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Opportunità e svantaggi dell’incertezza

di Adriano Segatori - 13/01/2010

 

IL SENSO AMBIGUO DELL’INCERTEZZA.
“Si tratta di una questione empirica stabilire se l’esperienza della natura selvaggia e di una vita a stretto contatto con essa attivi risorse e capacità oppresse dalla vita civilizzata”.1
Simone Pollo

 viviamo in un tempo caratterizzato da una sedicente precarietà: e dico sedicente in quanto questa condizione non viene mai sottoposta ad una verifica concettuale del suo reale valore. Innanzitutto perché nella genericità del termine non si specifica se questa condizione derivi da una precarietà interiore, un sentimento di insufficienza ontologica, oppure da una insicurezza esogena, dettata dalle circostanze esterne, una specie di incertezza terrena. Poi, perché manca un sistema di indicatori di confronto – precarietà rispetto a cosa: al passato, al futuro, ad una personale percezione, ad un desiderio frustrato, ad una aspettativa tradita, ad una illusione mancata ecc?
È indispensabile, perciò, chiarire il contesto – interno e/o esterno – di quella condizione così intesa: precarietà, incertezza, insicurezza, instabilità, provvisorietà.
Senza scomodare distorte statistiche o altrettanto manipolate inchieste sociologiche volte a ridurre il cosiddetto <<allarme sociale>>, è constatabile da tutti il fatto che l’individuo odierno è più fragile di quello dei secoli passati. Come si può giungere a questa considerazione? Basta prendere in considerazione le condizioni ambientali, economiche, politiche, sanitarie e lavorative degli ultimi due secoli e usare come metro di misura ad esempio la richiesta di supporti psicologici o la denuncia di danni emotivi. Rispetto ai periodi di guerra, di epidemie, di fame, le problematiche individuali hanno subìto una crescita considerevole proprio con il cosiddetto benessere e l’avvento della società accudente. In un lavoro del 1994, Daniel Goleman denunciava il fatto che “fra i paesi industrializzati, l’Italia è seconda solo agli stati Uniti per la frequenza di omicidi. [Inoltre] per i nati dopo il 1945, ad esempio, la possibilità di andare incontro, una volta nella vita, a un grave episodio di depressione è più che tripla rispetto a quella dei loro nonni. Sebbene l’Italia abbia uno dei tassi di suicidio più bassi, negli ultimi vent’anni si è assistito ad una netta impennata (…)”2 . La motivazione della calamità in questione, secondo l’interpretazione di questo psicologo di Harvard, è irrefutabile, condivisibile e già segnalata più volte: la “lenta disgregazione della comunità”3 .
È accaduto, in altri termini, un fenomeno paradossale, e alla cui espansione stiamo assistendo in diversi campi della vita individuale e collettiva: un aumento esponenziale dei dispositivi di ascolto, di cura, di assistenza e di accoglienza mai registrato – e neppure immaginato – nei lustri precedenti e, in contemporanea simmetria, un’espansione delle stesse problematiche che si vorrebbero affrontate e risolte. A fronte di strumenti sempre più pervasivi, sofisticati ed invadenti nella prevenzione del male – per altro con grandissimo investimento di energie umane e di risorse economiche – si manifesta un’espressione pressante di disagi, insufficienze e fragilità.
