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Apollonio di Tiana

di Domizia Lanzetta - 15/12/2009

Fonte: simmetria

 

 

Apollonio di Tiana, dovrebbe essere vissuto intorno al I sec d.C. Dovrebbe perchè anche se pare indubbia la sua reale esistenza, si tratta di una figura  circonfusa da un alone di leggenda. Conosciuto anche con il nome di Apollo di Cappadocia, nasce a Tiana da una famiglia nobile e ricca che si diceva discendere dai fondatori della città. L’inizio come la fine della sua vita, sono avvolti nella leggenda e nel mito.
Si racconta che alla madre incinta, apparve il Dio Proteo. Anziché spaventarsi la donna chiese al nume di chi si sarebbe sgravata: “di me” le rispose  l’essere divino.

Filostrato mette in risalto il coraggio della madre di Apollonio che, anziché intimorirsi, si rivolge alla inquietante divinità ponendole una domanda. Quando poi il bambino era sul punto di nascere, per il tramite di un sogno, gli dèi le ordinarono, di recarsi a cogliere fiori in un prato. Ma appena lo ebbe  raggiunto, venne colta da un incontrollabile sonno così che, stesasi sull’erba si addormentò. Dei cigni che si trovavano nei paraggi la circondarono e, battendo le ali, fecero risuonare il loro canto che, provocò il risveglio della donna che immediatamente partorì. Quindi, dall’orizzonte,  cominciò a spirare  un vento primaverile e dalla terra salì al cielo una folgore.
Altrettanto leggendaria sembra essere stata la sua morte; c’è anzi chi dice che non sia morto affatto ma, che sia solamente scomparso, dopo essersi inoltrato nel tempio di Atena.
Tutto ciò fa di Apollonio un personaggio straordinario, al limite tra l’umano e il divino. Il contatto con gli dèi, avviene per via materna prima ancora della  nascita; e che dire poi della strana risposta data dal nume a sua madre.

 “Prima parla con gli dèi e poi parla degli dèi”, era uno dei  suoi detti preferiti, tramandatoci dai biografi. Quanto ai prodigi legati alla sua nascita,si tratta senz’altro di una sequenza di simboli che andrebbero osservati con la massima attenzione, a cominciare dalla apparizione dell’antica divinità marina. E’ probabile che si tratti della personificazione della “Verità”, del quale il dio primordiale, secondo la tradizione, era portatore. Esso infatti, appartiene  alla schiera dei “ Vecchi del mare”, come venivano denominati  alcuni numi, congiunti alle acque primordiali. Questi hanno la facoltà di mutare se stessi in qualsiasi forma e creatura del mondo naturale. Ma soprattutto sono contraddistinti da un sapere sconfinato. In altre parole, la risposta data alla madre potrebbe essere la metafora di ciò che il nascituro sarebbe diventato, un “simbolo” della sapienza divina.
Infatti il momento della nascita, avviene in un prato popolato da cigni, animali connessi ad Apollo dio della “Verità” per eccellenza, e sembra  ricalcare quello di Apollo nell’isola di Delo. Come se, il nascituro, che sarebbe stato una delle colonna portanti del  neo-Pitagorismo, non potesse che  essere una proiezione del Dio di Delfo.  

Anche il figlio di  Leto fu partorito su di un prato, anche allora i cigni cantarono e per sette volte  volarono attorno al  dio bambino  appena  nato. (in Kerényi –Gli dèi e gli Eroi della Grecia). Al posto della folgore che viaggia verso il cielo, ci fu invece il rimbombare per l’etere di un suono simile a quello del bronzo. Probabilmente perché Apollonio nacque tra gli uomini e, come ci spiega Filostrato, l’avvenimento doveva significare che sarebbe stato un uomo strettamente unito al mondo degli dèi, mentre Apollo è già parte  del mondo divino. Ma se prodigiosa era stata la nascita altrettanto sorprendente fu la sua morte; anzi in essa doveva ricapitolarsi il mistero che per sempre  lo avrebbe contraddistinto.
Egli infatti, come tutti i personaggi eroici, deve morire e non morire, vale dire che al posto della morte dove esserci un trapasso che però lascia intravedere un suo ritorno tra gli uomini. La sua scomparsa, infatti, si verifica  in un tempio consacrato ad Atena, personificazione e immagine della mente di Zeus.

