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Il PIL della disuguaglianza

di Roberto Zavaglia - 04/02/2010

Da diversi anni è divenuto quasi un luogo comune sostenere che, tra le potenze in ascesa, destinate a svolgere un ruolo guida nel mondo avviato verso il multipolarismo, l’India occupi una delle prime posizioni. Nell’Oriente che guadagna sempre più rilevanza, economica e politica, a fianco del dragone cinese c’è anche questa immensa nazione di 1 miliardo e 200 milioni di persone a condurre le danze. La Cina sta intanto mantenendo tutte le promesse e prosegue la sua crescita a dispetto della crisi economica mondiale. E’ di pochi giorni fa la notizia che il suo Pil si avvia a superare quello giapponese, dando vita alla seconda economia mondiale dopo gli Usa.

  Che la Cina sia ormai una protagonista non solo in Asia lo conferma, tra l’altro, l’indiscrezione, poi smentita, che il governo greco, in grave difficoltà finanziaria, si sia rivolto proprio alla Repubblica Popolare per collocare 25 miliardi di euri di titoli del Tesoro, quasi la metà del debito da piazzare nel 2010. Pechino, in cambio, avrebbe chiesto una partecipazione strategica nella Banca nazionale greca. A prescindere dal fatto che l’operazione vada o meno in porto, un’ipotesi di questo genere dimostra il peso raggiunto dalla Cina negli equilibri internazionali, con un Paese appartenente all’Unione Europea che le chiede di “essere salvato”.

  Nonostante continui a godere di buona stampa, l’India deve invece affrontare maggiori difficoltà nel tentativo di migliorare il suo rango negli assetti geopolitici in divenire. Nuova Delhi, oltre a pretendere l’egemonia nel subcontinente, vorrebbe competere più o meno alla pari con Pechino in tutta l’Asia orientale. Inoltre, cerca di ritagliarsi un ruolo importante nelle questioni globali, soprattutto all’interno del G20, coordinandosi con altri grandi Paesi del ”Sud del mondo” come Brasile e Sudafrica. I primi ostacoli, però, l’India li incontra già alle proprie frontiere, nei rapporti con Cina e Pakistan. Con la prima, dalla quale subì una sconfitta militare nel 1962, sono riprese le dispute di confine che non erano mai state risolte ufficialmente. Il Pakistan è, invece, il “nemico assoluto”: il Paese che rivendica il Kashmir ed è sospettato di alimentare il terrorismo islamista e di essere, addirittura, dietro il sanguinoso e spettacolare attacco jihadista avvenuto a Mumbai nel novembre del 2008.

  Il primo ministro Manmohan Singh, confermato nelle elezioni del 2009, pensava di essere riuscito a creare un rapporto privilegiato con gli Stati Uniti. Per George W. Bush l’India serviva a “contenere” l’avanzata della Cina in Estremo Oriente e, nel marzo del 2006, arrivò a concederle un accordo nucleare, nonostante Delhi non avesse mai aderito al Trattato di non proliferazione. Con Obama, che si è rassegnato al ruolo di grande potenza di Pechino, le cose stanno cambiando e  l’India pare ora meno centrale nella strategia Usa. I problemi più urgenti sono, comunque, quelli di carattere interno. Si tratta di questioni alle quali, storicamente, la classe dirigente non ha saputo dare risposte efficaci.

  Certo, sotto gli occhi di tutti c’è il “miracolo economico” indiano, con una crescita inferiore a quella cinese, ma comunque impressionante. Nel primo decennio di questo secolo, l’economia è cresciuta con tassi tra l’8 e il 9% e, durante la recessione mondiale, è riuscita comunque a trottare al ritmo del 6,5%. Il boom si deve, in particolare, al settore dei servizi che rappresenta il 55% del Pil totale. La stampa di tutto il mondo si è prima sorpresa e ha poi esaltato la rivoluzione tecnologica indiana, trainata dall’informatica, dalle biotecnologie, dal settore farmaceutico e da quello spaziale. Sembrava che la società si stesse trasformando a tutta velocità, facendo della miseria diffusa solo un brutto ricordo del passato.

  Sotto la patina della modernizzazione economica e il luccichio degli yuppie indiani che ostentano i gadget tecnologici di ultima generazione, la realtà rimane diversa. Dopo i lunghi anni di politica economica improntata al dirigismo e al protezionismo per rafforzare l’industria nazionale, soprattutto di proprietà statale, le aperture liberiste degli ultimi due decenni hanno fatto correre il Pil, ma la distribuzione della ricchezza resta fortemente squilibrata. Il problema della miseria, tanto nelle città deturpate dalle immense baraccopoli come nelle campagne, talvolta impoverite dalla cessione ai privati delle terre, rimane il più grave. Se, alzando appena di un poco la soglia di povertà stabilita dalla Banca Mondiale, la si porta a un più realistico livello di 2 dollari al giorno per persona, si constata che una quota tra l’80 e l’85% della popolazione vi rimane al di sotto. Si pensi solo che nella “moderna” Mumbai oltre la metà della popolazione vive nelle baraccopoli.

  Secondo l’Onu, l’India è al 134° posto negli indici dello sviluppo umano. La povertà alimenta la guerriglia maoista che, in alcune parti del Paese, le forze governative faticano a contrastare. In una nazione composta da 28 Stati federati e sette territori autonomi, dove si parlano 18 lingue ufficiali, oltre a circa 1.700 dialetti, in cui vivono 2.000 etnie diverse, la sovranità del centro, inoltre, è contestata, talvolta in forme violente, da una miriade di movimenti autonomisti e secessionisti. Il governo ha accettato la nascita di un nuovo Stato, il Telangana, distaccatosi dall’Andhra Pradesh, ma questa mossa ha galvanizzato tutti gli altri innumerevoli pretendenti. Gandhi, durante il periodo delle lotte contro gli inglesi, era riuscito a diffondere e a fare accettare alla maggioranza della popolazione il concetto di identità indiana che, oggi, appare almeno in parte in crisi.

  Nonostante le sue molte difficoltà, l’India ha le potenzialità per giocare un ruolo importante nel suo contesto geopolitico. A merito della sua classe dirigente, pur affetta da un alto tasso di corruzione, va il fatto di riuscire a mantenere in una certa efficienza il sistema politico. In quella che viene definita la più grande democrazia del pianeta le votazioni si svolgono in modo regolare, nonostante i sanguinosi incidenti che spesso turbano le campagne elettorali. Non è un risultato scontato in un Paese che deve anche tenere a bada le ricorrenti tensioni tra la maggioranza hindu (80% circa) e le minoranze religiose, in particolar modo i musulmani che sono poco più del 13%.

  Insieme ad altre differenze, è il fatto di essere retta da una dittatura di sviluppo a distinguere la Cina dall’India. Se guardiamo ai risultati, l’autoritarismo di Pechino sta dimostrando di condurre meglio il Paese, anche sul piano della parziale riduzione della povertà, in questa fase di vorticosa trasformazione. Non è però detto che una parte delle difficoltà che sta ora affrontando Dehli, mantenendo comunque le libertà civili, non debba toccare in sorte anche alla Cina, se il suo stravagante sistema di turbocapitalismo guidato dal Partito comunista dovesse entrare in crisi.