Questo processo, che ad uno sguardo superficiale potrebbe sembrare contraddittorio, ha invece una logica di causa ed effetto piuttosto evidente. Prendiamo quale esempio chiarificatore una consuetudine apparentemente banale: le ormai consolidate interrogazioni programmate a scuola. Un tempo, le chiamate alla cattedra – tra tentativi di nascondimento e speranze di invisibilità – erano improvvise e non concertabili. L’interrogazione di un giorno non escludeva la possibilità di una seconda nella giornata successiva, e la scadente riuscita della prima non comportava automaticamente un recupero accordato in una scadenza condivisa. In altre parole, bisognava essere preparati a tutto e sempre, pena il fallimento, la brutta figura e l’impegno a rimediare. Questa consuetudine venne abolita in nome di uno stravagante criterio – sia da parte insegnante che da parte genitoriale –: quello di evitare le frustrazioni e le ansie ai bambini e ai ragazzi, e di favorire quell’insegnamento festaiolo e divertente che continua a caratterizzare la velleità di una educazione disimpegnata. Il vecchio metodo era forse una forma di sadismo istituzionalizzato? Certamente no, e non solo per motivi meramente disciplinari, ma per una valenza di formazione psicologica. Come già è capitato in altre occasioni di citare, James Hillman inquadra perfettamente quest’ultimo valore: “Pensare dev’essere difficile, perché no? (…) Non divertimento, non svago, non intrattenimento, ma piacere. Insegnare oggi, almeno in America, per quel poco che ne so, ha confuso il piacere con l’intrattenimento e il divertimento. Si ritiene che il bambino debba trovare vie facili per imparare, e divertirsi mentre impara. Questo non è erotico. È pre-erotico, infantile, e lascia la mente innocente e ineducata. Niente rigore. Educazione basata sul divertimento anziché sul piacere”4 . Questa modalità apparentemente malvagia aveva – e continua ad avere – una enorme importanza nella formazione del carattere. Ogni età, in altre parole, deve entrare in contatto con adeguate frustrazioni, con proporzionate difficoltà; ed una di queste è proprio l’imprevedibilità insita nella stessa condizione esistenziale. Se c’è una cosa, infatti, che non è programmabile nella sua essenza è proprio la vita. Ognuno di noi può progettare qualsivoglia scopo e pianificare il più dettagliato proponimento, ma c’è sempre quella variabile fatale che si chiama caso. Anche se questo fosse inteso nell’accezione di sincronicità secondo Jung, cioè un evento caratterizzato da nessi acausali ma con valenza significativa per il mondo psichico, esso rimarrebbe comunque nell’ambito del non controllabile e del non negoziabile.
Da questo esempio minimo ma non insignificante, si evince come si sia determinata questa eterogenesi dei fini: mentre il sistema, inteso nella dimensione di apparato tecno-economico senza anima e senza vitalità, si attrezzava ad affrontare le difficoltà esistenziali individuali e collettive cercando di diluirle, il singolo veniva lentamente sfibrato nelle sue energie interiori, depauperato delle potenzialità connaturate, demoralizzato nelle sue competenze congenite. Si è voluto così negare una evidenza: come un muscolo si tonifica e si sviluppa attraverso l’aumento dello sforzo progressivo, così il carattere e la psiche si formano e si plasmano con prove ed esperienze sempre più difficili. Non si è voluto ammettere questo principio di natura, e il risultato finale è stato una generalizzata infantilizzazione dell’uomo con conseguente delega da parte dello stesso dei suoi problemi, dei suoi disagi e delle sue ansie ai tecnici preposti al funzionamento dello stesso sistema.
In questo senso l’incertezza – e i suoi sinonimi – risultano essere ambivalenti: una certa dose di precarietà esteriore permette la messa alla prova delle proprie abilità di reazione e la costruzione di adeguati strumenti di vita; l’eliminazione di questa crea, invece, una insicurezza interiore che condizionerà poi – alla lunga ma inevitabilmente – la capacità di decisione e di volontà nell’affrontare gli eventi critici ineliminabili.

