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Iran, sanzioni e business

di Michele Paris - 11/02/2010

I messaggi apparentemente contraddittori provenienti da Teheran negli ultimi giorni, riguardo il proprio programma nucleare, hanno contribuito all’ennesimo inasprimento dei toni in Occidente nei confronti della Repubblica Islamica. L’annuncio del presidente Ahmadinejad dell’inizio delle operazioni per arricchire l’uranio iraniano fino ad un livello del 20% per scopi medici, ha fornito l’occasione alla Casa Bianca e al Pentagono di lanciare un nuovo appello per l’adozione in tempi rapidi di pesanti sanzioni economiche. Un’iniziativa che ha trovato immediato accoglimento tra gli alleati di Washington - tra cui l’Italia, dopo l’assalto-farsa alla nostra ambasciata a Teheran - e la Russia, ma che continua ad incontrare la ferma resistenza di Pechino.

Lo scorso autunno, l’Iran e i paesi del cosiddetto P5+1 (i membri del Consiglio di Sicurezza ONU più la Germania), con la benedizione dell’Agenzia Internazionale per l’Energia Atomica (IAEA), avevano siglato un fragile accordo per l’invio dell’uranio di Teheran all’estero (in Francia o in Russia) per essere arricchito fino al livello utile per alimentare un reattore da impiegare appunto a scopi scientifici. L’amministrazione Obama aveva fissato la fine del 2009 come scadenza ultima per l’accettazione dei termini dell’intesa da parte iraniana.

Condizionato dalle vicende interne, il governo di Ahmadinejad da allora ha inviato segnali contrastanti, mentre le aperture indirizzate all’Occidente sono quasi sempre rimaste inascoltate. Gli USA hanno tuttavia rimandato la proposta di adottare nuove sanzioni, attendendo il mese di febbraio, all’inizio del quale la presidenza del Consiglio di Sicurezza dell’ONU è passata dalla Cina alla Francia. Da Parigi, infatti, è arrivata la pronta risposta al richiamo americano per bocca dei ministri della Difesa, Hervé Morin, e degli Esteri, Bernard Kouchner, ma anche dello stesso Presidente, Nicolas Sarkozy. L’impazienza mostrata poi dal numero uno della Difesa americana, Robert Gates, coincide col desiderio di adottare misure concrete prima del trasferimento della presidenza dalla Francia al Gabon il prossimo mese di marzo.

Le minacce occidentali sono state puntualmente amplificate dalla gran parte dei media americani, israeliani ed europei, ben disposti ad accusare l’Iran di voler precipitare gli eventi e di muoversi in maniera irreversibile verso la realizzazione di armi nucleari. Accuse che i vertici della Repubblica Islamica ha sempre smentito, appellandosi al diritto di sviluppare il nucleare per scopi pacifici in quanto firmataria del Trattato di Non Proliferazione (NPT). Le attuali riserve di uranio di Teheran sono arricchite fino a circa il 4%, mentre il livello di arricchimento per l’impiego in armi nucleari deve essere pari almeno al 90%.

Mentre gli Stati Uniti hanno ufficialmente appoggiato l’accordo promosso dalla IAIEA, il loro atteggiamento nei confronti di Teheran ha finito per rendere la prospettiva di un fallimento sempre più concreta. Quando Ahmadinejad, pur rimanendo disponibile all’invio dell’uranio all’estero, si è visto costretto a cambiare i termini del trattato stipulato a Vienna in seguito alle critiche ricevute da più parti, in un paese attraversato da divisioni e fermenti a partire dalle discusse elezioni della scorsa estate, Washington non ha voluto sentire ragioni. In questo modo, l’accettazione integrale dell’accordo sottoscritto con il gruppo P5+1 avrebbe esposto Ahmadinejad a nuove critiche sul fronte interno. Da qui la decisione obbligata di procedere con l’arricchimento dell’uranio in territorio iraniano.

Mentre la diplomazia statunitense sembra aver convinto la Russia ad appoggiare ulteriori sanzioni, la Cina, che possiede ugualmente il potere di veto all’interno del Consiglio di Sicurezza dell’ONU, continua al contrario a sostenere la necessità di trovare una soluzione diplomatica alla vicenda. Il Segretario di Stato americano, Hillary Clinton, ha infatti faticato a convincere il suo collega cinese, Yang Jiechi, qualche giorno fa a Londra del fatto che un Iran nucleare porrebbe una gravissima minaccia all’intera regione mediorientale.

Che un Iran dotato di ordigni nucleari, se anche questo fosse l’obiettivo del programma di Teheran, possa rappresentare un fattore destabilizzante, appare d’altra parte discutibile, se non nella misura in cui potrebbe provocare un’azione militare da parte di Israele per colpire le sue installazioni nucleari. Né a Pechino, in ogni caso, sembrano disposti a gettare alle ortiche relazioni commerciali che con l’Iran superano ormai i 35 miliardi di dollari. Da qualche tempo, la Cina ha scalzato l’Unione Europea come principale partner commerciale della Repubblica Islamica, la quale fornisce a Pechino l’11% del suo fabbisogno energetico. I suoi investimenti in Iran, poi, risultano di gran lunga superiori a quelli della Russia, soprattutto nel settore del gas e del petrolio.

Se la riluttanza della Cina risponde ai propri interessi, lo stesso può dirsi degli Stati Uniti. Le sanzioni proposte da Washington - che non ha praticamente alcun investimento o scambio commerciale con l’Iran - finiscono in definitiva per penalizzare proprio i suoi rivali asiatici ed europei, spesso anche alleati, che già fanno affari con Teheran. Con l’obiettivo ultimo del cambio di regime in Iran per giungere ad un governo plasmabile secondo i propri interessi e le proprie ambizioni di controllo in una regione ricca di risorse energetiche, come quella mediorientale e dell’Asia centrale.

La natura delle sanzioni proposte dagli USA, infatti, rivela un obiettivo chiaramente politico. Oltre al divieto di vendere petrolio raffinato all’Iran - il quale importa circa il 40% del carburante che consuma - vi sarebbero anche misure indirizzate a colpire i vastissimi interessi economici dei Guardiani della Rivoluzione Islamica, i quali rappresentano una delle colonne portanti del regime di Teheran.

Sulla questione del nucleare iraniano, dunque, l’amministrazione Obama non si trova più soltanto a doversi muovere - come ha messo in evidenza un recente editoriale del Wall Street Journal - tra un possibile avvicinamento (sia pure di facciata) al regime iraniano, la minaccia di sanzioni a quello stesso regime e l’appoggio alle opposizioni che lo combattono; ma anche a fronteggiare un nuovo fronte nella crescente rivalità con la Cina. Il tutto con l’ombra di un possibile conflitto militare, sullo sfondo, sostenuto soprattutto da Israele, che avrebbe conseguenze devastanti per l’intera regione.