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La contemplazione della vita. La nascita, la morte, lo Zen

di Angelo Armano - 06/01/2010

 

 

A guardare i diversi praticanti d’aikido, le loro disparate motivazioni e le diverse opportunità di approccio, mi chiedo se il messaggio di O-sensei avesse una peculiarità, alla quale nessun praticante d’aikido, che volesse dirsi tale, non poteva assolutamente sottrarsi.

Mi è stata riferita dal mio maestro Pasquale Aiello una frase di Tada sensei che suona più o meno così: L’Aikido è un grande piatto dove ognuno prende quel che più gli aggrada. A guardare i diversi praticanti d’aikido, le loro disparate motivazioni e le diverse opportunità di approccio, la frase riportatami è ineccepibile, ma mi chiedo se il messaggio di O-sensei avesse una peculiarità, alla  quale nessun praticante d’aikido, che volesse dirsi tale, non poteva assolutamente sottrarsi.

Fortunatamente, riguardandomi una cassetta dello stage estivo 2000, il maestro Tada è tornato sul tema della morte, che è inscindibile dalla pratica delle arti marziali.

Dell’argomento s’è accorta anche la psicologia analitica, quando afferma che l’apertura al Se profondo e lo sviluppo della funzione trascendente, postulano l’attraversamento di esperienze di morte (nell’anima in quanto la morte materiale, per ovvi motivi, non può essere ricordata) e l’illuminazione di Ueshiba, non a caso, conseguì a momenti in cui, nonostante i poteri di cui si dice disponesse, la sua vita era appesa ad un filo, assieme ai suoi compagni di avventura.

L’aikido senza la marzialità, di cui l’efficacia nella self-defence è solo un aspetto, senza il confronto con la morte, che nel mondo contemporaneo si concretizza anche nella capacità di compiere svolte cruciali nella nostra esistenza, di abbandonare schemi di pensiero e situazioni esistenziali in cambio di nulla (nella concreta fatica e dolore di annullare abituali circuiti neuronali, senza pratiche consolatorie) è, a mio parere, qualcosa in meno del fitness o del rock and roll acrobatico. Quanto segue è un tentativo di riflettere sulla peculiarità di quello che ci ha tramandato Osensei, nel paradosso della sua arte marziale d’amore, aspirando solo a ricreare un’ambientazione del tema e ben lungi dall’esaurirlo.

A volte mi viene il dubbio che quello che più caratterizza la vocazione del guerriero .....è la paura!

Vite intere spese a potenziare le proprie energie, a coltivare le tecniche più raffinate, a cercare di essere invincibili. Se non fosse piuttosto ovvio (e non lo è del tutto), bisognerebbe chiedersi: “A che scopo?.

Cosa muove l’artista marziale nella sua ricerca di perfezione? E la sua motivazione nel procedere risulta sempre la stessa?

Le nostre pratiche, sia fisiche che spirituali si mostrano attraverso modalità accumulative:

gli stessi movimenti, gli stessi rituali, le stesse posture, ripetute all’infinito. Diversamente dal conto in banca, il nostro quoziente psicofisico solitamente cambia di poco; spesso si avverte un senso d’inadeguatezza cronica, come se mancasse sempre il centesimo per far la cifra tonda, quella importante che può far cambiare le cose.

L’arte di difendersi esercita il paradosso di scongiurare gli attentati alla vita, ma ponendosi nella situazione di perderla. Il maestro di arti marziali, anche il più sanguinario e violento come Musashi, giunge sovente ad aderire ad un sistema esistenziale e alle stesse conclusioni di un inerme pacifico monaco.

C’era bisogno di uccidere tutti quegli avversari in duello? Di dar fondo a rilevanti risorse di astuzia? Di affinare la sensibilità al punto di equalizzare le proprie virtù marziali a quelle di un rinomato pittore, di un capace artigiano o di un lucido scrittore?

Tanta fatica, tanta ricerca, tanti anni spesi.......per rinunciare?!

La via del monaco è quella della rinunzia e la via che oltrepassa la paura della morte è, altrettanto per il guerriero, quella di rinunziare alla vita. Solo allora verrà l’apice della maestria, solo allora ci si salverà la vita, ma come per Alcesti, il regalo di nozze verrà nel giorno della morte. Due vocazioni tanto differenti, un terreno tanto comune.

Di fronte a un tale paradosso, il budo d’amore di Ueshiba appare meno impossibile.

Le cose sono solo così o possono vedersi anche in un altro modo?

E quale scopo ha la vita visto che le siamo così attaccati, che a malapena ci rassegniamo a perderla, pur ridotti alla parodia di quel che eravamo?

Cosa inseguiamo e cosa c’è che mai riusciamo o vogliamo capire, aggrappandoci ad un’aspettativa di sopravvivenza? 

