Durante una serata in cui si parlava di Decrescita e autoproduzione un’interlocutrice mi pose un’obiezione fino a quel momento per me inedita: «Io ho due figli», mi disse, «e il mio stipendio mi dà se non altro la sicurezza di poter dar loro da mangiare in qualsiasi momento. Se non l’avessi, o anche solo se lavorassi in part time compensando il reddito mancante con l’autoproduzione, questa sicurezza non l’avrei più. Che accadrebbe se a un certo punto l’orto andasse male? Cosa darei loro non avendo i soldi per comprare ciò che l’orto non mi ha dato?»

Si possono dare almeno due risposte, una di tipo pratico e una di tipo… direi ancora più pratico.
La risposta pratica è che se una parte del sistema su cui si basa la propria autoproduzione va male qualche altra parte sarà andata bene e potrà compensare il vuoto lasciato dalla prima. Questo mi è realmente accaduto più volte. In maniera più sistematica si può rispondere ricordando il principio classico della permacoltura: ogni elemento del sistema deve svolgere almeno due funzioni, ogni funzione deve essere svolta da almeno due elementi.

Ma questa risposta è ancora la meno importante. La più importante, la più concreta, la più agganciata al mondo reale è la seconda, la risposta che contesta il presupposto stesso della domanda, ovvero che quanto viene dal sistema della società della crescita (il reddito economico in due parole) sia sinonimo di sicurezza, che nel loro sistema e solo in esso stia di casa ogni certezza relativa al nostro futuro. Ma ne siamo davvero ancora così convinti?

In condizioni normali verrebbe spontaneo rispondere: immagina se un bel giorno Tal Dei Tali diventasse Presidente del Consiglio dei Ministri. Immagina cosa accadrebbe in Italia di tutto ciò che fino a un istante prima era stato posto di lavoro sicuro, servizi dello stato al cittadino eccetera. Immagina con quanta rapidità verrebbe smantellato ciò che resta di quel che un tempo chiamavamo lo Stato Sociale, sostituito da un coacervo di “libertà” che sono in realtà null’altro che il liberalismo economico puro: l’abbandono della persona a se stessa, nel mare in tempesta del mercato totale, onnipresente e onnipotente.

Questo risponderei in condizioni normali. In queste condizioni invece, nella condizioni in cui versa l’Italia dei primi anni del nuovo secolo devo rispondere: «non dimenticare che Tal Dei Tali è davvero presidente del consiglio dei ministri. E’ davvero in mano sua quel sistema che partorisce il tuo stipendio che tu ancora vedi… diciamolo meglio, che il tuo immaginario legato al tuo senso di appartenenza vede come un solido pilastro su cui erigere la tua vita».

La mia busta paga di febbraio 2009 consisteva nella sontuosa somma di 110 euro. Motivo? Un non meglio identificato conguaglio fiscale («Meno tasse per tutti», ricordate?). E il mese prossimo? Che accadrà? Avrò ancora il mio stipendio? Non lo so. Non lo so più. Eppure sono un dipendente pubblico di ruolo, uno di quelli di cui si favoleggiava l’intoccabilità. Si favoleggiava, appunto.

Quello stipendio ridotto a 110 euro giunse proprio nella fase finale di un periodo durante il quale, in un’ondata di sadomasochismo, avevo sospeso buona parte della mia attività di autoproduzione. Risultato: dovetti chiedere aiuto e senza di esso mi sarei trovato in difficoltà sicuramente insormontabili. Seppi poi che a molti altri lavoratori in quel mese accadde qualcosa di analogo. Se avessi avuto come al solito il mio orto, se avessi potuto attingere alla mia abituale riserva che da esso ogni anno proviene, se non avessi voluto nei mesi precedenti lanciarmi nell’avventura malsana del ritorno all’universo del puro mercato (per un anno, intendiamoci, solo per un anno), se insomma non avessi rinunciato alla sicurezza che la capacità di autoprodurre i miei beni mi dà, quella busta paga saccheggiata sarebbe stata un piccolo evento irritante ma nulla più.

Ecco dunque che possiamo ribaltare il presupposto della domanda: non in un sistema furiosamente basato sulla competizione di tutti contro tutti ma nella propria capacità di non dipendere da esso sta la propria sicurezza.
E nel dir ciò siamo ancora fermi alla traballante dimensione individuale. Perché pensate cosa vorrebbe dire essere circondati da quella cosa oggi inesistente che è la società del bene comune, una società basata sulla solidarietà reciproca, da persona a persona, che è tutt’altra cosa da quello stato sociale di cui ho prima evocato il fantasma, in cui la solidarietà è in realtà assistenzialismo e a praticarla non è la persona che ti sta accanto ma un’entità che ti sovrasta, asettica e impersonale, che agisce secondo protocolli operativi rigidi e standardizzati che prescindono dalla tua specificità, da ogni tuo bisogno che non rientri in essi. E in cui comunque tutto rimane ancora interno a una logica economica.

«Ma Tal Dei Tali passerà. E’ solo un momento, poi verrà qualcun altro». Come se Tal Dei Tali fosse solo una scheggia impazzita in un sistema per il resto fondamentalmente sano e non piuttosto un suo tipico frutto, un frutto neanche tanto appariscente di un processo storico iniziato ben sei millenni fa quando orde di allevatori nomadi dilagarono lungo due continenti, affamati di terre per le loro mandrie (quelli che oggi chiamiamo Indoeuropei) e giunto a compimento e a perfezione oggi con la globalizzazione. Un processo così solido e radicato da aver superato i millenni divenendo l’evento più longevo della storia umana dopo la fine del Paleolitico. C’è chi ripone ancora le proprie sicurezze in questo mondo? Assodato che c’è, è probabilmente vero che narrare favole sia l’attività intellettuale più antica dell’uomo. Narrarle e crederci soprattutto.