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Uscire da Yalta!

di Cambronne - 14/02/2010


Le premesse storico-ideologiche dell’oblio dell’Europa


L’Europa ha celebrato da appena qualche mese il ventesimo anniversario del crollo del muro di Berlino e l’occasione è stata colta dai commentatori politici e dagli storici (o improvvisati tali) per riproporre le ennesime riflessioni su comunismo e anticomunismo, crisi del sistema sociale welfaristico dell’occidente e contemporanea crisi del modello economico liberista o per dibattere su quale sia il beneficiario ultimo del collasso del polo socialista sovietico, se il capitalismo, la democrazia, i diritti umani, la società civile, i paesi del “sud del Mondo” o le organizzazioni criminali internazionali (siano esse terroristiche o mafiose che siano), più libere di muoversi in un mondo reso liquido e instabile dal collasso dell’ “ordine di Yalta”.

Poco o nulla è stato accennato in Italia, almeno sui media mainstream (tanto di destra che di sinistra), riguardo al problema politico aperto dal collasso fra il 1989 e il 1991 del campo socialista, secondo polo dell’ordinamento politico deciso a Yalta e Potsdam dai vincitori della Seconda Guerra Mondiale, in realtà soprattutto dai due principali beneficiari geopolitici e ideologici dell’immane conflitto, e cioè gli Stati Uniti d’America e l’Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche.

Il dato più interessante, ai fini di un discorso politico sull’Europa, del mondo bipolare durato dal 1945 al 1989 non è tanto la contrapposizione fra due modelli economici prima che politici ma il sostanziale oblio dell’Europa, ridotta a potenziale campo di battaglia della Guerra Fredda.

La perdita di sovranità europea non fu solo politica e militare ma anche ideologica, come evidenzia il dibattito storico e filosofico sul nazional-socialismo e sui fascismi in generale impostosi in Europa.

Se per la storiografia sovietica e comunista “ortodossa” il fenomeno dei fascismi fu il risultato dell’azione politica dei “settori più reazionari del capitale” (definizione del leader del Comintern, il bulgaro Georgij Dimitrov, adottata da tutti i partiti comunisti) fu dagli Stati Uniti che venne l’analisi più articolata e ideologicamente più densa di significati e di conseguenze politiche del complesso fenomeno dei fascismi europei.

Furono gli ambienti dell’intelligentija americana legata alla Scuola di Francoforte, i cui principali esponenti come Marcuse, Horkheimer e Adorno si stabilirono oltreoceano all’avvento al potere di Hitler, che diffusero e resero popolare la tesi secondo la quale fascismo e nazional-socialismo non furono esperienze politiche legate a precisi contesti politici ed economici ma furono lo sbocco logico e quasi inevitabile di una secolare cultura europea nella quale l’individuo viveva “alienato” e costretto in strutture statali e sociali patriarcali e autoritarie che ne castravano lo sviluppo, portando all’affermazione di una “personalità autoritaria” incline a sostenere regimi o movimenti fascisti.

L’adozione e la popolarizzazione verso la seconda metà degli anni ’60 del secolo scorso di questa interpretazione totalizzante dell’esperienza fascista e nazional-socialista non si fermò al semplice livello storiografico e/o filosofico, ma ebbe ripercussioni politiche che andarono ben oltre il mero antifascismo; negli anni ‘60/’70 a finire sotto le forche caudine dell’accusa di “fascismo” furono anche personaggi dall’inappuntabile pedigree politico di lotta antifascista e antinazista, come il Generale Charles De Gaulle, non a caso attaccato duramente dai manifestanti del ’68 francese proprio nel momento in cui stava impostando una politica estera di vicinanza al mondo arabo e di pragmatismo nei confronti dell’Unione Sovietica.

Nel lungo dopoguerra, e specialmente in Italia e Germania, qualsiasi accenno da parte di politici europei a sentimenti di “patriottismo” (per non parlare di “nazionalismo”), anche moderato e rigorosamente democratico-antifascista, venne visto come recante in grembo l’embrione di un deprecabile fascismo di ritorno e le uniche chances di rinascita europea potevano essere pensabili solamente presupponendo l’inglobamento del continente nel più vasto alveo delle nazioni “socialiste” o nel contesto di un “mondo libero” guidato dalla potenza liberal-democratica e capitalista americana.

