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Onu: la mozione palestinese

di Eugenio Roscini Vitali - 03/01/2010

 

L’Egitto, il Regno Saudita ed altri paesi arabi, presumibilmente gli Emirati Arabi Uniti, il Bahrain, il Kuwait e il Qatar, starebbero elaborando una mozione da presentare alle Nazioni Unite nella quale verrebbe rivendicato il diritto palestinese alla creazione di uno Stato arabo entro i confini  antecedenti il terzo conflitto arabo-israeliano, vale a dire la frontiera fissata prima del 5 giugno 1967 che includeva la Cisgiordania, la Striscia di Gaza e Gerusalemme est capitale. La notizia, apparsa il 27 dicembre scorso sul quotidiano in lingua inglese The Jordan Times, parla di indiscrezioni israeliane secondo le quali la proposta, sviluppata segretamente in modo da evitare ogni possibile interferenza, dovrebbe essere portata sul tavolo del  Consiglio di Sicurezza dalla Libia o dal Libano.

Inoltre, in caso di veto statunitense, l’Autorità Nazionale Palestinese rassegnerebbe le sue dimissioni e nessun membro dell’attuale amministrazione o appartenente alla corrente moderata di Fatah concorrerebbe alle prossime elezioni presidenziali. Un fatto gravissimo, che metterebbe con le spalle al muro sia Washington che Gerusalemme: secondo la Costituzione palestinese infatti, nel caso in cui la carica istituzionale ricoperta da Abbas dovesse rimanere vacante, subentrerebbe automaticamente il presidente del Parlamento, Abdel Aziz Duaik, membro di Hamas già condannato dal tribunale militare israeliano di “Ofer” a 36 mesi di detenzione per appartenenza al gruppo parlamentare “Cambiamento e Riforma”.

Il Re saudita Abdullah, il presidente egiziano Mubarak e lo stesso Abbas contano sul fatto che il rappresentante della Casa Bianca all’Onu sarà comunque costretto a non boicottare il tentativo arabo, almeno fino a quando la soluzione del conflitto israelo-palestinese rimarrà una delle priorità in testa all’agenda internazionale dell’attuale amministrazione americana. Nel caso in cui Washington dovesse astenersi, in favore dell’iniziativa araba si potrebbero schierare almeno dieci dei 15 membri del Consigli di Sicurezza.

Secondo Abbas, infatti, a garantire la ratifica di una risoluzione che in pratica  metterebbe fine ad ogni futura discussione sulla delimitazione dei confini palestinesi, ci sarebbero i voti favorevoli di Russia, Cina, Francia e Gran Bretagna, così come quelli dei paesi africani, asiatici e sud americani. Un impegno il cui impatto politico potrebbe essere sicuramente paragonato a quello del 29 novembre 1947, quando l'Assemblea Generale delle Nazioni Unite, approvando la Risoluzione 181, diede il via al Piano di spartizione della Palestina elaborato dall'UNSCOP (United Nations Special Committee on Palestine) per la creazione di due Stati: uno ebraico, l'altro arabo, con Gerusalemme sotto controllo internazionale.

Per Washington e Gerusalemme la questione palestinese diventa ancora più spinosa, se si pensa che a Beirut si torna a discutere sulla legittimità della Risoluzione 1559 con la quale, il 2 settembre 2004, le Nazioni Unite, oltre a ribadire il rigoroso rispetto della sovranità ed integrità nazionale del Libano, chiedevano il ritiro di tutte le forze straniere ancora presenti sul territorio e lo scioglimento e il disarmo di tutte le milizie, Hezbollah inclusa. Secondo fonti israeliane, il 23 dicembre scorso il ministro degli Esteri libanese, Ali al-Shami, avrebbe infatti informato la Casa Bianca sulle intenzioni del presidente Michel Suleiman di chiedere l’annullamento della Risoluzione 1559.

Un’iniziativa duramente criticata dalla stessa coalizione di governo che, attraverso le parole del  portavoce dell’alleanza “14 marzo”, Fares Soueid, avrebbe parlando di eccessiva e contestabile libertà d’azione. La richiesta di revisione della Risoluzione Onu arriva poi a poche ore dai colloqui di Damasco tra il premier libanese, Saad al-Hariri, e il presidente siriano, Bashar al-Assad, ed in concomitanza con l’incontro a Beirut tra il ministro degli Esteri iraniano, Manouchehr Mottaki, e il leader del movimento sciita Hezbollah, Sayyed Hassan Nasrallah.

Fatti concomitanti e che lasciano intravedere nuovi scenari. Il viaggio in Siria del nuovo primo ministro libanese, il primo dopo cinque anni di conflitto tra Damasco e la vasta alleanza politica guidata da Hariri, segna infatti l’inizio di una nuova fase di relazioni diplomatiche destinate a rafforzare la cooperazione tra i rispettivi governi e, molto probabilmente, a garantire un Libano più stabile. Anche se il neonato governo di unità nazionale ha ottenuto un larghissimo voto di fiducia (122 dei 128 voti disponibili), a Beirut il dibattito parlamentare ruota ancora intorno alla legittimità dell’arsenale del movimento sciita appoggiato da  Iran e Siria.

L’esecutivo del sunnita Hariri, che per anni ha accusato Damasco di aver ucciso suo padre, lo statista Rafik al-Hariri, e che nell'aprile 2005 ha  costretto la Siria a ritirare le sue truppe, non è l’unico a sostenere il diritto di Hezbollah ad avere le armi. Il leader cristiano maronita Michel Aoun, generale cristiano che il 14 marzo 1989 lanciò contro l’esercito siriano la sua personale “guerra di liberazione del Libano”, è certo che per il Paese il movimento sciita significa sicurezza e libertà. Rispondendo alle critiche del capo delle Forze libanesi, Samir Geagea, Aoun parla di “difesa del diritto ad una resistenza armata come beneficio per il Libano”, mentre ai falagisti di Bachir Gemayel contesta i ripetuti tentativi portati avanti per modificare il paragrafo 6 del documento programmatico del governo, nel quale si ribadisce il diritto del Libano, della sua gente, del suo esercito e della sua resistenza (Hezbollah) a liberare i territori occupati di Shebaa e le colline di Kfar Shouba.