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È possibile incontrare un giorno la nostra parte dimenticata, che ci viene incontro?

di Francesco Lamendola - 09/02/2010

 

Sabina mi guarda pensierosa, ma sempre con quel sorriso vagamente ironico che le aleggia sul labbro inferiore, facendolo tremare impercettibilmente; poi mi pianta addosso il suo sguardo penetrante:
- E così, se ho capito bene, ti sei sentito come Goethe quella volta che, camminando per la strada, si vide venire incontro il suo Sé di tanti anni prima, esattamente com’era vestito e come doveva apparire in quel giorno lontano della sua giovinezza.
- Sì, almeno un poco. Anche se io non ho fatto un’esperienza così concreta; non ho incrociato il mio doppio, il mio corpo astrale.
- D’accordo; però ti è venuto incontro un ricordo dimenticato, un ricordo in se stesso quasi insignificante, con una forza e una freschezza da lasciarti sconcertato.
- Puoi dirlo. Continuavano a riemergere dal passato sempre nuovi particolari di quell’episodio; e pensare che non ci avevo più ripensato, né allora, né in seguito. Uno fra le migliaia, anzi, fra i milioni di ricordi che s’immagazzinano nel nostro cervello… Be’, e ora si può sapere che cos’hai da ridacchiare?
- Non sto ridacchiando, sto solo sorridendo, uomo sospettoso.
- È che a pensar male, con te, si indovina sempre…
- Bene, allora ti dirò la ragione di quel sorriso. Pensavo: non sei forse tu a sostenere che nulla, nel corso della nostra vita, ci accade per caso; e, in particolare, nulla di quanto viene da dentro di noi? Dunque, ci sarà stata una buona ragione; devi solo trovarla.
- Ci sto riflettendo, infatti… Senti, ora piantala di sogghignare e dimmi cosa ti frulla in testa. Non negare, stavolta vedo bene che ridacchi alle mie spalle.
- Forse quella ragazza ti interessava molto più di quanto tu non voglia ammettere: tutto qui.
- Ti dico di no. Se fosse stato così, l’avrei pensata altre volte, specialmente i primi tempi. Invece no, assolutamente niente.  Non credo fosse lei, ma tutta la situazione…
- Un senso di libertà, mi hai detto; e anche di serenità.
- … e anche di “possibilità”.
- Cosa intendi dire?
- Sai, quando si pensa che tutto è ancora possibile? Quando si è giovani, voglio dire; quando si è molto giovani, e si crede di avere davanti non il tempo, per quanto abbondante; ma più o meno l’eternità…
- Tu ti sentivi così, a diciotto anni?
- Sì… No… A pensarci bene, non è nemmeno questo: è che a diciotto anni non si pensa affatto né al tempo, né all’eternità; non si pensa proprio al futuro e, quindi, si è su un altro piano di realtà, svincolato dalla catena del prima e del dopo… liberi come le nuvole che vagano in cielo.
- Diciamo che tu, almeno, eri così.
- Sì; ma credo sia una disposizione dello spirito connaturata a quell’età… Si sta uscendo dall’adolescenza, ma non si è ancora entrati nella giovinezza vera e propria… Si sta sul limitare, come una nave che corre sulle onde proprio a ridosso del “Maelstrom”…
- Bellissimo, quel racconto di Edgar Allan Poe. Ma continua.
Questa volta sono io a guardarla ironicamente:
- Per poterti divertire alle mie spalle?
Sabina assume di colpo un’aria ostentatamente grave, sbarra gli occhi e si porta la punta delle dita affusolate vicino alle labbra, come per dire: “Giuro di no”.
L’effetto è così irresistibilmente buffo che non riesco a rimanere serio e scoppiamo a ridere entrambi, come ci succede abbastanza spesso.
- Dai, orso, continua a raccontare, prima di cadermi in letargo; sennò poi mi tocca aspettare altri  sei mesi per levarmi la curiosità. Che, come ben sai, è femmina.
- Femmina e perciò maliziosa e infida, come te.
- Non cominciare con i tuoi sermoni da vecchio misogino. E va’ avanti a raccontare….
