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Un arco di pace per il rilancio dell’architettura italiana

di Nikos A. Salìngaros - 11/02/2010

 

Gli italiani sono favorevoli alla realizzazione del progetto di Adalberto Libera del ’40. Hanno capito che le opere non sono da condannare solo perché fasciste. E sono stufi delle archistar.

Un recente sondaggio de Il Sole 24 Ore sul monumento ai caduti per la pace ha mostrato l’inatteso: a maggioranza, l’Italia vuole costruire l’Arco di Adalberto Libera. Si tratta di una grande sorpresa per tutti. L’avere, da parte mia, lanciato l’idea era stato solo, fino a poche settimane fa, un discorso teorico inteso a rivalutare l’architettura del Movimento Italico, la cui massima espressione è offerta appunto dall’EUR. Il dibattito che ne è seguito ha visto esprimersi opinioni molteplici, dimostrando che, finalmente, l’ombra del passato politico è stata disgiunta dal grande valore architettonico di quel progetto. A questo punto, però, tutto cambia. Non è più in questione se osare parlare dell’Arco nonostante le dubbie accuse — politiche, storiche e ideologiche — trascinategli contro per settant’anni, ma piuttosto se si possa pensarne la costruzione, e l’interlocutore diventa perciò Cristiano Rosponi, il Presidente della Fondazione CESAR, il Centro Studi per l’Architettura Razionalista. Una squadra di progettisti sta infatti colà sviluppando il modello per costruire l’Arco con le tecnologie attuali.

Progetto concreto.
Così, se finora molti critici dell’Arco hanno dato per scontato che si trattasse di un progetto meramente teorico, criticandolo come idea e non come possibile realizzazione fisica nell’urbanistica romana, un sussulto li attende: perché sì, il progetto è realizzabile, e si trova già a uno stadio piuttosto avanzato.
A ciò si aggiunga il tema del simbolismo dell’Arco. Libera ne pubblicò il disegno nel 1940. Un arco dalla base più stretta in proporzione venne costruito tra il 1961 e il 1966 a Saint Louis, Missouri, su progetto di Eero Saarinen, che vinse l’appalto nel 1947. I doppi archi della catena di ristoranti McDonald’s comparvero per la prima volta nel 1953 in un ristorante di Phoenix, Arizona (gli archi di McDonald’s sono parabole, mentre quello di Libera è un semicerchio, e quello di Saarinen una catenaria). Sia il Gateway Arch of St. Louis di Saarinen che il marchio di McDonald’s divennero entrambi fieri simboli nazionali degli Stati Uniti, Paese sommamente democratico. Saarinen conseguì la Medaglia d’Oro dell’Istituto degli Architetti Americani (AIA), conferita postuma nel 1962, e il suo progetto vinse il premio “25 Anni” della AIA nel 1990. Non credo che gli italiani pensino all’EUR del 1942 e al regime di allora, mentre stanno per mordere un succulento Big Mac.
Da qui due idee importantissime: che un’opera di autentico valore architettonico possa servire come monumento ai caduti per la pace, e che l’EUR possa con esso trasformarsi in un soggetto di rilancio turistico. L’Arco viene insomma a rappresentare tutt’altro, nel senso politico e filosofico, di quanto originalmente pensato dallo stesso Libera: un monumento alla pace, disegnato architettonicamente da Libera, del quale noi contemporanei attualizziamo la realizzazione in senso tecnico, significativo, e funzionale.
Da parte mia potrei partecipare occupandomi degli spazi urbani ai due piedi del monumento. È bene infatti che, qualunque sia il monumento eventualmente costruito, esso venga realizzato in uno spazio urbano, o sia in se stesso uno spazio urbano vivo. Nonostante molti progettisti sostengano di volere proprio ciò, non vi è garanzia alcuna che essi sappiano come progettare un luogo vivo. Da certe affermazioni, anzi, è chiaro che non comprendono le regole basilari dell’urbanistica, determinate dalle forze di movimento e dal campo dell’informazione. L’utilizzo di uno spazio urbano è influenzato maggiormente della rete dei movimenti pedonali attorno alla piazza, e dalle attività socio-geometriche fino a tre o quattro isolati in tutte le direzioni. Ogni inserimento urbano risulterà trasformato da quelle forze. È ingenuo immaginare di poter imporre una visione astratta sul campo. Non comprendere tutto ciò risulta in un fallimento, uno spazio morto, del tutto vuoto.
Il risultato del sondaggio per l’Arco ha anche un’altra interpretazione, come un referendum contro la tendenza nichilistica dell’architettura contemporanea, lo stile assurdo e banale promosso dai media, che marginalizza l’Italia e la sua creatività. L’elite intellettuale che finanzia l’architettura alla moda (una minoranza, ma mediaticamente assai rumorosa), si è rivoltata contro la propria eredità, e la popolazione lo avverte. Le idee più sciocche e farraginose importate dal mondo dell’avanguardia artistica sono state fatte assurgere a modello per le costruzioni su scala architettonica e urbana, e il risultato è disastroso. Le installazioni artistiche possono essere ridicole quanto uno desidera, ma alla conclusione dell’esposizione vengono gettate via. Non è così per le costruzioni o gli strani spazi aperti che fingono di essere luoghi urbani, perché essi continueranno a danneggiare l’ambiente per decenni.
La nomenclatura architettonica in realtà mostra diversi segni di nervosismo, perché sa di stare perdendo il controllo stilistico che fino a ieri era assoluto. Così reagisce aggredendo. L’avanguardia è defunta da un pezzo sotto l’assenza di forma e significato, ma sperando che una tattica sporca funzioni ancora per difendere e nascondere un vuoto intellettuale che dura da più di settant’anni, vecchi gerarchi continuano a levare le solite accuse assurde di “passatismo”. I tempi però sono cambiati, le munizioni sono scariche, la polvere bagnata. Oggi si costruiscono edifici davvero nuovi con un linguaggio umano (prenda esso corpo in uno stile tradizionale o innovativo), sostenibile e biofilico. Non si legge di questi successi nella stampa, prona verso gli esotici (e patetici) guru dei criteri dell’arte, precisamente perché imbarazzano le “star”.
Per diventare di nuovo un paese grande, l’Italia deve credere in se stessa. È assurdo chiedere agli stranieri di stabilire norme estetiche per una cultura che annovera oltre due millenni di dirigenza nella progettazione e nell’arte. La classe intellettuale italiana che ha aperto i cancelli a progetti fondamentalmente non adattabili alla realtà italiana ha dimenticato come giudicare tra il bello, il brutto e il cattivo. Concedere in nome di un generico stile internazionale la precedenza quasi esclusiva ad architetti stranieri (e di poco talento) sminuisce la creatività italiana.

