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Se Marchionne scopre la sovraproduzione...

di Joseph Halevi - 03/01/2010

  
 
Il Financial Times del 15 dicembre ha pubblicato le stime più recenti riguardo alle economie europee per il 2010. Si prevede che in tutte, perfino in Norvegia, la disoccupazione aumenterà notevolmente. Per la Germania la stima è del 9,2%, con un incremento del 1,5%; la Francia, con lo 0,7% in più, toccherà il 10,5%; l'Italia l'8,7% con un aumento dello 0,9%, così come la Gran Bretagna. Questo calcolando come «occupati» anche i semidisoccupati part-time ed escludendo i disoccupati che non cercano più lavoro. Colpisce che nella magnifica Svezia si preveda una disoccupazione del 10,2%, mentre nei celebrati modelli danesi ed olandesi si passerà rispettivamente dal 4,5% al 5,8% e dal 3,4% al 5,4%. Meno male che la ripresa c'è!

Il cuore dell'esplosione disoccupazionale risiede nella crisi della produzione industriale e nel nucleo centrale del mercato dei beni di consumo, che è quello dell'auto. Ci si dimentica spesso che l'auto rappresenta tuttora una grossa spesa per le famiglie in termini diretti di acquisto, in termini di indebitamento e spese correnti (assicurazione, carburante, pedaggi autostradali). Nella fase di produzione diretta l'auto genera un indotto ormai globalizzato e in quanto valore d'uso, sebbene sia funzionalmente inefficiente - è una scatola metallica che sta ferma per la maggioranza del tempo - l'automabile sostiene le società finanziarie, petrolifere, assicurative, nonché gli investimenti pubblici in infrastrutture. E' anche un fattore decisivo nella creazione delle rendita urbana. In Italia, basti pensare ai box. Quindi la crisi dell'auto esprime (ma definisce anche) le tendenze generali dell'economia. Due sono le fonti di domanda per ogni prodotto: quella connessa alla specificità del prodotto - che può essere a scapito di altri beni - e la domanda generale, dipendente dalla dinamica del reddito globale disponibile per la popolazione. La domanda di auto è guidata prevalentemente dall'andamento generale.

Possiamo ora valutare la relazione svolta da Marchionne il 22 dicembre. L'amministratore delegato della Fiat presenta il 2014 come data-obiettivo; i dati della Fiat verranno presentati nei dettagli in primavera, mentre Marchionne ci comunica già quelli della Chrysler: 2,8 milioni di unità, cioè un aumento del 40% rispetto ad oggi. Per l'Italia, la Fiat dovrà passare dalle 650mila alle 900mila auto prodotte localmente, cui si sommerebbero 200mila veicoli commerciali. Ma tutto ciò dipende sia dalla domanda aggregata dell'economia europea - e Marchionne non ha particolari facoltà di prevedere il futuro - sia dalla capacità concorrenziale del gruppo. In ambo i casi, il perno della strategia Fiat risiede nella ristrutturazione aziendale. Si deve ottenere una drastica riduzione delle capacità produttive eccedentarie, problema che il settore automobilistico europeo si porta dietro dagli anni settanta, e un aumento considerovole della produzione per addetto. Ne consegue che l'espansione produttiva della Fiat in Italia si basa su una drastica riduzione dell'occupazione. Da qui non si scappa.

Tuttavia tale espansione disoccupazionale non è per niente garantita, dato che la sua realizzazione non dipende solo dai piani del gruppo, ma soprattutto dalla domanda di mercato. Allo stato attuale la situazione è catastrofica ed emerge dalla relazione stessa. Nel 2009 le vendite europee sono state di 13,5 milioni di unità grazie agli ecoincentivi ed alle rottamazioni. Per il 2010 si prevedono 12 milioni di unità.

Si sovrappongono quindi due ondate disoccupazionali: una dovuta alla strategia di ristrutturazione e una dovuta alla crisi. Le due ondate possono cumularsi, in quanto le frustrazioni di mercato accentuano la necessità di operare ulteriori ristrutturazioni. E' evidente che la soluzione non si situa nell'ambito aziendale, ma comporta una politica industriale globale. Che non c'è, né a livello europeo né, tantomeno, sul piano nazionale. Sia a destra che a sinistra.