- Non c’è niente di speciale da dire. Ma sai quando ti rivedi davanti il passato, così, di colpo, come se non fosse per niente passato: ti è mai successo? Quando ti par di sentire perfino la carezza del venticello sulla pelle…
- Perché eravate in bicicletta, vero?
- Si capisce; la tenuta agricola del conte di *** era immensa, e per spostarsi da un vigneto all’altro bisognava macinare chilometri di strada. Io, poi, partivo presto la mattina e mi facevo sei o sette chilometri di bicicletta per mio conto, solo per arrivare al punto di ritrovo.
- Le tenute agricole del conte erano immense… sembra l’inizio di un racconto medievale.
- Perché, credi che i conti non esistano più? Quello aveva perfino un castello, un castello antico, voglio dire, con tanto di mura e ponte levatoio, in cima a un colle: ed esiste ancora oggi. Saranno state almeno una cinquantina di persone a lavorare per la vendemmia: donne in età e ragazzi di entrambi i sessi. Io avevo appena finito la scuola e volevo guadagnare qualcosa; e poi mi piaceva lavorare all’aria aperta.
- E cosa hai fatto, poi, col guadagno di quella vendemmia?
- Mi sono comperato un motorino che ho adoperato pochissimo, perché me l’hanno rubato.
- Dunque, torniamo a quel mattino di settembre.
- Un mattino come un altro, in fondo. Però, al tempo stesso, uno di quei mattini stupendi di fine estate, pieni di sole, quando la rugiada brilla sull’erba come se fosse il primo giorno della creazione…
- Un mattino come un altro o un mattino speciale?
- Forse mi sembra speciale adesso, a una così grande distanza di tempo; perché allora ero così giovane, e da giovani tutto sembra speciale.
- E ora non più?
- Hai ragione: anche ora. Ma con questa differenza: che, per l’adulto, saper vedere l’eccezionalità del quotidiano è il frutto di un lungo cammino e di una consapevole conquista; mentre per un ragazzo è normalissimo…
- Ma ne sei proprio sicuro?
- No. Forse mi sembra così, con il senno di poi. Ma allora non ero consapevole. Per un giovane le cose sono speciali, ma non perché lo sappia; anzi, proprio perché non lo sa… e, per un bambino, ciò è ancora più vero. L’incanto del mondo, per lui, nasce dalla inconsapevolezza.
- Dunque, vi stavate spostando da un vigneto ad un altro, tutti in gruppo, con le vostre biciclette. E con quel senso di libertà, di leggerezza…
- Mi pare di vedere ancora il sole filtrare tra i rami dei grandi platani; e, al di sopra delle loro chiome, il cielo azzurro, sgombro, altissimo. E quel profumo di erba, di estate…
- … di giovinezza…
- Anche. Sì, percorrevamo un lungo viale fiancheggiato dai platani, dritto come freccia, simile a una verde galleria dalle pareti viventi e respiranti….
- Sai che mi par quasi di vederlo anche a me? Lo hai descritto così bene…
- Smettila di adularmi.
- Non ti sto adulando. È una descrizione sensuale, come quando dicevi del venticello sulle braccia nude. Eh, con un animo così sensuale, tu sì che potresti far felice una donna, se solo non fossi così misogino… Comunque, che c’è di strano se quella ragazza ti è rimasta in mente? Eravate giovani e spensierati; senza dubbio esisteva una inconfessata simpatia reciproca…
- Ma il punto è proprio questo: che non mi è rimasta affatto in mente, né allora, né poi. Al contrario: mi è entrata in mente adesso, all’improvviso; apparentemente senza alcun motivo…
- Ma il motivo c’è sempre, questo è certo. Vediamo: una canzone?
- Diavolo di donna! Come hai fatto a capirlo?
- Come ho fatto, come ho fatto; non ci voleva mica tanto a immaginarselo.
- Sì, l’aver risentito per caso una canzone che era uscita a quell’epoca, evidentemente.
-  Ne parli come di una deduzione, piuttosto che come di un ricordo.