Problemi politici.
Alla fine dei conti, la questione è politica e non estetica. Due tendenze si mescolano nel comportamento politico attuale verso l’architettura (e senza differenze tra destra e sinistra): ossequio verso gli architetti di “tendenza”; e amnesia — o almeno una memoria molto “selettiva” — verso il proprio patrimonio architettonico e culturale. La prima tendenza conduce al disgustoso spettacolo di una politica che in ginocchio implora un architetto megalomane, ebbro di superbia, affinché cambi almeno un po’ il proprio progetto, visto che i profani lo trovano repellente; e quello risponde con uno schiaffo. Nessuno osa abbattere o almeno modificare le brutture. La seconda tendenza seppellisce tutta l’architettura “politicamente scorretta” che non trova grazia presso la nomenclatura ideologica. Il politico trema all’idea di venir pubblicamente bollato come «retrogrado», e tace timidamente. L’Italia oggi ha invece un estremo bisogno di politici i quali credano nella propria storia, nelle splendide realizzazioni nazionali condivise (che non sono soltanto quelle unte da un’auto-proclamata elite esterofila), e mostrino il coraggio di rappresentare il cuore e l’anima del popolo. È il momento di una nuova generazione di amministratori capaci di dar voce alla vera cultura, liberi dalla nomenclatura architettonica. La novità è che ora gli elettori hanno sviluppato sensibilità e consapevolezza, e questo favorirà i rappresentanti capaci di assumersi la responsabilità di una cultura viva e autentica, purché riescano a comunicare la seria intenzione di promuoverla.