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Il temuto termometro italiano

di Roberto Zavaglia - 21/02/2010

L’annuncio del Cremlino, mercoledì scorso, di sospendere la consegna dei missili S-300 all’Iran ha fatto segnare un punto a favore della strategia Usa di “contenimento” del regime degli ayatollah. I generali iraniani aspettavano con impazienza queste armi capaci di intercettare gli aerei e i missili a corto e medio raggio, rendendo un eventuale bombardamento dei siti nucleari del Paese più problematico di quanto già appaia.
  Ci si chiede se la decisione della dirigenza russa sia il prodromo al suo consenso per l’inasprimento delle sanzioni contro Teheran.. A nuove sanzioni sono favorevoli le petro-monarchie del Golfo che vedono nel Paese guidato da Ahmadinejad una minaccia per la propria stabilità, mentre l’Europa, pur essendo in realtà divisa, anche sulla base dei differente interessi economici in Iran dei vari Stati, finirà con l’accodarsi alla volontà statunitense. Le nuove misure sono comunque pretese, essenzialmente, dagli Usa e da Israele. Sono questi due Paesi che le hanno preparate e che cercano di convincere il resto del mondo della loro indispensabilità. Nel Consiglio di Sicurezza dell’Onu, il progetto si è finora arenato per il veto minacciato dalla Russia e dalla Cina. Vedremo, nelle prossime settimane, se quantomeno Mosca si deciderà ad aiutare Obama in uno dei teatri di crisi più spinosi per la sua Amministrazione.
  L’imposizione delle nuove sanzioni è un banco di prova dello stato dell’egemonia mondiale statunitense. Di fronte ai frequenti cambi di direzione del regime iraniano, che un giorno sembra accettare le condizioni stabilite dalla “comunità internazionale” sul suo programma nucleare e l’indomani smentisce le aperture, Washington punta a provvedimenti drastici per punire il trasgressore. Lo fa motivando con considerazioni di carattere generale (la bomba nelle mani di un “dittatore pazzo”) ma soprattutto sottolineando il rischio per la sicurezza di Israele. La situazione è dunque questa: la più grande potenza pretende che il resto del mondo castighi un Paese che si appresterebbe a violare la legalità internazionale, in nome della difesa di una potenza regionale, sua alleata privilegiata, che di quelle regole non ha tenuto alcun conto.
  Se si raggiungesse l’unanimità contro l’Iran, circa il quale non esistono prove certe di tentativi di produrre la “bomba”, per fare sentire più tranquillo uno Stato il cui possesso di decine di testate nucleari è il segreto di Pulcinella della diplomazia internazionale, significherebbe che la potenza Usa, per quanto ammaccata, resta comunque incomparabilmente più grande di quella dei suoi competitori. Probabilmente, almeno la Cina, avida degli idrocarburi persiani, non cederà in sede Onu e, allora, verrà formata un’altra “coalizione di volenterosi” per applicare le sanzioni fuori da quella legalità che si invoca di continuo. Bisognerà verificare quanto, in un mondo nel quale si osservano inedite alleanze allo stato nascente, le nuove sanzioni risulteranno efficaci.
  In questi anni, Teheran è riuscita a costruire fruttuose relazioni diplomatiche non solo con i giganti russo e cinese, ma anche in altre aree del mondo, in particolare nel Sudamerica, dove Paesi dal peso non indifferente, come Venezuela e Brasile, hanno accolto con favore Ahmadinejad, stringendo con il suo Paese accordi economici di una certa importanza. Non siamo più alla metà degli anni Novanta quando gli Usa, forti anche di una crescita economica apparentemente inarrestabile, oltre che della recente vittoria nella guerra fredda, potevano fare e disfare a piacimento. E’ inutile ricordare quante cose siano successe nel frattempo, spingendo perfino i Paesi dell’ex “cortile di casa latinoamericano” ad adottare un atteggiamento ben più assertivo del passato nei riguardi della potenza del Nord. Basta pensare a come la crisi economica, partita da Wall Street e generata dalla “cultura finanziaria” anglosassone, abbia fatto perdere fascino al modello Usa.
  Il “caso Iran” potrà insegnarci se la volontà degli Usa di terremotare economicamente una nazione avrà pieno successo, oppure se, anche grazie a nuove triangolazioni con potenze emergenti, il “cattivo” riuscirà in qualche modo a cavarsela, continuando per la sua strada. Va considerato che il Paese che vuole imporre sanzioni economiche, coinvolgendo il mondo, ha oggi proprio nella situazione economica il suo tallone d’Achille. Nel marzo del 2009, il debito Usa si aggirava sui 13 trilioni di dollari (fa impressione scriverlo in numeri), il 90% del Pil, mentre quest’anno si prevede che supererà l’intera ricchezza prodotta. Il debito italiano è comunque più alto in percentuale, si dirà, ma mentre noi siamo un popolo di risparmiatori, gli statunitensi hanno innalzato una gigantesca montagna di debiti privati. La situazione non è destinata a cambiare nel breve, se la stessa Amministrazione riconosce che, nei prossimi 10 anni, il deficit annuo si situerà intorno al 5%.
  Gli Stati Uniti che, come è noto, hanno una spesa militare pari alla metà di quella mondiale, investiranno in questo settore -secondo i calcoli del generale Mini, pubblicati su “Limes”, che comprendono anche voci non afferenti direttamente al bilancio della Difesa-  una cifra oscillante tra 880 miliardi di dollari e oltre un trilione nel corso del 2010, il 7,1% del Pil. Sono cifre che spiegano a sufficienza la perdurante volontà egemonica, basata soprattutto sulle armi, di Washington. Sarà però sempre più difficile giustificarle davanti a un’opinione pubblica impoverita, che potrebbe accentuare il proprio crescente isolazionismo, chiedendo al presidente di lasciare al suo destino il resto del mondo, in nome dell’America First. Soprattutto se, come avviene in Afghanistan, questa costosissima strapotenza militare si dimostra incapace di sconfiggere gli  arcaici talebani armati di kalashnikov e bombe rudimentali.
  La situazione che Obama ha ereditato dal suo sciagurato predecessore è difficilissima in campo militare, diplomatico ed economico. Il nuovo presidente non intende, però, rinunciare all’eccezionalità americana, alla fede in un destino manifesto di messianismo globale; pensa che abbandonando l’hybris dei neoconservatori, convinti di piegare con la forza il mondo intero al modello Usa, e tornando alla “purezza” dei Padri fondatori, si possa mantenere la supremazia  mondiale, pur in presenza di potenze regionali con le quali venire a patti. Come, fino a pochi anni fa, era di moda parlare di nuovo secolo americano, adesso si disquisisce con troppo superficialità di declino degli Usa che, invece, rimangono l’unico attore globale e dispongono ancora di numerosi primati, come quelli, importanti, nella ricerca scientifica e in campo tecnologico.
  Non è prematuro, invece, riconoscere che Washington dovrà faticare non poco per costruire alleanze sotto la sua guida ogniqualvolta, nel mondo, si manifesti una crisi rilevante, dovendo fare i conti con nuove potenze che aspettano altre sue cadute per scrollarsi di dosso ogni residua sudditanza.