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Ritorno in Eritrea

di Giorgio Ballario - 07/02/2010

Parafrasando una vecchia canzone dei Ricchi&Poveri, “Nostalgia canaglia”! Hai voglia a ripetere che il torcicollo è una brutta malattia, specie quando è un’affezione dello spirito, più che del corpo. Ma visitando l’Eritrea, passeggiando per le vie ordinate di Asmara o fra i resti dei palazzi arabeggianti di Massaua, è difficile resistere alle trappole della nostalgia. Al richiamo di un Paese dove quasi tutto, anche a distanza di molti anni, ricorda la presenza italiana.

Attraversare il centro di Asmara, la “piccola Roma”, è come fare un tuffo nel passato. E’ come osservare un museo – vivo e a cielo aperto – di quel modello urbanistico e architettonico ben descritto da Antonio Pennacchi nel suo recente “Fascio e martello. Viaggio per le città del duce”, edito da Laterza.

I viali alberati, gli edifici in stile razionalista, la cattedrale, le scuole, la stazione ferroviaria, il mercato coperto. Sembra di aggirarsi in un quartiere di Roma non ancora stravolto dal traffico, o meglio ancora in una delle tante cittadine create negli anni Trenta su impulso del regime: Littoria (ora Latina), Carbonia, Aprilia, Pomezia. Ma qui non siamo nel centro Italia. Siamo in Africa, a quasi 2400 metri di altitudine, fra le “ambe” rimaste famose nella toponomastica patriottica del passato: Amba Alagi, Amba Aradam, Amba Soira.

In quella che venne definita Africa orientale italiana, il sogno effimero dell’Impero è durato poco: nel marzo del 1941 la sconfitta nella battaglia campale di Cheren, ad aprile la resa di Massaua, a maggio la resistenza del Duca d’Aosta sull’Amba Alagi e a fine novembre la resa dell’ultima sacca italiana, a Gondar, misero fine ad un’avventura coloniale cominciata 61 anni prima con l’acquisto della baia di Assab, in Dancalia, da parte di una compagnia commerciale genovese.

Eppure ancor oggi ad Asmara, Massaua o Cheren è facile trovare qualcuno che per strada ti si rivolge in italiano e per i bambini, in cerca di una caramella o una penna biro, lo straniero di pelle bianca è sinonimo di “italiano”. Con l’Eritrea, la “colonia primigenia”, il legame non è stato del tutto reciso. Merito in particolare dei tanti connazionali che dopo la guerra decisero di rimanere, mantenendo anche sotto il Governo del Negus (il Paese, nel frattempo, era stato regalato dalla Gran Bretagna all’Etiopia) il ruolo di élite commerciale, imprenditoriale e culturale della società eritrea.

Negli anni Cinquanta e Sessanta, Asmara era ancora sostanzialmente italiana, come ricorda Erminia Dell’Oro nei suoi fortunati romanzi sui nostri connazionali d’Eritrea. E lo rimase fino all’inizio degli anni Settanta, quando prima la guerriglie fra etiopi e indipendentisti eritrei, poi la presa del potere ad Addis Abeba da parte del dittatore marxista Menghistu, costrinsero molti degli irriducibili a tornare in patria. Una patria che la maggior parte di loro neppure conosceva, o aveva abbandonato nell’infanzia.

I pochi rimasti ad Asmara – e sopravvissuti a una lunga e sanguinosa guerra d’indipendenza – ora si trovano ancora alla “Casa degli italiani”, un circolo con bar, ristorante e sala da biliardo gestito da un italo-eritreo vissuto per trent’anni a Torino. I giornali italiani, le sciarpe delle squadre di calcio e il televisore perennemente sintonizzato su Rai International danno il segno di un legame che non si è del tutto spezzato, più ancora del tricolore che sventola nel cortile. Mentre sulla Harnet Avenue, la via centrale che un tempo si chiamava Viale Benito Mussolini, è facile imbattersi in anziani che vendono vecchie monete italiane con l’effigie di Vittorio Emanuele III o medaglie celebrative della guerra d’Africa.

Le trappole della nostalgia, dicevamo. E’ difficile resistervi ammirando le linee essenziali della ex Casa del Fascio (ora Ministero dell’Educazione), l’architettura futurista dell’ex officina Fiat Tagliero, l’eleganza dei cinema Roma e Impero (si chiamano ancora così…), le villette in stile europeo rivestite da fiori d’ibisco e bouganville, lo sfarzo della vecchia residenza del governatore, adesso dimora del presidente Isayas Afewerki, un po’ tiranno e un po’ padre della patria per aver vittoriosamente comandato la guerriglia contro l’odiata Etiopia.

Ed è ancor più difficile quando si scende sulla costa del Mar Rosso, percorrendo la magnifica strada panoramica italiana che dalle ambe scende al bassopiano; oppure usando la vecchia ferrovia – ultimata nel 1911 – che grazie a curve vertiginose, ponti e gallerie annulla in cento chilometri i 2400 metri di dislivello da Asmara a Massaua. La Guida dell’Africa orientale italiana pubblicata nel 1938 dalla Consociazione turistica italiana (l’attuale Touring Club) informa che in quei tempi, nel porto della “perla del Mar Rosso”, attraccavano quasi mille navi “a propulsione meccanica” e 1400 navi a vela, vi sbarcavano circa 150 mila passeggeri l’anno e venivano movimentate oltre un milione di tonnellate di merci.

Oggi Massaua mette tristezza. è una città fantasma, che a distanza di 18 anni reca ancora i segni evidenti della guerra d’indipendenza. Il porto è semi paralizzato, di tanto in tanto attracca un cargo e allora una decina di vecchi camion Fiat e Iveco s’inerpica sulla strada per Asmara per trasportare nella capitale i container pieni di merce. Ma per il resto della settimana le acque basse della rada sono solcate solo da miseri “sambuchi” di pescatori e da imbarcazioni che portano i rari turisti nello splendido arcipelago delle isole Dahlak. L’atmosfera diventa ancor più spettrale quando cala la sera e la città vecchia, quasi priva di illuminazione, si svuota. Ma nemmeno il buio riesce a nascondere le vistose ferite inferte dalle bombe all’ex Banca d’Italia, splendido edificio pubblico costruito in epoca coloniale nel rispetto dell’architettura araba della costa. Un palazzo un tempo fiabesco, ora sempre più simile al rudere di un passato che non tornerà.