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Il genitore, questo sconosciuto

di Fabio Mazza - 21/01/2010

    




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Tra i fenomeni che si sono generati non con la modernità, ma, si potrebbe dire, con la post-modernità -ammesso che possa avere un senso distinguere tra esse- vi è la crisi dell'istituzione familiare e soprattutto delle figure genitoriali ed educative.
Anche se non potremo occuparci del primo problema, che di certo richiederebbe ben altra sede e impegno, e a cui comunque dedicheremo uno sguardo, proviamo ad inquadrare qui il secondo, avvertendo però che la “trattazione” esulerà da un esame approfondito che dovrebbe abbracciare epoche “tradizionali”, per incentrarsi quasi unicamente su tempi recenti e indicativamente sul secolo XX. Infatti fino a tempi relativamente recenti, grosso modo fino agli anni '60, la situazione, seppur larvata, era ben lungi dall’essere quella che vediamo ora, la cui drammaticità e emergenza anche “sociale” è sotto gli occhi di chiunque voglia vederla e non decida di vivere, come si suol dire, con le proverbiali “fette di prosciutto sugli occhi”.
C’è stato un tempo in cui padre e madre non erano parole indicanti la mera generazione biologica di un figlio, ma stavano ad indicare dei ruoli, qualcosa a cui volenti o nolenti si era chiamati, e di cui anche la “società” e il clima esterno all’istituzione familiare, aiutavano l’accettazione e il mantenimento.
Senza poter qui discutere della figura del “pater familias” di romana memoria, e alle sue articolazioni, giunte, ovviamente in forme spurie ed incomplete, al Novecento, è cosa acclarata, e sicuramente comprovabile da quanti tra noi hanno avuto la ventura di nascere in anni ove la crisi attuale era molto più latente, che la famiglia era ben altra cosa da quel simulacro che oggi ne porta il nome.
È stato sostenuto che l’istituzione "famiglia" reggesse per questioni meramente formali, per “bigottismo” religioso o per convenienza, vista l’impossibilità o il forte limite (anche questo molto sopravvalutato) per la donna di accedere ad attività lavorative, che solo avrebbero potuto garantirgli un'indipendenza in primis materiale dall’uomo, con conseguente libertà di scelta in ordine al mantenimento della famiglia. Gli apologeti del divorzio e della “convivenza” hanno battuto per anni, specie in quelli nefasti del '68, su questi tasti, proclamando che la famiglia era un’istituzione borghese, fascista, patriarcale, superata, e, come in tutti i campi dove hanno messo malauguratamente il naso, sancendo parallelamente una libertà informe e anodina, spacciandola per “emancipazione” e “libertà di scelta”. Ora, è da precisare che è completamente lontano dalla nostra visione il sostenere che tali asserzioni non contengano un fondo di verità, laddove molte delle circostanze che permettevano alla famiglia “ante '68” di reggere, erano effettivamente convenzioni sociali di facciata, scevre in molti casi da un'effettiva volontà, e molto spesso basate sulla costrizione e il “dogma” di intangibilità del matrimonio, dovuto anche all’equivoco “confessionale” della religione cristiana, di “sacralizzare” ogni unione, anche quella tra esseri che non ne capivano assolutamente il senso, e che, in maniera non meno “bovina” di oggi, seguivano la corrente.
Ma è altrettanto vero, che, per “amore o per forza”, si conservava, almeno fino alla prima metà del Novecento, una delle istituzioni fondamentali per la coesione e la tenuta di ogni aggregato umano, tanto più dove tali aggregati sono differenziati e articolati, come nelle società “moderne”.
Così di fianco al progressivo decadere della famiglia, dinnanzi ai preminenti interessi edonistico-individualistici del singolo componente la stessa, sono parimenti decaduti e scemati i ruoli che all’interno della stessa erano appannaggio (o dovevano essere tali) di uomo e donna.