Si racconta anche  che possedesse delle facoltà sovrumane, per cui è ricordato come mago e taumaturgo.
Si dice anche che abbia avuto molti seguaci, sia contemporanei che successivi. Tuttavia fu anche molto perseguitato, soprattutto da Domiziano. Ciò nonostante, secondo la leggenda, molti nutrirono per lui una vera e  propria venerazione.

Al tempo della dinastia dei Severi, venne ritrovato un diario attribuito al  discepolo  Damis di Ninive. C’è chi ritiene che in realtà il manoscritto sia opera degli aderenti alla sua cerchia sapienziale. Avutolo tra le mani Giulia Domna, essa diede l’incarico a Flavio Filostrato di ricavarne la biografia. In questa, Apollonio viene descritto come un  maestro itinerante delle scienze divine, che dispensa la sua sapienza a popolazioni e regnanti, nel corso di un  incedibile viaggio in territori conosciuti e sconosciuti.
Ma oltre che dispensatore di sapienza egli è anche un ricercatore di conoscenza.
Il suo viaggio verso l’india prende l’avvio dalla città di Antiochia e procede per la Mesopotania e la regione dei Magi. L’India è la sua meta, perchè l’India, nel racconto, si delinea come il luogo in cui esiste  il cuore della conoscenza di quel che è inimmaginabile e, del quale lui è alla ricerca..

Il vero viaggio nel mistero, ha inizio dopo l’attraversamento del Caucaso. Da qui in poi, il racconto, se guardato in maniera superficiale, diviene fiabesco, con degli episodi che fanno pensare ai viaggi meravigliosi di Simbad. Raggiunta poi la collina dei Sapienti che, non per nulla, sono sette, il racconto, se lo si continua ad osservare solo nella sua apparenza, si fa  addirittura “fantascientifico”. A motivo di ciò, non si può escludere che le peregrinazioni  dello straordinario personaggio per l’Asia, vadano osservate non tanto in un’ ottica fisica quanto in quella metafisica  e  spirituale. Perchè come succede per molte località geografiche, nominate nei racconti mitologici, è possibile che l’India che Apollonio vuol raggiungere, non sia da ricercare solamente sul piano geografico, perchè sia lui che Damis, vi pervengono dopo aver oltrepassato una impervia montagna, oltre  la quale si troverebbe  la dionisiaca Nisa:non siamo lontani dal dio,hai sentito dalla guida che è vicino il monte Nisa sul quale si dice che Dioniso compia molti portenti” dice Apollonio al suo seguace, quasi che Dioniso e il suo culto,siano una   prolusione al suo traguardo   .

Perchè mai Apollonio tenesse tanto a raggiungere l’India, possiamo spiegarcelo con quel che racconta Filostrato sulla presenza a Delfo di un disco d’argento proveniente da lì, sul quale era scritto “Dioniso figlio di Zeus e Semele dall’India per Apollo delfico”.  Questo fa supporre che esistessero dei rapporti, quasi dei legami religiosi e spirituali, tra il mondo Greco Ellenistico e quello Indiano, soprattutto in ambito orfico-pitagorico. Perchè Delfo è sacra sia ad Apollo che a Dioniso e Delfo può essere considerata la culla del Pitagorismo. E questo disco d’argento, proveniente da così lontano, confermerebbe il legame tra le due divinità e quindi anche tra le due culture religiose, anche se fisicamente così distanti e apparentemente così dissimili..