In Italia l’oblio della questione dell’indipendenza politica nazionale ed europea è ben rappresentato anche dalle posizioni dei due partiti di massa più ideologizzati (almeno nelle intenzioni) dell’arco parlamentare: il Movimento Sociale Italiano di Giorgio Almirante e sopratutto il Partito Comunista Italiano di Enrico Berlinguer.

Il MSI almirantiano, a differenza di organizzazioni minori alla sua destra, continuò a declinare la propria identità politica in senso più genericamente anticomunista e filo-atlantista che realmente nazionale e sovranista, come ci si potrebbe aspettare da un partito nazionalista di destra, mentre ancor più confuso e problematico si rivelò il molto mitizzato “eurocomunismo” lanciato dal segretario comunista Berlinguer nella seconda metà degli anni ’70, che merita qui un discorso più approfondito.

L’ “eurocomunismo” berlingueriano, che ora viene presentato come prova del sincero europeismo dei comunisti del PCI e dei post-comunisti PDS-DS-PD, concepiva l’Europa soprattutto come uno spazio neutrale/neutralizzato e disarmato (“né anti-americano né anti-sovietico” come usava ripetere Berlinguer) sul quale ricostruire una nuova concordia fra i due blocchi, ovviamente cementata da un rinnovato antifascismo senza più “veri” fascisti da combattere ma legato intimamente alla destrutturazione dell’economia e delle “arretrate” società europee, come testimoniato dall’apertura del PCI a istanze femministe radicali (altra cosa dalla battaglia per la difesa dei diritti delle donne), genderiste (gay, lesbiche e transgender), neo-pauperiste, e ambientaliste-decresciste, fino ad allora viste con grande sospetto dalla vecchia guardia togliattiana e amendoliana.

L’”eurocomunismo” tendeva così non già al superamento dei due blocchi, ma ad una loro utopica integrazione pacifica, senza mai affrontare realmente il nodo della costituzione di un autonomo polo politico e militare europeo, in grado di interloquire paritariamente fra Mosca e Washington.

Dal punto di vista della politica europea l’ “eurocomunismo” rappresentò quindi più di un passo indietro rispetto alle proposte di “Europa dall’Atlantico agli Urali” lanciate da un De Gaulle o anche rispetto a un semplice neutralismo “alla finlandese”, tendenzialmente filo-sovietico ma che per lo meno fu un mezzo pragmatico per difendere gli interessi e l’indipendenza nazionale di un piccolo paese che voleva evitare a tutti i costi un’altra guerra con Mosca, dopo quelle del 1939-1940 e del 1941-1945, e un destino da “Repubblica Popolare” completamente sovietizzata.

L’ “eurocomunismo” servì sicuramente al gruppo dirigente berlingueriano e poi occhettiano per accreditarsi agli occhi degli Stati Uniti senza recidere del tutto il cordone ombelicale con l’URSS, ma contribuì non poco a eludere il problema politico dell’oblio dell’Europa.

All’ambiguo “eurocomunismo” si aggiunse la cosiddetta “questione morale”, uno slogan berlingueriano che postulava la superiorità “morale” del PCI rispetto a tutti partiti di governo, per definizione corrotti e collusi con vere o presunte mene reazionarie e/o golpiste (scandalo De Lorenzo, golpe Borghese, Loggia P2); l’insistenza sulla “questione morale” solleticava i sentimenti anti-apparato del popolo italiano senza però spiegare come il minor coinvolgimento del PCI in episodi discutibili e poco chiari fosse una conseguenza più dell’esclusione dello stesso dal governo del paese che di una reale superiorità morale.

La “questione morale” ebbe conseguenze negative sulla tenuta politica del paese, poiché contribuì a rafforzare nell’opinione pubblica un sentimento di cronica sfiducia nei confronti della direzione politica del Paese, costantemente sospettata di disonestà, di corruzione o di celare innominabili doppi fini politici e personali.

