Con la recessione aumentano (negli Stati Uniti e altrove) poveri e disoccupati, ma crollano i crimini. Con grandissimo stupore di criminologi e sociologi che fin dai primi licenziamenti del 2008 avevano previsto il contrario. In realtà, negli Usa, con più di 7 milioni di posti di lavoro persi, il livello di criminalità è arrivato al punto più basso da cinquant’anni.
Il Wall Street Journal ha dedicato all’evento una pagina, decretando la morte di una delle teorie sociologiche più diffuse, che spiega come la causa della criminalità siano l’ineguaglianza dei redditi e la povertà. È accaduto invece che ineguaglianze e livelli di povertà sono aumentati, e i crimini diminuiti. Come mai?
Perché la teoria: povertà uguale criminalità, era sbagliata, e, a dire il vero, lo si sapeva da un pezzo. Influenzata dalla sociologia radicale americana di Wright Mills e Vance Packard, con scorie della Scuola di Francoforte portate da Herbert Marcuse, accusava il capitalismo di creare nuove sacche di povertà a vantaggio degli eletti, e di spingere i diseredati al crimine come unico modo di affermare se stessi, oltre che di sopravvivere.
Invece, e non solo in questa crisi ma anche nelle precedenti, i dati oggettivi hanno dimostrato il contrario.
Il fatto è che anche il crimine costa, cresce in una situazione dove ci sono liquidità ed energie. Lo aveva perfettamente dimostrato il grande sociologo francese Gaston Bouthoul fin dagli anni ’50 del secolo scorso, studiando la guerra, e demolendo in quel caso la vecchia (ma ancora circolante da noi) teoria che le guerre siano fatte dai poveri, spinti a ciò dai bisogni più elementari, loro negati dalle economie dei Paesi ricchi e dall’ineguaglianza internazionale.
Bouthoul dimostrò in modo inoppugnabile che le guerre erano sempre nate da un accumulo di energie dei Paesi ricchi, che le investivano (gettandole via, ripetendo il rito romano della sparsio, i doni gettati al trionfo del vincitore) in conflitti di natura ideale, politica, religiosa, ma che nella maggior parte dei casi rappresentavano, anche per loro, un’autentica distruzione di ricchezza.
Non solo però per muovere guerra, ma anche per delinquere, ci vogliono soldi, energie. Un tipo come Bernie Madoff, che si fece dare miliardi di dollari da una folla di plutocrati, intascandoseli, è certo l’icona del criminale affluente, pre-recessione. Ma anche le bande di rapinatori hanno bisogno di un retroterra solido: luoghi che ti ospitino, organizzazioni che finanzino, coprano, acquistino armi, automobili, quel che serve.
Il crimine (come mi raccontava Alberto dall’Ora, uno dei più grandi penalisti italiani), è soprattutto un’attività industriale, finalizzata alla moltiplicazione della ricchezza dei suoi partecipanti. Se la ricchezza si contrae, anche l’azienda-crimine riduce le attività.
Anche il terrorismo internazionale, che costa un mucchio di soldi, ha potuto svilupparsi quando i Paesi che lo ispirano hanno cominciato a disporre di ingenti capitali, tanto da poterli buttar via. Quando non c’erano i petrodollari il terrorismo era affidato a qualche anarchico, che in genere pagava di tasca sua singoli attentati a sfortunati sovrani, recandosi in terza classe sul luogo del delitto.
E i poveri, allora? I poveri non c’entrarono mai nulla, con l’incremento del crimine. Solo le fantasie negative sviluppate sui poveri dagli intellettuali ricchi (promotori di queste sociologie), condite dai loro sensi di colpa, li hanno convinti che se un operaio perde il lavoro, diventa un bandito.
La morale delle classi meno favorite ha basi più solide, e abitudini alle privazioni più consolidate, della paura della povertà di un professore che ha studiato nelle migliori università americane.
Certo, i poveri cercano di diventare ricchi, ma raramente perdono la testa quando devono fare un passo indietro, in una condizione già nota, e di cui riconoscono la dignità (in genere sconosciuta all’intellettuale radical-borghese che la filtra attraverso i propri sensi di colpa).
Si sa da tempo: il popolo è più onesto e più coraggioso dei suoi paladini.