Raggiunta Nisa, infatti, i viaggiatori non si sorprendono di trovare un tempio dedicato a Dioniso, circondato da un cerchio di alberi di alloro, pianta  notoriamente sacra ad Apollo. Ma su questi  si arrampicano tralci di vite. Inoltre gli abitanti del luogo, hanno consacrato al dio, falci, corbe, torchi e altri attrezzi per ricavare dall’uva il vino. Segno che si trattava   di popolazioni che avevano in comune con i Greci la coltura e la sacralizzazione della vite. Per sottolineare l’importanza di questa circostanza, Flavio Filostrato racconta che, prima di giungere a Nisa, Apollonio e Damis, avevano rifiutato di compiere una libagione con del vino estratto dalle palme. Indizio questo che fa, degli  abitanti di Nisa, una popolazione con abitudini e credenze particolari, differenti da quelle  di coloro che risiedevano nei territori circostanti. A quanto ci racconta Arriano, anche Alessandro Magno raggiunse quel luogo e credette di essere pervenuto alla mitica Nisa, e ne fu a tal punto convinto  che elargì la libertà alla gente del posto e, ornatosi di edera e pampini, celebrò il dio, lanciandosi assieme a quelli del suo esercito in frenetiche danze dionisiache.

Ancora ai nostri giorni ai piedi dell’Hindu-Cush, esistono delle popolazioni che si dichiarono discendenti dei Macedoni di Alessandro. Si tratta di una  enigmatica etnia, di carnagione  chiara e con gli occhi che danno tra il grigio  e il verde. Dalle popolazioni Musulmane che li circondano vengono chiamati Kafiri, che significa “pagani”, ma il loro nome è Kalash. Come quelli descritti da Filostrato, coltivano la vite che considerano bevanda sacra, solennizzano con importanti cerimonie il solstizio invernale, nel corso del quali sacrificano ad una misteriosa divinità una moltitudine di capre. Tuttavia la loro religione è politeista, sciamanica e rivolta alla forza e potenza della natura e a divinità femminili: una sorta di spiriti elementali, affini alle nostre Ninfe e Fate. Le loro cerimonie sono caratterizzate dal suono dei tamburi e dei flauti, e da impetuose danze circolari, nonché da  abbondanti libagioni del loro vino leggero ma acidulo.

C’è chi ha voluto ravvisare nei loro riti e nelle loro credenze dei riscontri con il culto di Dioniso.  Filostrato racconta che la statua del dio che si trovava nel tempio, raffigurava Dioniso nell’aspetto di un giovinetto Indiano. Ma si trattava veramente di Dioniso o era piuttosto una divinità affine? Alain Daniéliou ne era convinto.

Professore all’università di Benares, nominato membro dell’istituto francese di Indologia a Pondischery, convertito all’Induismo, amico e collaboratore del grande poeta Bengalese Tagore, è autore di un saggio, nel quale si sforza di dimostrare che Dioniso non è che la versione occidentale di Shiva. Lui è convinto che, dall’oriente, il suo  culto  sia giunto in Grecia passando per la civiltà Minoica, prendendo il  nome di Zagreo. A quel che lui scrive, questa divinità, una volta approdata in Grecia, sarebbe divenuta Dioniso. Quanto alla somiglianza con il culto di Shiva, questa era spiegata con il mito della sua spedizione in India. A sostegno di ciò, cita uno scritto di Megastene, vissuto in India nel IV sec a .C,  che riconobbe in Shiva  Dioniso e fu particolarmente colpito da certe popolazioni della montagna,indicate come i “coltivatori della vite”.( Alain Daniéliou –Shiva e Dioniso – Pg 39).