L’ESERCIZIO DELLA VOLONTÀ.
“Sii per una volta il tuo stesso accusatore e carnefice, prendi per una volta il tuo dolore come il castigo che tu stesso ti sei decretato! Godi la tua superiorità di giudice; e in più godi quel che a te piace, il tuo tirannico arbitrio! Innàlzati sopra la tua vita come al tuo dolore, affissa lo sguardo laggiù in fondo negli abissi senza fine”.5
Friedrich Nietzsche

Una educazione nel senso classico e sempre attuale di paideía, di “formazione dell’uomo in ogni età. [Con lo scopo determinato di] cogliere e valorizzare le doti il cui seme la natura (phýsis) ha depositato nell’uomo, ma che senza adeguata coltivazione (= cultura) non germoglieranno mai”6 , non può prescindere dall’idea della prova permanente, di mirate e progressive iniziazioni alle responsabilità della vita. Criterio ben diverso dall’istruzione, quel procedimento di trasmissione della conoscenza pratica, funzionale che trova la sua espressione più adeguata nell’etimologia di insegnamento – imprimere un segno, infondere una caratteristica, programmare un attributo, al limite suggerire modi di comportamento. Quest’ultima pratica segue delle direttive egualitarie, secondo le quali tutti devono assumere le stesse particolarità definite dal sistema ed ognuno deve soffocare le proprie istanze differenzianti e esclusive. In esso trova spazio solamente il tanto decantato lavoro di gruppo e l’apologetica dimensione della squadra. Il singolo non può e non deve emergere: la sua eventuale eccezionalità deve risultare come contributo condiviso al percorso comune. Si insinua, così, la falsa idea della diluizione della responsabilità individuale in una più larga e indefinita colpa collettiva, in caso di fallimento di un certo progetto; è il gruppo che non ha funzionato e mai un singolo che ha ritardato, inficiato e compromesso il lavoro degli altri. L’incertezza di un risultato non costringe il soggetto a mettere in gioco e confrontare le proprie competenze e possibilità, ma ogni effetto viene rinviato ad altra causa che non sia personale.
L’istruzione come strategia e l’insegnamento come tattica diventano, così, i due fattori essenziali della non competizione, della non selezione, della non valutazione, in un concetto più ampio di inclusione e di generica programmazione esistenziale. Ma la vita reale, quella che è definita dai limiti e dalla casualità, è ben altra cosa. Con il desiderio di eliminare ogni attrito ed ogni precarietà, la famiglia, la scuola e la società “sono diventati troppo curanti più che educanti”7 , evitando di considerare come “Le prestazioni di cura – questo è l’odierno fraintendimento – non esauriscono tutta l’educazione (…) e non disegnano con sicurezza il nostro e l’altrui destino”8 . In nome di una garanzia di risultato ‘per definizione’, si è confusa la realistica eguaglianza democratica delle opportunità con l’eguaglianza utopica degli esiti, ottenendo un equilibrio a dir poco paradossale e perverso: da un lato un innalzamento virtuale dei risultati con l’eliminazione di ogni difficoltà, dall’altro l’abbassamento delle prestazioni a causa della scarsa o mancata gratificazione per l’impegno profuso. In entrambi i casi un’occasione perduta di mettersi alla prova. Infatti, una volta preso atto realisticamente che “l’imponderabilità esistenziale esiste”9 , compito dell’educazione – sia essa genitoriale che scolastica – è quello di preparare i giovani all’incertezza e all’imprevedibilità, poiché “una overdose di attenzioni, di proiettività, sia per i maschi sia per le femmine, equivale sovente a una privazione del peso (questo parimenti educativo) svolto dai vissuti conflittuali, da quel prendersi cura anomalo che invece di togliere di mezzo gli ostacoli li va a cercare per metterli sul cammino di chi va crescendo. Anche questa è cura, deve essere chiaro”10 .
E allora, rifacendosi ancora una volta alle parole di Duccio Demetrio: “Si esce educati da un’esperienza se essa ci ha messo alla prova e addestrato a sopravvivere”, e introiettando lo splendido invito di Nietzsche di diventare contemporaneamente giudice e colpevole di se stessi, quale è il metodo essenziale di una buona educazione se non l’operazione di levatrice delle qualità interiori e, di conseguenza, quale è il fine superiore se non l’addestramento alla volontà? Certo, con questo intendimento si lascia perdere automaticamente qualsivoglia forma di debilitante tolleranza, per riportare il discorso alla struttura del carattere. Di fronte all’incertezza ontologica della vita, l’educazione assume il compito di fornire gli strumenti adeguati – formazione del carattere – per affrontare l’imprevisto e l’ignoto, la riuscita e il fallimento, la salita e la caduta – volontà e responsabilità. È ovvio che di fronte a questi modelli educativi cade ogni forma di presunzione egualitaria: “Le disuguaglianze precedono il primo vagito”11  – riconosce James Hillman, per cui “Molti sono chiamati, pochi gli eletti; molti hanno il talento, pochi il carattere che può realizzare quel talento”12 . In questo percorso, perciò, si applicano in simultaneità e in sinergia due direttive: una, quella di fare emergere le doti individuali; l’altra, quella di forgiare la volontà per applicarle. Il problema della valorizzazione delle attitudini e dell’affinamento delle abilità poco o nulla si conforma all’indirizzo livellante di ogni competenza e di ogni selezione: esso, caso mai, responsabilizza chi può nei confronti di chi non ce la fa, ma sicuramente non accetta l’ipotesi inverosimile e mistificatoria di illudere che tutti ce la possono fare fluidificando l’attrito dell’esperienza.
In questa accezione di fattore evocativo di risorse e di volontà, l’insicurezza può assurgere ad un ruolo di formazione del carattere. Contro la “retorica dell’empatia”13 , che vuole l’accudimento indifferenziato e propone una piatta elargizione di buoni proponimenti omologanti, per porre rimedio alle evidenti condizioni di fragilità psichica e di precarietà interiore, è necessario ritornare a quella “educazione [che] rimpiange il tempo in cui vigorosi erano gli ideali di cui si faceva portatrice”14 .
C’è da pensare – ad essere maliziosi – che esista un interesse nella denunciata operazione omologante. Il sistema – attento ad essere “funzionante”15  nella gestione ed impotente nel ruolo formativo – non può tollerare nessuna individualità emergente, poiché “l’eccellenza è sempre scandalo”16 : allora diventa accudente, allarmando con le incertezze e rendendosi unico curatore delle medesime. L’individuo, in una spesso inconsapevole complicità, chiede di essere esentato da ogni rischio anche in cambio della riduzione della propria libertà. Per questo motivo una vera educazione diventa rivoluzionaria: essa deve far aprire gli occhi ai giovani, renderli consapevoli che dove c’è una precarietà c’è un pericolo, ma dove c’è un pericolo c’è anche un’opportunità; il suo compito è quello di far comprendere che nessuna decisione è senza rischio e nessuna autonomia è gratuita. Il sistema è terrorizzato da questa possibilità di emancipazione, “poiché lì infatti si cela il massimo pericolo: che l’uomo non abbia più paura”17 . Affrontare l’instabilità può essere, in fondo, la metafora moderna di cavalcare la tigre.

