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Iran, cosa vogliono gli ebrei iraniani

di Roger Cohen - Vittorio Arrigoni - 03/02/2010

Fonte: guerrillaradio

 

 

La giornata dalla memoria è stata la scusa per Israele e per molti dei suoi lustrascarpe, Berlusconi-lingua birforcuta in primis, per tornare ad accusare l'Iran, in vista di un ulteriore massacro preventivo, esattamente come è successo in Iraq. Addirittura il regime iraniano viene paragonato al nazismo. Ebbene, nella Teheran "nazista" come se la passano gli ebrei? Per chi è così male informato da non sapere neanche che una antichissima comunità di 25 000 ebrei vive in Iran e non sono certo vittime di un genocidio, ma anzi, in confronto ai palestinesi in Israele se la spassano:

(Vittorio Arrigoni)



L’Iran è una realtà complessa, fatta di numerose etnie e minoranze religiose, che hanno vissuto storie di convivenza accanto a episodi di brutale repressione. La realtà degli ebrei iraniani, una comunità antichissima tuttora vitale in Iran, fra millenaria tolleranza e ostilità recenti, viene raccontata da Roger Cohen, noto commentatore del New York Times

ESFAHAN - In Piazza Palestina, dal lato opposto della moschea chiamata al-Aqsa, vi è una sinagoga dove gli ebrei di questa antica città si riuniscono all’alba. Sopra l’ingresso vi è uno striscione che dice: “Congratulazioni per il 30° anniversario della Rivoluzione Islamica dalla comunità ebraica di Esfahan.”
Gli ebrei dell’Iran si tolgono le scarpe, avvolgono cinghie di pelle attorno alle braccia per allacciare i filatteri, e prendono posto. Presto il sinuoso mormorio delle preghiere ebraiche attraversa la sinagoga stipata, con i suoi deliziosi tappeti e le sue misere piante. Soleiman Sedighpoor, un vecchio commerciante con un negozio pieno di tesori, dirige la funzione dal podio sotto al lampadario.
Ero stato a trovare Sedighpoor, un uomo di 61 anni dagli occhi vivaci, il giorno precedente nel suo piccolo negozio polveroso. Mi aveva venduto, con un po’ di riluttanza, un braccialetto di madreperla ornato con miniature persiane. “Il padre compra, il figlio vende”, aveva borbottato prima di invitarmi alla funzione.
Accettando, gli avevo chiesto cosa pensasse dei cori “morte a Israele” - “Marg Bar Esraeel”- che accompagnano la vita in Iran.
“Lasciategli dire ‘morte a Israele’”, ha detto, “sono in questo negozio da 43 anni e non ho mai avuto un problema. Ho visitato i miei parenti in Israele, ma quando vedo cose come l’attacco a Gaza, anche io manifesto come un iraniano.”
Il Medio Oriente è un quartiere scomodo per le minoranze, persone la cui stessa esistenza è un rimprovero alle definizioni contrapposte di identità nazionali e religiose. Eppure sono forse 25.000 gli ebrei che vivono in Iran, Paese che ne ospita la comunità più grande, insieme alla Turchia, nel Medio Oriente musulmano. Ci sono più di una dozzina di sinagoghe a Tehran; qui a Esfahan una manciata di esse accoglie circa 1.200 ebrei, superstiti di una comunità antica più di 3.000 anni. Nel corso dei decenni, fra la nascita di Israele nel 1948 e la Rivoluzione Islamica nel 1979, il numero degli ebrei iraniani è diminuito di circa 100.000 persone. L’esodo è stato però molto meno completo rispetto a quello dai Paesi arabi, dove risiedevano più di 800.000 ebrei al momento della nascita di Israele.
In Algeria, Tunisia, Libia, Egitto, e Iraq – Paesi in cui vivevano più di 485.000 ebrei prima del 1948 – ne rimangono meno di 2.000. L’ebreo arabo è ormai scomparso. L’ebreo persiano se l’è passata meglio. Di sicuro, il ciclo di guerre (a quanto pare non ancora conclusosi) di Israele è avvenuto con gli arabi, non con i persiani, e ciò spiega alcune delle discrepanze.