Secondo lo stesso autore, lo Shivaismo sarebbe la religione che prima dell’avvento delle popolazioni Indo-ariane avrebbe interessato tutta l’India. In il quel periodo storico, la divinità principale sarebbe stata Shiva, che in seguito fu in parte modificata dal Bramanesimo Vedantico. Infatti in certi sigilli risalenti al 3800 a. C, esso è raffigurato cornuto e itifallico.  Secondo lo studioso Francese, il suo culto si sarebbe poi gradualmente esteso all’occidente, trasformandosi in quello dionisiaco. Nella forma più antica, quella contemplata dalle popolazioni Dravidiche, esso appare come l’ideatore del mondo. In seguito inglobato nella religione Vedica Ariana, compare come uno dei componenti della Trimurti. Si tratta comunque di una divinità complessa, nella quale splendore ed orrore si fondono, in una sinfonia prismatica e sconcertante. Esso è il Dio della morte, ma simultaneamente è anche il Dio che preserva e guarisce; infatti in alcune sue immagini  ha il collo azzurro, perchè bevve il veleno per proteggere il mondo.  Quando è dio della morte, è chiamato Kala, cioè Tempo, oppure Aghara, Signore delle lacrime e, con questo aspetto e questi nomi, la sua immagine ha tre occhi e viene esposta nei pressi dei roghi funebri e dei cimiteri. 

In  realtà  tutto questo lo avvicina al nostro Hades, a cui il numero tre è attinente. Ma talvolta Shiva è effigiato con cinque volti, che indicherebbero i suoi cinque principali aspetti. Tuttavia  è rappresentato anche dal fallo, il Lingam, e in quanto tale simboleggia l’origine di tutte le cose: lui stesso è il Lingam, vale a dire il principio dell’esistere.

I Greci e coloro che appartenevano all’area Ellenistica, effettivamente credettero di riconoscere in lui Dioniso. Questo perchè nella sua natura ci sono valenze e appellativi che sembrano proprio ricondurre a Dioniso ed  Eraclito di Efeso riconosce in lui Hades.  Riguardo alle analogie, Alain Daniéliou ce ne fornisce un abbondante elenco: Shiva è Unmatta, il folle, Dioniso è Mainomenos, il Folle, Shiva è Protamjà, il Primogenito, Dioniso è Protogonos, il primo nato, Skanda figlio di Shiva è Agnibhu (nato dal fuco), Dioniso è Pyrigenes (nato dal fuoco), Shiva come Dioniso è il dio della danza e del teatro e come lui è benigno e nello stesso tempo terribile e suo veicolo è il toro che, come per l’altro  è  anche una delle sue  principali epifanie.

Inoltre vaga con nella mano un tizzone ardente, e  Dioniso avanza stringendo una torcia fiammeggiante. A lui sono sacri i serpenti, dei quali appare cinto, così come  è raffigurato Dioniso, soprattutto come Sabazio, nel qual caso a lui sono particolarmente cari proprio i serpenti. L’elenco continua con vari esempi che paiono più che calzanti.

Filostrato ci fa comunque sapere che, si credeva  fosse stato il Dioniso Tebano a compiere la spedizione in India e a portarvi i riti bacchici. Anche se gli Indiani del Caucaso e del fiume Cofene, erano convinti che a insegnare quei riti fosse stato uno straniero proveniente dall’Assiria. In effetti, come si arguisce dalle Baccanti di Euripide, talvolta c’è  una identificazione tra il dio è colui che  lo rappresenta.
Ciò che sorprende Filostrato e, a quel che lui racconta meravigliò anche Apollonio, fu  che il re del posto era in grado di esprimersi perfettamente in lingua Greca. Non è possibile stabilire se ciò sia  verità o fantasia. Quello che più colpisce in tutta la narrazione, è il tentativo di affermare lo stretto rapporto culturale e spirituale tra l’India e le popolazioni Greche.
Ciò che invece  stupisce noi, è la descrizione  della mensa del re,  rotonda e fatta a forma di altare, attorno alla quale siedono trenta nobili personaggi.

Apollonio vive attorno alla metà del I sec d.C, quanto a Filostrato è dell’epoca dei Severi, quindi della prima metà del III, molto e molto prima, quindi, che venissero in auge  re Artù e la sua  Tavola Rotonda. Froate e la sua dimora, nel contesto, sembrano essere la premessa ad una iniziazione a qualcosa di enigmatico, che farà seguito alla permanenza di tre giorni di Apollonio presso il re. Solo e solamente per  tre giorni uno straniero può soggiornare presso questo strano monarca che, pare vivere ai confini del mondo e al quale la regalità viene conferita da un misterioso gruppo di Sapienti che sembra provenire da  una alterità indecifrabile.
Essi sono coloro che possono conoscere la mente delle persone, come fossero immagini proiettate in uno specchio. Essi sono coloro che si servono di folgori, con le quali sono in grado di colpire gli ospiti indesiderati. Infatti colui che è stato incaricato da Froate di condurre Apollonio verso il luogo dove questi risiedono, ne è letteralmente terrorizzato.

