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La memoria nazionale oltre la retorica

di Luigi G. de Anna - 21/02/2010

Nei giorni scorsi il presidente Giorgio Napolitano, in occasione della sua visita all'Accademia dei Lincei a Roma, ha ricordato l'importanza della memoria per quanto riguarda il Risorgimento e, così come ha riportato il nostro Secolo, ha definito «meschini» gli studi e le analisi che non condividono una lettura comunque unitaria di questo periodo della nostra storia nazionale. E, poiché si avvicinano le celebrazioni del 150esimo anniversario dell'Unità d'Italia, le sue parole assumono un particolare significato. Come per tutte le ricorrenze, anche per questa non mancheranno i motivi di dibattito e di polemiche.
Del resto sarebbe bene intendersi sulla funzione delle celebrazioni commemorative. Se esse sono semplicemente autoreferenziali ed elogiative, lo spazio riservato allo storico è molto limitato. Se questa sarà la tendenza anche per i 150 anni dell'Unità, assisteremo ovviamente a un effluvio di belle parole e di discorsi che, più o meno, si fanno appunto da un secolo e mezzo a questa parte.
Il problema, ci tengo a precisarlo, non è negare la validità e necessità del processo che portò alla nascita, non diciamo di una "nuova" Italia, ma dell'Italia in sé. L'acquisizione dell'indipendenza e unità del Paese sotto uno stesso governo era un passo inevitabile per poter portare l'Italia nel consesso europeo, se non proprio delle grandi potenze, cosa che avverrà solo più tardi. Il problema è verificare "come" questo processo avvenne e quanto esso costò in termini di annullamento di precedenti entità statali e culturali e anche di sofferenze delle popolazioni. In altre parole, il risultato finale resta giustificato pensando alla nuova Europa che si stava plasmando nella seconda metà dell'800 e che attribuiva un ruolo di leadership solo ai grandi Stati nazionali a spese dei piccoli che, pur avendo contribuito a fare la storia della nostra civiltà, avevano perduto la possibilità di essere parte attiva nel processo di sviluppo della nuova Europa. Quello che ci interessa è verificare le modalità di questo passaggio dato che, come diceva Padre Dante Alighieri, «il modo ancor m'offende».
In sostanza, il processo di aggregazione che, grazie al "cancelliere di ferro" Bismarck porta alla nascita della Germania guglielmina e, pur tenendo presenti le differenze, a quella dell'impero asburgico, ha un suo corrispondente nell'Italia savoiarda. Ciò che preoccupa gli storici, per lo meno quelli che non amano il conformismo, è la "blindatura" delle celebrazioni cui presto assisteremo. C'è infatti da chiedersi a che cosa servano ricorrenze e giornate della memoria. Se il loro scopo è semplicemente laudativo, lo storico non ne avrà parte. La storia non è fatta di verità assolute o inappellabili. Diritto (e dovere) di chi si occupa dei fatti avvenuti in una società è quello di verificare, alla luce di un rigoroso studio delle fonti, se la versione data fino ad allora corrisponde alla verità dei fatti. Premetto che il concetto di "verità" nella storia è ambiguo e probabilmente inattendibile, in quanto molto dipende non solo dall'ideologia cui lo studioso, a volte inconsciamente, si lega, ma anche dalle esigenze politiche che è costretto a tenere presenti. La politica infatti, sia interna che internazionale, ha bisogno di "interpretazioni" storiche per adempiere ai propri scopi. Che questi scopi poi siano scientifici ovviamente non è vero, dato che la storia, interpretata dal punto di vista del politico, è spesso uno strumento propagandistico. Questo spiega perché avvenimenti del passato, resi irripetibili dallo sviluppo della società e del comportamento umano, come, per fare un esempio tornato di attualità, il genocidio degli armeni, diventino una questione estremamente delicata dal punto di vista politico, potendo pregiudicare l'ingresso della Turchia nel consesso comunitario.