Taisen Deshimaru almeno ci dice che l’arte marziale lavora per la vita e lo zen ci insegna a morire, ma trovo che di per se, l’affermazione non aiuta abbastanza. Infatti l’incalzare degli interrogativi non trova risposta, se non in un profondo rilassamento, come avrebbe raccomandato lo stesso Deshimaru con la sua pratica, non prima però di aver rinunciato a rispondere. La rinuncia forse necessita dal malinteso sulle nostre possibilità. Non siamo noi a dar la  risposta, essa semmai viene, così come non è il cristiano che perdona (non è in suo potere farlo). Egli può solo pregare il Padre, che faccia intervenire il perdono, quello che nessun ego potrà mai elargire.

La rinuncia alla pretesa di dar risposta è già di per se un rintocco funebre, ma non voltiamo le spalle al funerale, affrettandoci a sorbire lo zucchero che mani pietose ci hanno offerto, come si usa al sud per un rimozionale conforto.

Il funerale si celebra continuamente, al pari dei solari battesimi delle albe, delle nozze di mezzogiorno e delle estreme unzioni della sera.

Noi viviamo nel tempo e fuori dal tempo. Siamo prima del big bang, come ama ripetere il maestro Tada, ma anche nel riflusso dell’energia verso il buco nero. In noi c’è già l’alfa-omega e siamo una processualità che si manifesta. La nostra umanità esibisce delle distinzioni, ma siamo  altrettanto una cosa sola coll’Universo.

L’atemporale e i miliardi di anni che qualcuno attribuisce al cosmo, hanno una strana coincidenza in un luogo peculiare: il vuoto o l’attimo presente -o forse l’attimo fuggente, come in quel meraviglioso film di Peter Weir.

Ma di quanto vuoto dobbiamo nutrirci per capire...... quel che dobbiamo capire?

Non è una questione quantitativa, come non c’è un capire definitivo.

Così non è l’accumulo di gesti o di posture, a colmare il quantum che ci darà l’illuminazione e la nostra via potrà essere altrettanto quella del monaco, del guerriero o del travet.

Ma come nella circolarità dei nostri giorni, noi continuiamo a risvegliarci e ad addormentarci, al ritmo altrettanto circolare del respiro, così volenti o nolenti ripeteremo dei gesti e continueremo a celebrare i nostri riti. E’ quel vuoto stesso così tanto predicato e mai conseguito, a simboleggiare la consistenza dell’esperienza di morte e la rinuncia non dovrebbe essere ai valori, ma all’ossessione unilaterale di vivere contro la morte, come se potessimo accumulare solo vita.

La rinunzia come metafora spirituale è esercizio di morte.

Qualcuno nella ricerca di se dibatterà di via graduale o di via istantanea.

Nel Tibet i tantrici, che non amano il concetto della rinunzia, hanno espresso l’ Anu yoga, ovvero lo yoga senza mezzi, diffidando della presunta magia delle tecniche.

Cercando di evitare il classico malinteso esacrato dallo zen, del dito che indica la Luna scambiato con la Luna stessa, guardiamo in trasparenza cosa potrebbe volerci dire quest’ennesimo linguaggio, visto che la scelta di esprimere è quella di  “argomentare” e il pensiero è una funzione del linguaggio (non viceversa). In ogni caso tutto ciò suona come conferma, riguardo all’insistenza di Yoga e Zen su pratiche di “non pensiero” o vuoto mentale.

Qualsiasi cosa noi facciamo, come recitare una preghiera, sedere in meditazione, menar fendent i con la spada, fare ginnastica o contare i soldi in banca, la facciamo perchè ci piace, ci  consola o perchè non sappiamo fare altro.

Tutto lì! 

Ma è inutile pensare di trovarci uno scopo ulteriore, nel mero gesto, per quanto possa ammantarsi di esoterismo o rimanere banale. 

E quello che c’è da capire, lo si può capire in un attimo oppure mai.

Questa condizione umana ambiguamente apolide, tra l’assoluto atemporale e il relativo dell’essere incarnati, almeno ha la possibilità di riconnetersi col luogo, ove respira quel che compendia il tutto, la sorgente. Ma sia da monaci che da guerrieri (tali presunti) o piuttosto da travet, il livello di angoscia da incontrare e attraversare, in un modo o nell’altro, è lo stesso di quello così ben rivisitato da recenti opere filmiche come: La sottile linea rossa o Salvate il soldato Ryan.

 

Nel buddismo tibetano ho trovato questi sei versi, che alludono allo stato di autoperfezione detto Dzog-Chen, di cui esponente di fama mondiale è una vecchia conoscenza di noi napoletani, Chogyal Namkhai Norbu, già professore all’Istituto Orientale.

La natura delle diverse cose non è duale 

Ma ciascuna, nel suo stato, è al di là dei limiti della mente.

Della condizione “come è” non c’è concetto 

Ma la visione si manifesta: tutto è bene 

Tutto è già compiuto, perciò, superata la malattia dello sforzo,

Ci si trova nello stato autoperfezionato: questa è contemplazione.

Karl Popper, da cui ho ripreso la funzione argomentativa del linguaggio, nel 1984 a Roma, all’Accademia dei Lincei, enunciò 14 teoremi sulla conoscenza, di cui i primi 5 sembrano un’elaborazione del testo tibetano, nei primi tre versi:

1) Tutta la conoscenza umana compresa quella descrittiva è teorica.