A questo punto è necessario valutare il racconto di Filostrato su basi simboliche, a meno che non si accetti di cadere nelle fantasticherie più strabilianti.
C’è chi ha voluto veder nel colle inaccessibile dove dimorano i Sapienti, una prefigurazione del  Munsalvaesche descritto da Wolfram von Eschembach. (vedi gli articoli di Nuccio D’Anna su questo stesso sito). In effetti, anche la nascita di Apollonio ha qualcosa di simile a quella di Parzifal: in entrambe c’è una  folgore che scaturisce improvvisamente dalla terra nel momento in cui il bambino vede la luce:

 “Dalla terra salì al cielo una folgore”  “a Herzeloyde parve di essere sollevata verso l’alto da una folgore di stella” (Parzifal) .

Anche il fatto che dal colle fossero scagliati  fulmini, non deve essere preso alla lettera. Quando Enea viene condotto da Evandro a conoscere la sua città,gli mostra il Saturnius Mons, vale a dire l’altura dove sarebbe sorto il tempio di Giove Capitolino, e anche in questo caso sul colle guizzano folgori “ queste mie genti....han ferma fede di aver veduto qui Giove balenar sovente e far di nembi accolta”.

Probabilmente dal Campidoglio, colle che esiste realmente, è scientificamente “improbabile” che qualcuno possa aver visto scaturire fulmini; tuttavia Virgilio conferisce al colle una simile facoltà, come metafora della sua somma sacralità. Così che è possibile che le folgori che scagliano dal colle i misteriosi Sapienti, servano, tra l’altro, da immagine per sottolineare l’inaccessibilità del luogo o dello stato di coscienza che il colle simboleggia.

Altrettanto simboliche sono le impronte biforcute e i volti di satiri, che Apollonio vide impresse sulla roccia della collina a testimonianza del tentativo di Dioniso di impadronirsene. Ma questo attacco  evidentemente si infranse o si infrange, nel momento in cui ci si confronta con una realtà e dimensione diversa, probabilmente allusiva di una trasmutazione.
Perchè raggiunto quel punto, il Ditirambo dionisiaco si converte nel Peana apollineo.
Come se coloro che tentano o tentarono  quella sorta di “assalto al cielo”, più che distrutti fossero o vengano trasformati. Vale a dire che rappresenta il varco dal quale si passa dal divenire a quel che è eterno, dall’immanenza del divino alla sua trascendenza, da Dioniso, dio dell’attività distributrice, ad Apollo signore ed unificatore di tutto quanto esiste. “Ma i saggi per nascondere alla folla il loro pensiero, parlano per enigmi, e danno al fenomeno della trasformazione in fuoco,il nome di Apollo per la sua unicità,........ ,ma quando il mutamento del dio trapassa in  aria,in acqua e terra e.....,.,parlano di spasma e smembramento e fanno il nome di Dioniso “ ( Plutarco- De E Delph – F -389).

In altre parole, si procede da Orfeo a Pitagora. E Pitagoriche sono le equivalenze che accolgono Apollonio, nel momento in cui si approssima al colle. Egli si trova ora in un arcano villaggio, dove tutti parlano Greco. Gli si fa incontro un giovane che  tra le sopracciglia ha raffigurata un’immagine splendente simile a  una luna, e reca   con se un’ancora “simbolo di quel che tiene insieme ogni cosa” spiega Filostrato (Vita di Apollonio –Adelphi – pg 149 ). Il ragazzo è scuro di pelle, quasi nero, forse per indicare che si tratta dell’araldo di una scuola sapienziale che si riallaccia alla più antica tradizione dell’India, probabilmente di matrice Dravidica, ma è più probabile che voglia sottintendere al mistero che avvolge gli abitatori della collina. Costui comunica ad Apollonio che da quel momento dovrà procedere da solo perchè  “essi” così hanno disposto.  A motivo dell’uso di questo pronome, Apollonio capisce che il loro esprimersi è di stampo Pitagorico. Da qui in poi egli dovrà proseguire lontano dai suoi  seguaci che lo vedono sparire dietro la cortina di nuvole o nebbia che avvolge l’altura.