Eppure, c’è un mistero che ancora aleggia sugli ebrei d’Iran. È importante decidere cosa sia più significativo: le invettive di annientamento anti-israeliane, la negazione dell’Olocausto e altre provocazioni iraniane – o la presenza di una comunità ebraica che vive, lavora, e pratica la propria religione in relativa tranquillità.
Forse ho una preferenza per i fatti rispetto alle parole, ma penso che la realtà della civiltà iraniana nei confronti degli ebrei ci dica di più sull’Iran – sulla sua raffinatezza e cultura – di quanto non lo faccia tutta la recente incendiaria retorica. Ciò potrebbe dipendere dal fatto che io sono un ebreo e non sono mai stato trattato con tanto calore come in Iran. O forse sono rimasto impressionato dal fatto che tutta la furia su Gaza, sbandierata ai quattro venti sui manifesti e sulla televisione iraniana, non è mai degenerata in insulti o violenze verso gli ebrei. O forse ancora, perché sono convinto che la caricatura da “folli Mullah” che viene fatta dell’Iran, e il fatto di paragonare ogni eventuale compromesso con Tehran a quello di Monaco nel 1938 (che portò all’annessione alla Germania hitleriana dei Sudeti appartenenti alla Cecoslovacchia, nell’ambito della cosiddetta ‘politica di appeasment’, la politica condiscendente adottata da Francia e Germania nei confronti del regime nazista durante gli anni ’30 (N.d.T.) ) – una presa di posizione popolare nei circoli ebrei americani – siano fuorvianti e pericolosi.
So bene che, se molti ebrei hanno lasciato l’Iran, ciò è avvenuto per una ragione. L’ostilità esiste. Le accuse di spionaggio a favore di Israele inventate contro un gruppo di ebrei di Shiraz nel 1999 hanno mostrato il lato peggiore del regime. Gli ebrei eleggono un rappresentate in parlamento, ma possono votare per un musulmano se preferiscono. Un musulmano, tuttavia, non può votare per un ebreo. Tra le minoranze, il trattamento riservato ai Bahai – sette dei quali sono stati recentemente arrestati con l’accusa di spionaggio per Israele – è brutale.
Ho chiesto a Morris Motamed, che è stato membro ebreo del Majlis (il parlamento iraniano (N.d.T.) ), se si sentisse usato – un collaborazionista iraniano. “No”, ha risposto. “In realtà avverto una profonda tolleranza, qui, nei confronti degli ebrei”. Mi ha detto che i cori di “morte a Israele” lo infastidiscono, ma poi ha continuato criticando “i due pesi e le due misure” che permettono a Israele, al Pakistan, e all’India di avere una bomba atomica, ma non all’Iran.
Questo doppio standard non funziona più; il Medio Oriente è diventato troppo complesso. Le volgari filippiche anti-israeliane dell’Iran possono essere viste come una provocazione per far concentrare l’attenzione della gente sulle testate nucleari israeliane, sulla sua occupazione della Cisgiordania che si protrae da 41 anni, sul suo rifiuto di Hamas, sul suo continuo uso della forza. Il linguaggio iraniano può essere detestabile, ma ogni tentativo di pace in Medio Oriente – e ogni coinvolgimento di Tehran – dovrà tenere presenti questi punti.
Il complesso da “Zona Verde” – l’insistenza di basare la politica del Medio Oriente sulla costruzione di mondi immaginari – non ha portato da nessuna parte.
Il realismo nei confronti dell’Iran dovrebbe tener conto dell’ecumenica Piazza Palestina a Esfahan. Alla sinagoga, Benhur Shemian, 22 anni, mi ha detto che Gaza dimostra che il governo israeliano è “criminale”, ma che comunque lui spera nella pace. Alla moschea di al-Aqsa, Morteza Foroughi, 72 anni, ha indicato la sinagoga e ha detto: “Loro hanno il loro profeta, noi abbiamo il nostro. E va bene così.”


Roger Cohen è un noto commentatore del New York Times e dell’International Herald Tribune. In precedenza aveva lavorato come corrispondente estero per l’agenzia Reuters, e poi per il Wall Street Journal.

(Traduzione a cura di UNIMED-IlChiosco)