2) Tutta la conoscenza teorica -quindi tutta la conoscenza- è incerta.

3) Tutte le percezioni sono percezioni di configurazioni, cioè sono interpretazioni di ciò che il cervello ci fornisce.

4) Tutte le percezioni hanno una natura ipotetica, cioè sono affette dalle nostre aspettative.

5) Viviamo in un mondo reale che rappresentiamo a noi stessi come un mondo di teorie congetturali intorno al mondo reale.

Se ogni qual volta che dibattiamo di più vari argomenti, compreso l’aikido, ci ricordassimo di Karl Popper, scenderebbe un fecondo silenzio!

Ma anche gli altri 9 teoremi nulla arrivano a dirci, su quanto espresso dagli altri tre versi, il cosiddetto Mahamudra ovvero lo stato di contemplazione della realtà. Inoltre, per noi dualisti impenitenti, risulta arduo elaborare quel concetto di tutto è bene, che obbiettivamente è piuttosto indigesto, ma nel Kunjed Gyalpo (trad. it. La Suprema Sorgente), testo canonico basilare di questa forma di buddismo, si afferma senza mezzi termini:

tutto è uno senza distinzione alcuna tra bene e male.

Haruchika Noguchi, grande maestro del Seitai che conosceva Ueshiba, realizzava tutto questo nelle sua tecnica-filosofia del Katsugen Undo, dove malattia e guarigione sono reciprocamente necessarie e non solo sul piano fisiopatologico.

Forse riusciremo persino a capire che un dinosauro, se non un fratello, è un nostro lontano cugino, ma, ammettiamolo, difficilmente potremo ricomprendere un Hitler in " tutto è bene ".

Eppure queste tre paroline, che sono rappresentate dalla divinità tantrica Samantabhadra, normalmente iconografata in unione sessuale con la sua partner, ci fanno riflettere, ad esempio, sulle catastrofi cosmiche a base di meteoriti, che pare abbiano più volte modificato l’evoluzione anche su questo pianeta, facendo tra l’altro apparire l’uomo ed estinguere i dinosauri. 

Hitler o anche l’uomo inquinatore, cancro della Terra, sono sullo stesso piano dell’indifferente meteora, che renderà prive di senso cose meravigliose come la cappella Sistina.

Non si può negare che ciò sia vertiginosamente abissale, ma occorre proprio che ci facciamo coraggio nel contemplare anche questo, se vogliamo veramente capire il senso dei Ueshiba, dei Takuan o dei Tesshu, invece di usarli come aspirine mitiche, dei nostri alquanto patetici mal di capo esistenziali.

Una verità balza agli occhi inconfutabile: "

Il livello di bene che possiamo attingere è pari solo all’angoscia che sappiamo sopportare ", con buona pace delle illusioni materialistiche sia di destra che di sinistra o di malintesi New Age, su pratiche spirituali “da salotto”. 

A me pare che la sostanza del messaggio di Cristo fosse tremendamente questa, prima che i  successori lo trasformassero in maniera più afferente alla politica che non alla religione, relegata quest’ultima in una trascendenza assoluta.

Manca ancora, come per Popper, geniale, ma dualista nel biasimare violentemente Heidegger per i suoi rapporti col nazismo, la scelta sul senso da dare alla nostra esistenza terrena o, molto più limitatamente, alla nostra pratica aikidoistica. Qualcosa di obbiettivamente tanto complesso come l’aikido, dovrebbe fungere da strumento tra gli altri e più significativo di molti altri.

Io mi raccomando-e mai abbastanza- l’Amore e da aikidoista, provo a far mia la scelta di Ueshiba, di essere marzialmente amoroso, che preferisco a quella di guerriero di luce, tanto in voga oggi , proprio per le precedenti perplessità sul “guerriero”.

Ronald Laing, esprimendosi in un seminario a Roma sul rapporto analista-paziente, contesto ideale per l’incontro con l’angoscia, affermava che quando si è certi di un qualcosa, bisogna essere marziali col proprio paziente. E Laing praticava e amava le arti marziali, oltre che il suo lavoro di psichiatra e i sofferenti che gli si rivolgevano, al punto da rifiutarsi di considerarli dei malati.

Il suo allievo David Cooper, definendo involontariamente come ness’un altro l’ideale del bodhisattva, in quel gioiellino di libro dall’argomento molto pertinente: ‘Morte della famiglia’, così si esprimeva: 

“Dobbiamo fare un giuramento a noi stessi, di stare pienamente a santamente al mondo e speriamo che alla fine della nostra vita, ci rimanga un immenso anche se battuto amore da lasciare ed anche una disperazione finalmente sconfitta. Io lo farò.” 

 

La scelta di amare è paradossalmente più scomoda della via della rinuncia, ma come affermò il 6° Dalai Lama, se i nostri pensieri per il Dharma avessero la stessa intensità con cui pensiamo all’amore, diventeremmo un Buddha in questo stesso corpo, in questa stessa vita.