Ciò rammenta quel che accade ai non iniziati che si recano in processione al tempio delle due dèe Elusine, e che possono andare oltre i propilei dell’Anaktaron. 
Secondo la tradizione, un velo di nebbia è posto davanti agli occhi dei comuni mortali e impedisce loro di scorgere gli dèi e ciò che è sommamente sacro. Così che, una cortina di nuvole avvolge il colle che, a seconda della volontà di coloro che lo abitano, appare e scompare come fosse un miraggio. Questo e solo questo può vedere Damis, il resto appartiene al resoconto che lo stesso Apollonio gli farà al suo ritorno. E qui il racconto non può che essere  simbolico, altrimenti sarebbe fantascientifico. Si comincia infatti a parlare di oggetti straordinari, il primo dei quali è un pozzo da cui promana una luce intensamente azzurrina che nell’ora del mezzogiorno “spacca in due il giorno”, viene tratta verso l’alto e si trasforma in una sorta di arcobaleno ardente. Il secondo oggetto è un cratere di fuoco, entro il quale brucia una fiamma color del piombo, che non sprigiona fumo né odore. Il punto in cui si trovano, è considerato un luogo di purificazione, per  cui l’uno è detto “pozzo della prova” l’altro “fuoco  del perdono” . Ciò fa pensare che si tratterebbe di due “oggetti” complementari che vicendevolmente si integrano. L’uno è in relazione con l’elemento acqua, l’altro con il fuoco. Riguardo al primo, si tratta di un vero e proprio pozzo, nel quale l’acqua è intrisa di una resina particolare, incolore e inodore, prodotta da una conifera, l’altro invece è chiamato “cratere”, per cui  sembra essere un involucro intagliato nel fuoco stesso, forse una specie di brace. In esso  ribolle  una sostanza  misteriosa che mai non trasborda e dalla quale si eleva una fiamma oscura. I nomi con i quali vengono indicati sono una probabile allusione all’idea di un passaggio. L’uno è detto il Pozzo della Prova, nel quale predomina l’idea dell’acqua e che  rappresenta ciò che è perituro ma che tuttavia ha in se il principio della trasmutazione in quel che è immortale. Infatti la resina di conifera della quale  l’acqua è intrisa, si riferisce a un elemento che a contatto col fuoco, agisce come l’incenso, cioè si volatilizza, mutandosi in un sostanza che si congiunge alla dimensione degli immortali.

Quanto al cratere del Perdono, fatto esclusivamente di fuoco, è un chiaro riferimento alla divinità che, tradizionalmente, è simboleggiata dal fuoco. Nel cratere, infatti, si congiungono la luce e l’ombra del divino, nel senso di ciò che di esso è manifesto (l’esterno del cratere) e quel che è immanifesto (la fiamma purissima e oscura) che arde senza emettere fumo e sprigionare odore.

Ma due sono anche le giare, dalle quali i Sapienti estraggono il vento o la pioggia. Certamente si tratta di due oggetti portentosi, ma che nella loro apparente funzione di tipo agricolo (dare al territorio i venti e le piogge che occorrono) celano l’dea di una doppia natura, simultaneamente  materiale e immateriale, che si nasconde entro le due giare nere, colore  ascrivibile  a tutto quel  che è reale ma “invisibile” . Come è l’esistenza dei sette Saggi che,appartengono e  non appartengono al nostro mondo. Infatti secondo quel che Damis racconta e che lo stesso Apollonio ha lasciato scritto : “Essi abitano sulla terra e non vi abitano, e stanno al chiuso senza mura, e non possiedono nulla se non gli averi di tutti gli uomini”