 1 S. POLLO, La morale della natura, Laterza, Roma-Bari 2008, p. 23.
 2 D. GOLEMAN, Intelligenza emotiva, trad. it., R.C.S. Libri&Grandi Opere, Milano 1996, p. 8.
 3 Ivi, p. 7.
 4 J. HILLMAN, Il piacere di pensare, trad. it., Rizzoli, Milano 2001, p. 39.
 5 F. NIETZSCHE, Aurora, trad. it., Adelphi, Milano 1980, pp. 84-5.
 6 L. ZOYA, Coltivare l’anima, Moretti&Vitali, Bergamo 1999, p. 90.
 7 D. DEMETRIO, L’educazione non è finita, Raffaello Cortina, Milano 2009, p. 59.
 8 Ivi.
 9 Ivi, p. 76.
 10 Ivi, p. 59.
 11 J. HILLMAN, Il codice dell’anima, trad. it., Adelphi, Milano 1997, p. 336.
 12 Ivi, p. 311.
 13 D. DEMETRIO, L’educazione non è finita, cit., p. 68.
 14 Ivi, p. 64.
 15 G. FAYE, Il sistema per uccidere i popoli, trad. it., Società Editrice Barbarossa, Milano 1983, p. 50.
 16 N.G. DÁVILA, Pensieri antimoderni, Edizioni di Ar, Padova 2007, p. 13.
 17 E. JÜNGER / M. HEIDEGGER, Oltre la linea, trad. it., Adelphi, Milano 1989, p. 97.