In Italia comunque bisognò attendere fino agli inizi degli anni ’80 perché il socialista riformista Craxi, non a caso vicino al socialista “gaullista” francese François Mitterrand, recuperasse e riattualizzasse il patriottismo risorgimentale e neo-garibaldino, rilanciando contemporaneamente la questione della sovranità nazionale (pur rimanendo all’interno di un contesto solidamente atlantico come dimostrò la questione degli “Euromissili”), culminata con l’incidente di Sigonella del 1986. Contemporaneamente, negli anni ’80, governi come il già citato Craxi, quello francese di Mitterrand e quello tedesco del cristiano-democratico Helmut Kohl impostavano le basi per un Unione Europea che fosse non solo uno spazio di libero scambio economico politicamente neutralizzato ma un vero e proprio attore geopolitico internazionale, in grado di gestire sfide quali l’imminente processo di disgregazione del blocco socialista e della stessa Unione Sovietica.

Viste queste premesse non è difficile comprendere come fra le attuali forze politiche italiane maggiormente impegnate nelle critiche alla (pur timidissima) politica estera autonoma di Silvio Berlusconi vi siano non pochi eredi del PCI berlingueriano-occhettiano, oggi confluiti nel PD o addirittura rimasti nelle varie formazioni politiche dell’arcipelago neo-comunista (Rifondazione, Comunisti Italiani, Sinistra e Libertà e simili).

Infatti, secondo l’opposizione, se oggi Silvio Berlusconi apre alla Russia di Putin o ricuce i rapporti con la Libia è solo per presunte simpatie autoritarie (mentre il discorso non vale per i passati viaggi dei vertici PCI in URSS o per i contratti di insegnamento di Romano Prodi in Cina) o per affari personali, anche se nessuna delle grandi imprese italiane coinvolte nei maxi contratti italo-russi o italo-libici (ENI, Finmeccanica, ENEL, Trenitalia, Unicredit) è di proprietà di Berlusconi o ha quest’ultimo come azionista (almeno di maggioranza).

Il crollo di uno dei pilastri dell’ordine di Yalta, avvenuto fra il 1989 e il 1991, quello “socialista”, creò le precondizioni per il ritorno di una grande politica europea che tuttavia non si è ancora sviluppata secondo le proprie potenzialità, e questo come vedremo per ragioni forse più interne all’Europa che per costrizioni esterne.



1989-2009: il mancato risveglio

 

Se da vent’anni appunto è collassata una delle colonne del bipolarismo l’Europa non sembra essere del tutto uscita da quell’oblio politico alla quale fu consegnata durante la Guerra Fredda, e questo nonostante le premesse per una tale uscita ci siano.

Gli anni ’90 del secolo scorso hanno visto succedersi iniziative politiche europee autonomiste, come l’unificazione tedesca e il consolidamento dell’asse franco-germano-russo culminato con il rifiuto congiunto delle tre capitali di partecipare alla guerra contro l’Iraq del 2003, e disastrosi cedimenti, come l’incapacità europea di gestire i conflitti balcanici, risolti solo dall’intervento americano e con risultati certamente non favorevoli agli interessi europei.

Il collasso del comunismo, il lento ma inesorabile declino della potenza americana e l’emergere di nuovi poli di potenza extra europei (Cina, India e Brasile, visto che la Russia è una parte seppur eurasiatica della civiltà europea) hanno certamente consentito ai principali attori europei (Germania, Francia e Italia i primis) una certa autonomia di manovra in politica estera, come testimoniano il consolidarsi dell’asse germano-russo e italo-russo, entrambi volani del necessario riavvicinamento euro-russo.

La ritrovata autonomia di alcuni governi europei sfortunatamente non sembra essersi ancora tradotta in una cosciente riaffermazione di una volontà politica europea, ancora surrogata e mistificata da una retorica europeista che non cessa di concepire l’unione continentale come un mero spazio economico, amministrativo e normativistico politicamente neutralizzato e privo di una qualsivoglia identità, intesa sopratutto come progettualità e volontà di essere qualcosa che stanno alla base di ogni unità politica umana.

La questione dei rapporti euro-russi ad esempio, e in subordine dei rapporti italo-russi, è un’ottima cartina al tornasole per valutare le contraddizioni di un’Europa che comincia a muoversi da sola ma che ancora non ha una precisa coscienza di sé.

Che l’Europa e la Russia debbano collaborare è un imperativo geopolitico fondamentale per chi abbia a cuore la sopravvivenza del nostro continente come attore politico: solo unendo l’Europa centro-occidentale all’immenso retroterra russo-siberiano si può sperare di tenere il passo alla crescita politica, ancor prima che economica, di colossi extra-europei e inoltre non è pensabile che una popolazione russa affine a quelle europee per etnia, lingua e religione rimanga separata dal resto del continente.