A proposito della natura dei Sapienti, significativo potrebbe essere il simbolo posto tra le sopracciglia del giovane araldo che si fa incontro ad Apollonio appena questo fu arrivato. E’ detto che esso risplenda come una luna, quindi sarebbe  un richiamo all’astro notturno. “Natura mista e figura di demone è essenzialmente la Luna ,la cui rivoluzione concorda con questo genere demonico,in quanto essa si mostra ora calante ,ora crescente,ora cangiante :e si fa chiamare perciò con vari nomi .....ora astro della terra,ora terra olimpia,ora possesso di Hecate ,la dèa sotterranea e a un tempo celeste” (Plutarco –De Defectu Oraculorum -13 ,E ). Alla Luna, secondo Plutarco, si accorda la natura di certi esseri, natura che è quasi al confine con quella divina e che come demoni vanno considerati e venerati. Questi mettono in relazione il mondo degli uomini con quello degli dèi: “E’ nostra fede che il mondo sia percorso da demoni,alcuni dei quali volti a sorvegliare i sacrifici agli dèi e i riti misterici”, continua Plutarco e aggiunge che vi sono delle Anime purificate che appartengono alla condizione di demoni e sono del tutto partecipi della divinità.

In effetti questi Sapienti sembrano proprio avere la tipica natura bipolare che contraddistingue i demoni. Così come dualistici sono gli oggetti che li attorniano. Infatti Apollonio lasciò scritto che essi sono sulla terra e non vi sono. Tuttavia   il luogo in cui abitano è il centro dell’India e la vetta del colle su cui si trovano è l’ombelico del paese. Il che significa che in esso si compendiano e si riuniscono non solo tutte le caratteristiche che li contraddistinguono, ma è anche l’immagine di  ciò che da dualistico si converte nell’Uno”. Le particolarità che essi possiedono si esprimono nei poteri dei quali sono dotati. Potere  sulla terra che, dona loro ciò di cui hanno bisogno senza doverlo ricercare, potere che  simbolicamente concede loro  anche di allontanarsi da essa, nel momento in cui pregano, staccandosi dal suolo e restando immobili in uno stato di levitazione. Il fatto è che per loro si è già  verificata la trasmutazione dal dionisiaco all’apollineo, per loro già  si è realizzato il ritorno all’età felice, quando la Terra era solo Madre e non Matrigna e dal suo seno giungeva agli uomini tutto quel ad essi serviva. Come per le Baccanti, dice esplicitamente Filostrato, che ottengono dal suolo ciò che desiderano per cui “possiedono tutto pur non possedendo nulla”. In effetti essi sono tra gli uomini, pur non essendoci, “stanno al chiuso senza mura” perchè vivono entro una sorta di bolla invisibile, simile all’aria che li protegge da qualsiasi intemperie.

Si parla inoltre di un fuoco strano che essi traggono dal Sole, che pur essendo materiale non viene conservato nei focolari ma, permane sospeso nell’aria, simile a un raggio di luce quando si rifrange sull’acqua. I loro poteri scaturiscono dal possesso di due oggetti dalle proprietà straordinarie: un bastone e un anello. Il primo è da sempre simbolo e metafora del comando e allusivo dell’Axis Mundi l’altro che “appartiene alla “magia degli anelli che si collega allo zodiaco e al più grande degli anelli: l’eclittica solare, dove ruotano le stelle che orientano i destini degli uomini”  (C.Lanzi- Anello  Anello Simmetria) .