- Sì, perché non seguivo la musica leggera; mi capitava di sentirla, più o meno per caso. Quindi, non sapevo né il titolo, né le parole precise, tranne il ritornello. Mi ero anzi sbagliato, perché me la ricordavo cantata da una voce maschile, che parlava di una donna; invece ho scoperto adesso, a tanti anni di distanza, che era cantata da una donna e parlava di un uomo…
- Ma perché questa canzone ti ha risvegliato quel ricordo? Voglio dire: perché proprio questa, e non un’altra, una qualsiasi altra che si sentiva all’epoca?
- Ci ho pensato, e l’unica spiegazione possibile è questa, per quanto strana: che in quel giorno, in quel momento, in quel luogo preciso, dovevo averla in testa, forse me la canticchiavo mentalmente; e così si è creata una connessione inscindibile fra quella canzone e quel ricordo.
- Una specie di riflesso condizionato, allora.
- Già; tuttavia mi chiedo se sia solo questo o se non ci sia, invece, molto di più.
- Che cosa vuoi dire?
- Vedi, io di quella canzone conoscevo, e perciò ricordavo, solo poche parole. Ma non erano quelle che mi hanno veramente colpito, l’altro giorno, quando ho risentito tutta la canzone e ho ascoltato con attenzione tutto il testo, per la prima volta. Mi ha colpito questa frase: «Vecchie strade da sempre perdute / e mai tentate / forse ritroverei…»
- Ah, ma la conosco! È «Solo lui», di Massimo Cantini e Franca Evangelisti. La lanciò Mina, nel 1974: così siamo risaliti all’anno preciso. Nella versione al femminile, la cantava Fausto Leali.
- Già: solo che non sapevo per niente che canzone fosse. Ti ripeto, mi ricordavo solo qualche parola; e mi sembrava che a cantarla fosse un uomo, per una donna…
- E perché quelle parole ti hanno così colpito?
- Perché sembrano un messaggio diretto a me. Sembra che siano venute fuori da un angolino dimenticato del mio passato per ricordarmi che io, a partire da quel momento, ho chiuso a chiave una parte di me, ho proseguito come se non l’avessi più, come se avessi buttato via la chiave. Ed è come se ora il mio Sé di tanti anni fa mi venisse incontro, come venne incontro a Goethe il suo doppio sulla strada di Francoforte, per ricordarmi che quella parte nascosta non è affatto scomparsa, è ancora viva e presente e chiede di uscire, chiede di venire alla luce e di vivere quella vita che io, allora, le ho negato. E ora non dirmi, per favore: da Goethe a Pirandello…
- Sì, un poco; ma non è solo questo. Perché non c’è niente di assurdo, in tutto ciò: ci deve essere un’ottima ragione se il tuo Sé di allora, anzi, se la tua parte dimenticata di allora si è presentata adesso alla tua porta, a chiedere di essere riconosciuta, di essere accolta….
- Deve essere proprio così. Ogni giorno, ogni minuto la vita ci parla, ci fa dei segnali, ci manda dei messaggi: è che noi non vi badiamo. O, se pure li cogliamo, stentiamo a interpretarli.
- Vediamo; la cosa si fa interessante. Poniamo che tu, dai diciotto anni in poi, abbia intrapreso una certa strada, che ti ha portato a sacrificare, ad ignorare una parte profonda di te: ora la vita ti manda a dire che devi fare i conti con essa, che non puoi seguitare a ignorarla; che devi integrarla nel tuo presente, se vuoi continuare ad evolvere, a progredire.
- Non ci avevo mai pensato, ma comincio a credere che sia proprio così.
- A che cosa non avevi mai pensato?
- Che avevo seppellito una parte vitale e legittima di me stesso.
- Lo facciamo tutti, non credere. L’importante è arrivare a capirlo; e meglio tardi che mai. Del resto, non è questione di “presto” o “tardi”: le cose arrivano quando è giunto il loro momento di arrivare; o, per dir meglio, quando noi siamo pronti per esse. Forse, quella parte di te si era nascosta per non essere spazzata via del tutto: si era nascosta in attesa di poter riemergere. Si vede che adesso tu sei pronto per questo, anche se, forse, non lo sapevi. È come se la vita ci presentasse le situazioni che non abbiamo saputo o voluto affrontare, una volta, dieci volte, mille volte, senza stancarsi: finché non siamo pronti. Lei, non ha fretta….