Ma, allora, c'è da chiedersi, le giornate della memoria a che cosa servono? Riprendendo alcune osservazioni fatte dallo storico Franco Cardini, si può dire che, se la memoria serve soltanto a ricordare, allora bisogna permettere allo storico di occuparsene senza limitazioni che non siano una metodologia corretta, perché il passato e la sua indagine gli appartengono, a meno appunto che non se ne voglia fare uno strumento di politica attuale. Per fare un esempio per noi molto doloroso, quello delle foibe, se uno studioso afferma, come è stato fatto da Claudia Cernigoi in una pubblicazione del 2005, che il numero delle vittime è molto minore di quello indicato ufficialmente, la contestazione del dato non spetta al politico, ma allo storico, che dovrà ribattere, sempre sulla base di una rigorosa documentazione, a quanto asserito dal collega il cui intento, ovviamente, non era ideologico, ma storiografico. La verifica di quanto è veramente successo nel passato va dunque lasciata a chi quel passato sa esaminare con i metodi del rigore scientifico e non con le emotività dei sentimenti, seppur giustificatissimi. Se la memoria serve invece a vaccinarci da tentazioni di commettere nuovamente uguali crimini, dobbiamo sconsolatamente concludere che le società, i governi e il genere umano imparano ben poco dalle lezioni del passato, visto che di stragi, genocidi e crimini di massa dal 1945 in poi se ne sono compiuti a bizzeffe; di conseguenza questo continuo ricordare non sembra incidere minimamente sull'andamento della storia recente e contemporanea.
Ritornando alle celebrazioni risorgimentali, la speranza è che si lasci spazio anche a chi ne dà una lettura diversa o non del tutto conforme alla vulgata. E questo non per negare l'importanza e la fondamentalità dell'evento, ma per permettere, nel quadro delle celebrazioni, una disanima equilibrata di quanto è realmente successo. In questo campo la destra ha più posizioni.
Se molto forte è la tendenza a vedere nel Risorgimento il momento culminante della nostra storia moderna con i valori che gli vengono tradizionalmente attribuiti, esiste anche una destra critica nei confronti di come si è svolto il Risorgimento. A partire dal 1989, ad esempio. Identità Europea, un movimento che ha in Franco Cardini e in Adolfo Morganti i suoi rappresentanti più noti, ha stimolato il dibattito storico su ciò che realmente avvenne nel 1789 con le cosiddette "insorgenze", per continuare attraverso i vari anniversari fino al 2009, quando venne ripresentata la figura di Andreas Hofer, un eroe della libertà e della lotta antinapoleonica ingiustamente assimilato a fenomeni terroristici di epoca molto più tarda. La matrice di Identità Europea è profondamente cattolica, ma tutt'altro che neo-con. Morganti e Cardini hanno dunque lanciato il dibattito su "l'Unità divisa", facendo riferimento alle altre realtà politiche, economiche, sociali, che il Risorgimento ha comunque travolto nel suo cammino. L'unificazione piemontese per come si è svolta e attuata tra il 1860 e il 1870 ha infatti annullato realtà locali che oggi si tende a riscoprire e non a caso uno dei punti di forza della Lega è proprio il tornare a rimettere in luce il valore di queste realtà, travolte dallo Stato unitario savoiardo.
La difesa del mito risorgimentale, iniziata recentemente sul Corriere della Sera da Ernesto Galli della Loggia, il quale ha menzionato questi rilettori del processo unitario sotto la definizione di "guelfo-temporalisti", avrà il suo seguito, ma ci auguriamo che il dibattito sulle virtù e i vizi del Risorgimento sia pacato e limitato alla rilettura dei documenti di cui abbondano gli archivi. Sarà quindi bene tenerne fuori la politica. Se un giorno leggeremo delle stragi compiute da Cialdini e Bixio nel Sud oppure dei campi di concentramento piemontesi dove morirono migliaia di meridionali, questo riferimento non verrà fatto per infirmare la validità dell'Unità, ma per appunto "serbare memoria" di come essa venne attuata. D'altra parte, scriveva uno dei maggiori intellettuali italiani del '900: «Lo Stato italiano ha messo a ferro e fuoco l'Italia meridionale e le isole, squartando, fucilando, seppellendo vivi i contadini poveri che scrittori salariati tentarono d'infamare col marchio di briganti». Parole dell'Ordine Nuovo. Quello di Antonio Gramsci, sia ben chiaro.