Dal dialogo di Apollonio con Iarca, il capo dei Sapienti, si deduce l’oggetto della ricerca di Apollonio. Uno è infatti il punto saliente alla base della loro dottrina: la conoscenza, quindi il riscatto dall’ Ignoranza, ritenuta la  grande colpa e il limite degli esseri umani. Questa si ottiene attraverso la Memoria, intesa come prerogativa metafisica mediante la quale raggiungere il proprio “compimento”, vale a dire la propria iniziazione: conosci te stesso e conoscerai chiunque ti stia davanti. Come Iarca svela ad Apollonio. “noi conosciamo tutto appunto perchè prima di ogni altra cosa conosciamo noi stessi, infatti nessuno di noi potrebbe accedere a questa sapienza senza prima conoscere se stesso”. Conoscenza e di conseguenza poteri, che si acquisiscono conoscendo se stessi. E questo può accadere solamente riandando con la “Memoria” non solamente a tutta la propria vita passata ma anche alle altre “vite passate”. A questo proposito possiamo dire di essere in pieno Pitagorismo, possiamo dire che dall’Orfismo dionisiaco si è raggiunto il Pitagorismo Apollineo, e dal Ditirambo si è passati al Peana.

Di un certo interesse è anche la descrizione del banchetto che Iarca  offre a un re di una città vicina. Costui arriva assieme alla sua corte preceduto da un gran fracasso, in palese contrasto con il “Silenzio” che contraddistingue il luogo abitato dai Saggi. Altro contrasto è l’abbigliamento del re, fastoso e grondante pietre preziose, con quello di Iarca e dei suoi che è invece  assolutamente sobrio. Sono delle differenze che sottolineano l’antitesi tra dimensione sacra e dimensione profana, ricchezza spirituale e ricchezza materiale. Il clamore, il chiasso, assieme al fasto del seguito di un re mondano, la semplicità e frugalità della dimensione dei Saggi, caratterizzata dal pitagorico “Silenzio”. Certamente simbolica è l’ apparizione dei 4 tripodi colmi di vino ed acqua, con i quali abbiamo un richiamo esplicito al tripode delfico, simbolo della “Verità”. Due di questi contengono rispettivamente acqua fredda e calda.

L’acqua è spesso immagine del mondo delle cose periture e di quelle materiali. Quella fredda potrebbe alludere alla morte, l’altra alla nascita, ma anche al suo contrario. Comunque si tratta sempre delle due polarità che delimitano la dimensione degli esseri umani e che non è da escludere, si riferiscano alle due porte: quella dei mortali e quella degli immortali. Quanto agli altri due tripodi, colmi di vino che dovrà essere stemperato con i due tipi di acqua, è possibile sottintendano alla divinità che è alla base di uno e dell’altro  evento. Per quel che riguarda i quattro coppieri di bronzo, quasi dei robot, è un chiaro rimando ad Efesto il dio che per Giamblico rende visibili le ragioni invisibili e che per Saturnino Sallustio, assieme a Zeus e Poseidon, è una delle tre divinità che elargiscono la vita al mondo.

Il culmine degli eventi lo si raggiunge nel momento del commiato. Iarca offre al re e a tutti gli altri presenti, una misteriosa coppa, chiamata la coppa di Tantalo,il cui contenuto non si esaurisce mai. In effetti la figura di Tantalo, nel racconto di Filostrato, acquisisce una importanza rilevante, quasi si trattasse del fulcro di un particolare percorso iniziatico. Per i 7 Sapienti, Tantalo personifica il benefattore dell’umanità, colui che con il proprio sacrificio tenta di affrancare gli uomini dalla terribile ipoteca della morte.  Secondo Iarca, in lui va considerato chi ruba agli dèi per donare agli uomini ciò che rende immortali. Questo è il motivo per cui è condannato a restare nel Tartaro, legato a un albero fruttifero e immerso in uno specchio d’acqua. Ciò nonostante dovrà soffrire in eterno la fame e la sete, perchè ogni qualvolta tenterà di bere, l’acqua si ritirerà e quando cercherà di afferrare uno dei frutti degli alberi, questi verranno strappati via dal vento o si allontaneranno. Perchè forse Tantalo è la personificazione della sapienza umana che anela al raggiungimento del cibo degli dèi, vale a dire quel cibo che dona l’immortalità. Anela a nutrirsene, ma tuttavia quando sta per raggiungerlo, questo  si disperde e si allontana.