Ebbene, di fronte alla questione euro-russa i commentatori politici nostrani esulano dal sottolinearne gli aspetti politici per concentrarsi su quelli etico-moralistici o grettamente economici.

Così gli opinionisti di area “liberal” (inteso qui nell’accezione americana di “progressista”) condizionano l’avvicinamento euro-russo al rispetto dei “diritti umani”, implicando così che qualsivoglia paese che li rispetti potrebbe in linea teorica considerarsi europeo, mentre quelli di area governativa di centro-destra (a parte alcune eccezioni) esaltano l’amicizia fra Putin e Berlusconi ma sopratutto perché serve a “tenere buoni i nostri fornitori di gas”, quasi come fosse una riedizione della politica estera della DC, che pur professando e praticando l’atlantismo si concedeva, grazie ai buoni uffici del PCI, qualche lucroso affare con il “nemico” sovietico.

Ben pochi parlano della necessità di creare un grande spazio europeo aperto ad oriente e in grado di interloquire alla pari con altri poli di potenza mondiali che la dimensione politica non l’hanno certo occultata.

L’occultamento della politica europea è stato reso palese da come, negli anni ’90, sono stati commentati i sanguinosi conflitti balcanici, presentati al grande pubblico non già come guerre fra interessi geopolitici contrastanti (la Croazia e la Slovenia aiutate da Tedeschi e Vaticano, i serbi da Russia e Francia e i musulmani bosniaci e kosovari da americani e sauditi) ma esclusivamente come il ritorno all’eterno male europeo dei nazionalismi “fascisti”, ignorando, o volendo ignorare, che le leadership politiche delle varie parti erano figlie legittime dei locali apparati comunisti (il croato Franjio Tudjman era un ex-ufficiale partigiano titino) e non di qualche eterno nazifascismo di ritorno.

L’Europa, una volta liberata dalle costrizioni della Guerra Fredda, non riuscì a decollare come blocco politico autonomo, e anzi proprio negli anni ’90 si assistette alla paradossale liquidazione politica delle stesse leadership che nel decennio precedente avevano gettato le basi per una possibile rinascita politica continentale: siamo stati così testimoni della tragica farsa di “tangentopoli” in Italia (una falsa “rivoluzione” che spazzò via una classe dirigente senza per questo risolvere il problema del finanziamento ai partiti), di analoghi scandali di “corruzione” in Germania, rivolti soprattutto contro la figura di Helmut Kohl, e della demolizione mediatica di François Mitterrand, di cui si vollero riportare alla luce, a 50 anni dalla fine della guerra mondiale, le giovanili simpatie peteainiste, un accanimento che mise in seria difficoltà l’anziano presidente socialista francese.

Come accennato in precedenza nell’Italia del dopo guerra fredda, e del dopo “tangentopoli”, furono soprattutto gli eredi del PCI berlingueriano, tempestivamente trasformatosi in PDS all’indomani del crollo del muro di Berlino, a farsi continuatori delle logiche di Yalta pur non esistendo più le condizioni materiali che sottendevano all’ordine bipolare.

I quadri dirigenti provenienti dal vecchio PCI, del tutto privi di esperienza politica nazionale (che non fosse limitata quindi alle amministrazioni locali e regionali), vinsero le elezioni del 1996 e governarono fino al 2001, un quinquennio durante il quale, a fronte di una rinnovata retorica europeista, l’Italia fu testimone delle ennesime violazioni della propria sovranità e dei propri interessi nazionali.

Gli anni del governo post-comunista “ulivista” (PDS+Popolari+Rifondazione Comunista) furono gli anni della scandalosa gestione dell’incidente del Cermis (la funivia del Trentino fatta precipitare da un aereo americano e i cui piloti rimangono tuttora impuniti) e della partecipazione italiana alla guerra “umanitaria”, nonché illegale dal punto di vista del diritto internazionale, contro la Serbia socialista di Milosevic e a fianco della narco-guerriglia kosovara, due eventi che gettano ben più di un’ombra sull’ “europeismo” e sull’attenzione agli interessi nazionali dell’elite politica post-comunista italiana.

