Lo so che oggi è il giorno dedicato al ricordo delle foibe, e che i crimini commessi in nome di quella particolare forma di “antifascismo” gridano vendetta a Dio e agli uomini — mi rifiuto di riportare cifre, i conti della serva sulla pelle dei morti ammazzati mi hanno sempre fatto orrore.
Però non posso far finta di non sapere che all’indomani di Versailles, nel 1919, dopo cinque secoli di dominio austro-ungarico la Slovenia si trovò improvvisamente e suo malgrado catapultata in un nuovo (e non per questo migliore) assetto politico e culturale.
Ora, si sa che per una serie di motivi (distribuzione della popolazione, interessi delle potenze vincitrici, criteri geostrategici ed economici) i nuovi confini tracciati dal Trattato di Versailles non seguirono le naturali divisioni etniche come invece auspicato dai punti 9-12 enunciati da Wilson: e per quanto riguarda l’Italia la principale inosservanza del principio di autodeterminazione dei popoli si concretizzò nell’annessione al Regno d’Italia dell’attuale Alto Adige/Südtirol e di parte della Carniola, abitata da Sloveni.
Dopo l’annessione, con l’ascesa al potere del fascismo i nomi dei villaggi e delle cittadine austriaci e sloveni vennero tradotti, per così dire, in italiano (pratica comune e diffusa); e lo stesso avvenne coi cognomi slavi. Prese il via anche una campagna di repressione contro i nazionalisti jugoslavi, e l’ostilità strisciante fra le due etnie esplose in maniera conclamata durante la seconda guerra mondiale, all’indomani dell’invasione tedesca della Jugoslavia, nella primavera del 1941. Il Progetto di epurazione della città e provincia di Lubiana dagli elementi sovversivi del 3 giugno 1942, firmato dal generale Orlando, non lascia spazio a interpretazioni troppo peregrine; e al generale Roatta, che rimprovera ai suoi uomini di essere troppo clementi, fa eco il generale Robotti (comandante dell’XI Corpo d’armata), che in un “rapporto agli ufficiali” tenuto a Kocevje il 2 agosto 1942 dichiara: «Se occorre si fa anche il boia», e in una circolare dell’8 agosto 1942 ribadisce «Non si uccide abbastanza!».
Che in guerra si vada per uccidere è cosa nota: ma è innegabile che in Jugoslavia (e anche in Grecia e in Albania, e precedentemente anche in Etiopia) l’esercito italiano abbia commesso atti gravissimi. (Dico “esercito italiano”, lasciando da parte l’aggettivo “fascista”, perché gli alti gradi militari il Fascismo li ereditò dalla gestione precedente a base piemontese-sabauda, con tutti i guasti e le carenze del caso). Sarà anche per questo che verso la fine del conflitto, con Italia e Germania ormai in ginocchio, i partigiani comunisti di Tito misero gli alleati angloamericani di fronte al fatto compiuto: l’espulsione della popolazione italiana, che abitava il territorio da molto prima che venisse ratificato il Trattato di Versailles e invasa la Jugoslavia; e l’uccisione, con modalità atroci, di parecchie migliaia di civili italiani, non tutti necessariamente “fascisti”.
I motivi per cui quella delle foibe è rimasta a lungo una pagina misconosciuta della storia del XX secolo sono talmente ovvii che risulta imbarazzante parlarne: prova ne sia che ancora adesso a ricordarla si passa per pericolosi revisionisti — come se la Storia non fosse essa stessa una perenne revisione… ma questo è un altro discorso che mi (ci?) porterebbe assai lontano.
Vale la pena, invece, ricordare questo: che per i crimini di guerra commessi nel corso del secondo conflitto mondiale furono accusati sia il generale Pietro Badoglio sia l’esecrabile Rodolfo Graziani, i quali non subirono mai un processo — di più: i generali Roatta, Badoglio, Pirzio Biroli e Graziani, artefici a vario titolo della tragedia che travolse i civili italiani fra il 1943 e il 1945 (e pure oltre), ebbero il bene di morire tutti di vecchiaia e nei loro letti, invece di finire appesi magari per i piedi. Loro sì, che l’avrebbero meritato.