- Lei forse no; mai noi, frattanto, invecchiamo. Non è un po’ buffo che, a una certa età, ci venga ripresentata una situazione di quando eravamo tanto più giovani?
- Non è buffo: vuol dire che il momento è arrivato; e che, prima, non eravamo ancora pronti.
Rimango pensoso per qualche minuto, profondamente assorto. Finché la voce allegra di Sabina mi riscuote:
- Allora: state percorrendo quel viale alberato, con i raggi de sole che filtrano tra le chiome e il cielo azzurro spalancato su di voi, nel chiaro mattino… Hai detto che ti ricordi del punto preciso in cui eravate; ma che cosa vuol dire? Quale punto?
- All’incrocio di quel viale, che era una strada secondaria, con lo stradone principale. Eravamo fermi allo “stop”, piede a terra; e poi di nuovo avanti, questa volta sotto i platani del viale principale. E lì accanto c’era un “capitello” affrescato, una cappella del Settecento, formata da un corpo centrale e da due edicole laterali.
- Esiste ancora?
- Sì. Il paesaggio all’intorno, però, è diventato quasi irriconoscibile. Hanno costruito uno svincolo stradale fiancheggiato da altissimi guard-rail, che sembra la rampa di lancio di una base spaziale; una delle due file di platani del viale secondario è stata tagliata interamente, per allargare la sede stradale; la vecchia casa colonica, con lo spaccio di tabaccaio dove andavo a comprarmi le sigarette, le mie amate «Diana», cade ormai in rovina; e, per completare il quadro, il traffico è aumentato enormemente, specialmente quello pesante. Insomma,  questi trent’anni e più di “progresso” non sono passati certo in punta di piedi. Solo il “capitello” è ancora al suo posto come allora, ma talmente assediato dal cemento e dalle lamiere, che tutta la sua bellezza è svanita: a stento si riesce a vederlo dietro quella barriera artificiale.
- Ma parlami di quel punto in cui vi siete fermati, per un attimo, con le biciclette. Di che cosa parlavate tu e… come si chiamava?
- Non lo so proprio; e forse non lo sapevo nemmeno allora. Non era una mia amica, la vedevo ogni tanto e quell’unica volta, pedalando  fianco a fianco, abbiamo scambiato qualche parola, così, come possono fare due ragazzi che condividono lo stesso tratto di strada.
- Com’era fisicamente?
- Biondina, credo. Un tipo fine, riservato. Una bellezza non vistosa. Portava gli occhiali con la montatura dorata, sottile. E il fazzoletto in testa, se ricordo bene, per proteggersi dal Sole. Oggi non si vedono più le ragazze con il fazzoletto in testa, se non al mare; i giovani sono diventati schiavi della moda. Ma allora si badava alla praticità, più che all’eleganza: almeno in campagna.
- E di che cosa parlavate?
- Non me lo ricordo; del più e del meno. Credo che lei enumerasse tutti i vigneti del signor conte e io devo aver fatto un commento ironico; in effetti, anche a me sembrava buffa la cosa, nel tardo ventesimo secolo.
- Tutto qui?
- Tutto qui.
- Niente dichiarazioni d’amore, insomma?
- Ma figurati! Non se ne parla proprio!
- E perché mai: forse non ti piaceva?
- Oddio, era carina… e simpatica.
- Eri timido?
- Ma tu credi che io facessi la corte a tutte le ragazze con cui mi capitava di parlare?
- No, mi par di vederti… Non vedevi l’ora di finire le tue otto ore di lavoro per tornare a casa e buttarti sui libri, come un affamato che non mangia da tre giorni.
- Però, la sai una cosa strana? Mi è venuto in mente adesso - adesso, capisci? -  che a quella ragazza dovevo interessare. Nessun particolare preciso; ma una sensazione… Ma è assurdo! Una sensazione che riesco a decifrare a così tanti anni di distanza…
- Ecco, ci sei arrivato.
