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La crisi, solo una corsa alla felicità

di Mucchetti Massimo - 26/01/2010

«Gli americani si sono indebitati per sfuggire a esistenze troppo vuote»

L a storia della Grande Crisi, divampata nell' estate del 2007, non ha ancora trovato il suo Galbraith, capace di raccontarla con la brillante profondità che l' autore del Grande Crollo dimostrò nella ricostruzione dei fatti del 1929. E tuttavia le principali domande sembrano aver già avuto una spiegazione. Tutte, tranne una: perché le famiglie americane, che con le insolvenze su mutui sub-prime e carte di credito hanno fatto cadere il castello di carte della finanza globale, si erano tanto indebitate per case, auto, vacanze, polizze sanitarie, scuole, fino a raggiungere un' esposizione assai superiore al prodotto interno lordo del loro Paese? Dire che sono state tentate dai prestiti a buon mercato e senza troppe garanzie spiega come abbiano potuto avere accesso al credito, ma non perché abbiano avvertito l' irresistibile urgenza di consumare sempre di più, avendo già 40 anni fa la vita più opulenta del globo. Aggiungere, come fa Robert Reich, ex ministro del Lavoro del primo Clinton, che la middle class è andata in profondo rosso mano a mano che i maschi adulti non potevano più aggiungere ore di lavoro a quelle già fatte e il numero delle madri lavoratrici era ormai raddoppiato, ci aiuta a capire la relazione tra debito e stagnazione salariale. Ma nulla ci dice delle ragioni per cui gli americani non si sono fatti bastare il tanto che già avevano, al punto da invertire la storica tendenza alla riduzione dell' orario, segno di progresso in tutti i lavori non particolarmente creativi. Un' intrigante risposta viene da un economista dell' Università di Siena, Stefano Bartolini, cinquantenne, allievo di quel Giacomo Becattini che, combinando economia e sociologia, aveva capito l' Italia leggera e vincente dei distretti industriali con 40 anni di anticipo sull' accademia e i governi. Bartolini riunirà le sue analisi in un saggio che si intitola Manifesto per la felicità, come passare dalla società del ben-avere a quella del ben-essere, in libreria a marzo per Donzelli, ma ne ha anticipato i tratti salienti in un saggio per l' Ocse (S. Bartolini, Sociability predicts happiness over time; evidence from macro and micro data, 27-30 ottobre 2009, Pusan, Corea del Sud). E ne ha parlato a un migliaio di amministratori del Credito cooperativo lombardo, riuniti per un seminario a Salonicco, commentando la teoria dell' homo oeconomicus che non fa mai niente per niente: «Ho chiesto a un mio amico psicologo se quest' homo esistesse in natura e lui mi ha risposto che sì: che alcuni suoi pazienti eran fatti così». Scrosciante fu l' applauso di quel pezzo d' Italia della piccola impresa che sta sui mercati senza inseguire modelli altrui, ma con la forza di un capitale sociale che non è quello monetario, misurabile dalle agenzie di rating, ma quello delle relazioni nel territorio, studiato in America da Robert Putnam. In premessa, Bartolini ricorda che la felicità degli americani tende a diminuire, nonostante la maggior ricchezza. Secondo la General Social Survey, i cittadini Usa che si sentono molto felici sono scesi dal 38% del 1972 al 34% del 2006, mentre nello stesso periodo il Pil pro capite è raddoppiato; la forbice si apre ulteriormente ove si passi dall' autovalutazione ai dati oggettivi (psicofarmaci, malattie mentali, stati depressivi, suicidi). L' ipotesi è che lo sviluppo smodato dei consumi privati serva a compensare il venir meno dei «beni relazionali», concetto dovuto a Luigino Bruni e Pierluigi Porta, economisti della Università Statale-Bicocca di Milano, e il degrado dei beni comuni e gratuiti. E che il venir meno di questi beni alimenti a sua volta la crescita dell' economia in una spirale efficace e perversa. Due esempi: se non abbiamo tempo, voglia o capacità di coltivare le amicizie o la famiglia, per ammazzare il tempo compreremo tutti i prodotti dell' intrattenimento domestico solitario; se il lago di casa è inquinato, andremo ai tropici anche quando piove. I comportamenti migrano dall' area non monetaria all' area della compravendita. Una trasformazione degli stili di vita che esige più denaro. Secondo Juliet Schor, gli americani hanno finito per stare in fabbrica o in ufficio 160 ore in più all' anno. Ma il lavoro assatanato esalta la competizione fino al ferino homo homini lupus. La paura del prossimo è diventata così alta che negli Usa, secondo Bowles e Jayadev, un lavoratore su quattro è addetto alla sorveglianza, il doppio dell' Italia, il quadruplo della Svezia. È la spia di un generalizzato declino della fiducia verso tutte le istituzioni, incluse le Chiese ed escluse le Forze Armate. Ma arricchire i propri averi non soddisfa il cittadino tipo, il classico mister Jones, se le sue persone di riferimento sono più fortunate. Mister Jones corre su un tapis roulant che si muove più veloce in direzione contraria. Guadagna denaro, ma perde relazioni umane, vive in una natura violentata, ha meno fiducia nelle istituzioni, meno speranza di poter cambiare, è afflitto da invidia sociale. Per compensare la mancanza di onestà e solidarietà, la famiglia tipo dovrebbe avere un reddito annuo aggiuntivo di 67 mila dollari. L' individuo privo di relazioni dovrebbe disporre addirittura di 320 mila dollari in più. «Nemmeno 30 anni di crescita a ritmi cinesi, sarebbe stata sufficiente a procurare tali ricchezze» chiosa Bartolini che ha fatto questi conti. Può essere, vedremo il testo finale, che la metodologia non convinca. Ma un fatto resta: siccome mister Jones ha dovuto integrare il reddito da lavoro con la carta di credito per inseguire i crescenti consumi infelici, alla fine ha fatto crollare il castello di carte di quello che Bartolini chiama, non sfuggendo alla tentazione dell' acronimo, il modello Neg, Negative endogenous growth. Bartolini si colloca tra i contestatori del mito della crescita. Ma a differenza di Serge Latouche, preoccupato degli effetti sulle risorse naturali, l' economista toscano accende il faro sull' origine comportamentale del Pil. Le ricette di entrambi sono discutibili e discusse, ma vorrà pur dire qualcosa se, nell' estate del 2009, un uomo come Tommaso Padoa-Schioppa, già banchiere centrale e ministro dell' Economia, aveva previsto un mondo a due velocità: rapido nei Paesi emergenti, riflessivo in quelli sviluppati.

L' autore Stefano Bartolini, 50 anni, insegna economia politica all' Università di Siena. Il suo «Manifesto per la felicità» uscirà in marzo da Donzelli. Nel 2004 ha scritto «Una spiegazione della fretta e della infelicità contemporanee» nel volume «Felicità ed economia» (Guerini)