L’attuale schieramento internazionale degli ex-comunisti, fino all’89 ufficialmente filo-sovietici (sebbene con qualche ambiguo distinguo) e dagli anni ’90 allineati alle scelte americane (fino al quasi macchiettistico “obamismo” veltroniano), non è semplicemente spiegabile con un “voltafaccia” o con un “tradimento” delle precedenti posizioni, ma è la logica conseguenza del sopracitato discorso neutralizzante e antipolitico che si fece strada nel PCI almeno dalla metà degli anni ’70.

L’Europa invocata da Berlinguer doveva essere “né anti-sovietica né anti-americana”, e quindi di fatto condizionata tanto da Mosca che da Washington, quella dei suoi eredi deve essere allineata alla NATO, anche se mai esplicitamente e chiaramente (facendo magari intendere al residuo antiamericanismo dell’elettorato di sinistra che i veri atlantisti “amerikani” rimangono “a destra”), priva di una qualsivoglia identità, sia essa religiosa o culturale, e aperta a flussi migratori incontrollati e a rivendicazioni di minoranze di qualsiasi tipo, siano esse etno-religiose, culturali o persino sessuali.


Conclusioni: ritornare alla dimensione politica


L’Europa non uscirà dalla propria crisi né spoliticizzandosi e neutralizzandosi con un ideologia che la riduce a mero spazio di benessere economico e di diritti umani né con un identitarismo isolazionista e meramente difensivo (incarnato in Italia dalla Lega Nord) che, sebbene più “genuino” e spontaneo dell’ideologia spoliticizzante di tecnocrati e diritto-umanisti, da solo non riuscirà a invertire la tendenza del declino europeo.

La soluzione è un ritorno ad una dimensione pienamente politica, che finalmente recuperi concetti dimenticati (ma solo in Europa, non certo negli USA, in Cina o in Russia) come “sovranità”, “potenza”, “egemonia culturale”, “sviluppo” e “autosufficienza”.

Non l’esausto“Liberté, égalité, fraternité”, non il “Dio, Patria, Famiglia” riciclato dai vari Tremonti, ma armi (sì, armi!), tecnologie, serie politiche sociali e demografiche e soprattutto leadership politiche decise, di questo ha bisogno il nostro continente.

Attualmente esistono tendenze positive all’interno delle leadership politiche attuali, comprese quelle italiane, per ritornare ad una nuova politica europea, ma bisogna ammettere che ancora una volta queste tendenze rischiano di rimanere allo stadio embrionale e di essere travolte nuovamente tanto da forze ostili che da debolezze interne.

Gli sforzi dell’attuale governo italiano per imprimere al paese una politica estera autonoma e multilaterale e una politica interna più decisionista e finalmente slegata dall’azione di lobbies frenanti (magistratura, industria culturale e quella che Gianfranco La Grassa chiama con efficace sintesi “Grande Finanza e Industria Decotta”, GFeID) non sembra vengano accompagnati ad un’efficace azione di consolidamento e di propaganda di tali linee politiche.

Gli stessi media vicini al governo, i tanto deprecati “media di regime”, al contrario sembra facciano tutto il possibile per rendere fragile e incoerente la strategia del governo, ammantando decisive questioni politiche di farisea retorica liberale.

La politica estera italiana va verso una maggiore autonomia dagli USA ma sui giornali e sulle TV “di regime” si esaltano le passeggiate di Obama con Berlusconi quasi fossero la prova di chissà che, il governo parla di misure atte ad assicurare la governabilità e i gazzettieri governativi ancora glorificano il mitico “movimento verde” iraniano, ignorando (?) come i sostenitori internazionali di quest’ultimo siano gli stessi dei vari Di Pietro e soci, mentre una certa “cultura di destra” demo-libertaria d’accatto, fatta propria da taluni eredi del MSI, fomenta all’interno del partito di governo ogni sorta di frazionismo, di opportunismo e di azione frenante, senza alcuna reazione seria da parte di una classe dirigente ancora impregnata di liberalismo fuori tempo.

Strano “regime” quello di Berlusconi, che pare abile soprattutto nel minare le proprie fondamenta!

Siamo convinti che il “berlusconismo” sia stato, e sia ancora nonostante tutto, un elemento di disturbo e di rallentamento nei confronti dei disegni delle peggiori forze anti-nazionali, ma c’è da sperare che lo stesso, per i suoi ritardi e le sue indecisioni, non si trasformi anche in un agente frenante nei confronti di autentiche, anche se tutt’ora inesistenti, forze nazionali.