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Tu quoque, Tartaglia mii!

di Matteo Simonetti - 20/12/2009

    


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Il duomo in faccia a Berlusconi ci ha donato interminabili serate televisive sul tema. Abbiamo assistito allo spettacolo indecente di politici, giornalisti e conduttori, tutti intenti a richiamare alla pacificazione nazionale e, dopo un attimo, ad aggiornare vicendevolmente la consueta teoria di accuse ed offese. Come al solito la televisione, chiusa in se stessa ed autoreferenziale, è inutile alla comprensione di ciò che accade ed ha come unico obiettivo intrattenere e insieme confondere l’ascoltatore.
Invece su questa vicenda ci sarebbe molto da dire, innanzitutto circa il ruolo della violenza nella vita politica in una democrazia. Sgomberiamo subito il campo da equivoci: chi scrive non è né un rivoluzionario né un guerrafondaio, né un estimatore per qualsivoglia motivo del gesto di Tartaglia. Però non è possibile accorgersi che la violenza è al centro del nostro mondo perbenista solo quando vediamo un po’ di sangue. La violenza è parte integrante della dialettica politica, come ha ben espresso H. L. Nieburg in “La violenza politica”, ed ha perfino una parte positiva nell’evolversi degli assetti sociali. Ma attenzione, la violenza è esercizio della forza nei confronti dell’altrui libertà, e non è meno grave della violenza fisica quando colpisce la libertà di espressione, il diritto all’informazione, o quando attraverso l’inganno priva l’altro della possibilità di autodeterminarsi. Violenza è quella della legge, quando costringe un indagato a restare col cappio al collo per decenni; violenza è quella dei partiti, che decidono le assunzioni nelle pubbliche amministrazioni condannando i meritevoli alla disoccupazione e alla tribolazione; violenza è quella di chi, per vendere un vaccino, si inventa una pandemia iniettando non si sa cosa, ma certamente di inutile, nelle vene di milioni di persone. La violenza è dunque ovunque e spesso è molto peggio di un duomo in faccia. Quando sono insufficienti le parole, la mediazione, il ricorso alla giustizia, l’esibizione della propria forza, a questi soprusi solitamente si reagisce con altra violenza.
Nonostante faccia parte di una società più o meno omogenea, ogni individuo ha una propria scala di valori e di priorità (ed è un bene che sia così), tale che quando questi vengono messi in pericolo o calpestati, egli si sente sciolto dal vincolo contrattuale che lo lega alla comunità attraverso la legge condivisa. Da ciò nasce una ribellione che può essere solitaria, ed è il caso del “Ribelle” jungeriano a cui credo che questo giornale si ispiri, oppure condivisa in un gruppo, ed è il caso delle brigate variamente colorate che ogni nazione ha conosciuto. Inutile scandalizzarsi e identificare questi attori sociali con il male assoluto. La società restante ha il diritto di difendersi da loro e incarcerarli tanto quanto essi ne hanno di provare a cambiare le cose. Se è abbastanza facile condannare nel caso degli estremisti politici, perché oggi li si sente lontano da noi, forse non lo è in altri casi, che però si basano sullo stesso principio. Mettiamo che un uomo abbia un figlio gravemente ammalato al quale vengano negate le cure per motivi economici, o perché mancano i posti letto, o perché l’ambulanza non è disponibile o per il motivo che volete voi. Chi può biasimarlo se comincia a menare cazzotti ad infermieri, medici, dirigenti, finché suo figlio non viene curato? La legge lo condanna ma la ragione no. E perché se un uomo (o un gruppo di uomini) che vede distrutto il proprio ambiente da cementificazione selvaggia, il futuro dei propri cari dalla finanza rampante, la sua sicurezza da una giustizia e delle forze di polizia inefficienti, non dovrebbe reagire con la violenza, se non riesce a scovare un’alternativa “democratica”?
Il nodo è questo: la nostra è davvero una democrazia? La politica ha la capacità e la possibilità di operare delle scelte autonome o è guidata dall’economia che ne fa l’agenda? Noi possiamo sceglierci davvero i rappresentanti? Non è questo il momento di discuterne, ma è importante osservare che dal tipo di risposta che si dà a queste domande, può avere segno positivo o negativo un atto di violenza.
Solitamente la patente di “buona violenza” la danno i posteri, o meglio, i vincitori. Perché Tartaglia (se solo non avesse chiesto scusa) sarebbe diverso da un partigiano, figura oggi osannata? Non certo per la viltà dell’azione. La figura dei violenti, così come la loro fortuna, è determinata dal soggetto sul quale alzano la mano. Per questo Armodio e Aristogitone, uccisori di Ipparco, sono stati venerati, e Bruto, pugnalatore a tradimento di Cesare, eletto ad eroe illuminista e rivoluzionario. Ora, tutto ciò è per dire che se Berlusconi fosse davvero un dittatore, come irresponsabilmente hanno detto in molti, e alla sua caduta si aprisse un’epoca fiorente di libertà, giustizia e benessere, Tartaglia sarebbe allora considerato un sant’uomo. Ma la storia si scrive e riscrive continuamente (tranne che per la Shoah , unico caso in cui rimane ferma per legge) e si viene così a scoprire che Armodio e Aristogitone agirono per una banale lite tra checche e Bruto, che era un facoltoso banchiere, per vendicarsi delle leggi antiusura di Cesare. Allora la storia potrebbe suggerirci che forse quelli che inneggiano al berlusconicidio, reale o metaforico, lo fanno solo per prendere il suo posto e per avere quel briciolo di notorietà che il cavaliere, ai loro occhi di professionisti della politica, ha loro usurpato “scendendo in campo”.
Il punto è allora questo: più che chiederci se sia moralmente giusto o no colpire Berlusconi, occorre chiederci se il risultato di tale attacco sia davvero un indebolimento del potere nella sua forma attuale. A mio avviso la risposta è no, e per due motivi. Il primo è che nel nostro sistema politico, così com’è da decenni, Berlusconi è semmai l’antisistema, il cane sciolto, il cavallo pazzo. Non che non sia affatto intrallazzato, come tutti gli altri, ma quella venatura di gollismo, quel suo essere rozzamente antipolitico sono, dal punto di vista politologico, aspetti più vicini al cambiamento che al ristagno. Forse che senza di lui al governo, quando era il turno del centrosinistra, abbiamo visto una rinascita della nostra martoriata nazione? Forse il privatizzatore Bersani sarebbe meno “cameriere dei banchieri”? Il secondo motivo è che, come ha detto autorevolmente Luciano Canfora in “La natura del potere”, il leader carismatico è espressione di un comune sentire ed eliminarlo non potrebbe invertire la tendenza storica che agisce nel destino delle masse, di cui è espressione. Pensiamoci: nonostante Bruto, la democrazia a Roma conobbe imperatori di gran lunga peggiori di Cesare.