il consolidamento della volontà di potenza. Senza la capacità di
convertire prima di tutto il nostro cuore non avrà alcun senso la nostra
presunta capacità di praticare lo zazen, per cui anch'esso finirà per
diventare -come molti segni stanno a indicare e dimostrare- un'altra delle
prede che il mondo dell'accumulazione e del "mio" saranno ben lieti di
incassare, per farne poi un loro raffinato strumento.
La tradizione non è forza d'inerzia, ripetizione meccanica di modi di fare,
la trasmissione non è appropriazione di modelli ed esibizione personale di
certificati e conseguimenti, la cura della generazione presente e a venire
non è consolidamento di posizioni raggiunte e protezione del proprio gregge.
La riforma continua che fa girare la ruota del dharma è tornare a quel vuoto
vitale ogni volta che essa rischia di impantanarsi nel calcolo dei profitti.

V. Conclusione.
Ma, si dirà, di fronte a una crisi epocale e globale, che mette in
discussione il futuro dell'umanità, quello che il buddhismo ha da proporre è
tutto qui? In un mondo perennemente in guerra con se stesso, invece di
proporre una soluzione alternativa, un progetto di un mondo diverso, il
buddhismo dice semplicemente di fermarsi, di rientrare in se stessi, di
illuminare la propria vita con la pratica dello zazen e di testimoniare nel
proprio ambiente e nel proprio ambito la qualità spirituale ed esistenziale
dell'innocenza?
Proprio così. Il buddhismo può fare per il mondo né più né meno di quello
che può fare per me, per ciascuno di noi: e io posso fare per gli altri, per
il mondo né più né meno di quello che posso fare per me stesso. "Ama il
prossimo tuo come te stesso".
Tornare indietro non si può. Così come un vecchio non può ritornare giovane
e un morto non può tornare vivo, né un singolo individuo né il mondo possono
tornare sui propri passi. Non si può ritornare a prima che si innescasse
quel processo storico che ci ha portato qui dove ci troviamo e rifare il
percorso in modo diverso, per evitare gli errori commessi. Tornare indietro
non si può, ma tornare a zero sì. Tornare al punto zero e di lì ripartire
ogni volta: questo è la conversione di ciascuno che può convertire il mondo
intero. Il buddhismo, in Occidente come in Oriente, può svolgere questa
funzione, perché non è la ricetta di un mondo migliore, una dottrina che
applicata trasformi questo mondo in un mondo diverso: buddhismo è non farsi
illusioni a proposito delle illusioni e dello svegliarsi dalle illusioni. È
l'adesione ideale e operativa al sentiero di mezzo che non investe né nel
conseguimento del successo che placa per un istante la voragine dei desideri
né nella rinuncia auto punitiva e disperata nell'attesa della morte. Questi
due estremi si manifestano nella storia in forme sempre differenti. Oggi un
estremo sembra essere rappresentato dal mito della crescita e del progresso,
individuale e collettivo; l'altro dall'annullamento di sé e dalla negazione
di questo mondo attraverso le mille modalità dell'ottundimento, siano esse
il fanatismo ideologico e religioso o la droga o il lavoro. Il continuo
ritorno alla via di mezzo che il buddhismo indica è un'opera infinita,
perché in palio c'è la vita eterna e dunque non è confinata in un tempo.
In un mondo che esalta il godimento dell'ora e del qui nell'appagamento di
ogni desiderio, lo stile di vita dei buddhisti nel mondo è la sola riprova
valida della loro fedeltà alla via che testimoniano. Il buddhismo, in
Occidente come in Oriente, può fornire tutti gli strumenti che la tradizione
ha elaborato per questa opera infinita di ri-orientamento, ma deve evitare l'errore
che la civilizzazione occidentale ha commesso, di trasformare il mezzo nel
fine. Il cristianesimo occidentale ha gradualmente trasformato le chiese,
che inizialmente erano le comunità delle persone che si sostenevano a
vicenda nel percorrere la via indicata da Gesù, nella Chiesa, un'istituzione
che si vuole depositaria del pensiero e della volontà di Dio, e che è
pertanto fine a se stessa, la meta. Il buddhismo, nel momento in cui prende
anche in Europa e in America forme istituzionali, deve fare estrema
attenzione a evitare questo tipo di errore.
Lo scopo del buddhismo è il risveglio che apre alla liberazione da ogni
male, alla pace, non è la costruzione di una o più istituzioni religiose
numerose, potenti, efficienti. Un'istituzione buddhista, sia essa un piccolo
centro, un monastero o una struttura centrale non tradisce la propria
vocazione solo se è al servizio della fede e della pratica dei singoli sulla
via del risveglio. Non è preposta a certificare l'autenticità e la bontà del
cammino di nessuno, non è preposta ad attribuire cariche, titoli, diplomi,
né a fornire un'identità di riserva, un ruolo o uno status, una nuova
maschera, insomma, dalle fattezze "buddhiste".
Il risveglio dalle illusioni che chiamiamo esperienza di Buddha, è vedere,
con i propri occhi, che ogni forma è illusione e illusione suprema è pensare
che ci sia "qualche cosa" che illusione non è.

Lo stesso andare e venire del mondo,
dipendente e condizionato da altro, è,
non dipendente e condizionato da altro,
il nirva?a. Tale l'insegnamento .

Ottobre 2009