- Arrivato dove?
- Questo, forse, è ciò che quel ricordo improvviso, quel “flash” che si è acceso tutto ad un tratto nella tua memoria, ti voleva dire. Voleva farti decifrare una sensazione che, lì per lì, ti era sfuggita.
- E a che scopo, ormai? Chissà che fine ha fatto quella ragazza… Non me la ricordo nemmeno bene, forse non la riconoscerei neppure se la rivedessi com’era allora… E poi, non si può mica dire alla vita:”Fermati, per piacere, devo tornare indietro di qualche anno o di qualche decennio, perché ho dimenticato qualcosa, ho dei conti da chiudere con la mia parte dimenticata…”
- Quei conti li puoi chiudere lo stesso: ma non tornando indietro, bensì andando avanti.
- Che cosa vuoi dire?
- Quello che ho detto. Non possiamo tornare indietro, ma possiamo andare avanti, resi però più consapevoli dall’aver preso atto di quella nostra parte di allora, così a lungo trascurata. Che c’è, ti sembra impossibile? Ti vedo di nuovo pensoso e quasi rannuvolato…
- Come può ritornare la giovinezza? Come possono ritornare le cose, le persone e le situazioni di un tempo? Come possiamo riprenderci le cose che non abbiamo capito, le gioie che non abbiamo colto, le verità che abbiamo trascurato, per ignoranza o per mille altre ragioni?
- Possono ritornare, ma in forma diversa: tutto sta a saperle riconoscere. A non essere ancora distratti, ancora incapaci di vederle, come lo siamo stati un tempo.
- Ma proprio le stesse situazioni, le stesse persone? Oppure vuoi dire delle altre, ma analoghe?
- Questi benedetti uomini che devono sempre razionalizzare, razionalizzare tutto, fino a spaccare il capello in quattro. Che te ne importa se sono le stesse o se assomigliano loro soltanto? Quello che conta è il loro messaggio, quello che annunciano alla nostra consapevolezza….
- Ora che mi ci fai pensare, lo sai che in te c’è una vaga rassomiglianza con quella ragazza della vendemmia…
- Visto?
- E c’è un’altra cosa, ancora più sconcertante. Sai quel posto dove siamo stati a passeggiare la settimana scorsa, dietro quel folto di salici, in riva al fiume? Be’, non ci crederai - nemmeno io volevo crederci, quando mi è venuto in mente - ma sarà a non più di qualche centinaio di metri di distanza, in linea d’aria, da quell’incrocio e da quel capitello: ossia dal punto esatto del mio ricordo. E sei stata tu a suggerirmi di andare da quella parte, in un certo senso.
Sabina mi guarda e sorride, questa volta in un modo veramente strano; è come se nei suoi occhi balenasse una luce indecifrabile, arrivata da lontano.
È assurdo: tuttavia, per un momento, mi folgora l’idea che lei sia emersa, chi sa come, da quel mio passato, per aiutarmi a chiudere il cerchio rimasto aperto.
Provo una sensazione stranissima, come di sdoppiamento: sono nel presente, ma anche nel passato; o meglio: non esistono più né passato, né presente, ma c’è solo una consapevolezza essenziale e atemporale, che ingoia come privi di rilevanza tutti i contorni ben definiti.
A questo punto, assumendo la sua tipica aria sbarazzina, Sabina comincia a canticchiare, con la sua bella voce profonda:
- Vecchie strade da sempre perdute / e mai tentate / forse ritroverei…
- Di’ un po’, non è che per caso tu saresti una strega? Sai, una di quelle donne dotate di poteri strani, che possono viaggiare al di là delle barriere dello spazio e del tempo, non dico a cavallo di una scopa, ma quasi? Mi viene in mente che, pur conoscendoti da parecchio tempo, in fondo so così poche cose di te…
- E tu, chi vorresti che io fossi? -, mi chiede a sua volta, con un sorriso ancora più malizioso del solito e mostrando la chiostra dei denti bianchi, mentre gli occhi le brillano, proprio come quelli di una strega…
O di una fata.