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Dipende soltanto da noi spalancare una finestra sull’infinito

di Francesco Lamendola - 22/02/2010

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Non è necessario possedere uno sguardo particolarmente acuto per misurare tutta l’abissale distanza che separa il modo in cui viviamo dal modo in cui potremmo vivere; lo squallore e la tristezza in cui siamo quotidianamente immersi, dalla pioggia di luce che potremmo accogliere, spalancando una finestra sull’infinito.
Dal punto di vista spirituale, noi viviamo all’uno, al due per cento delle nostre possibilità: come dire che ci accontentiamo di vegetare in una cantina umida o in una soffitta polverosa, mentre avremmo a nostra disposizione un sontuoso palazzo dalle vaste sale piene di luce e dai numerosi balconi che si affacciano sull’aria profumata dai giardini circostanti.
Quello che facciamo non è solo un immenso spreco di energie spirituali, le quali, non trovando il proprio naturale sbocco, si riversano in mille direzioni sbagliate, recando danno alla vita dell’anima; è anche un torto palese che facciamo a noi stessi e, al medesimo tempo, la prova evidente del fatto che non ci vogliamo abbastanza bene.
Dobbiamo convincerci bene di questa semplice verità: che potremmo vivere assai meglio di come viviamo attualmente; che la nostra vita potrebbe acquistare bellezza, gioia e splendore, se solo fossimo abbastanza onesti con noi stessi da individuare le dinamiche distruttive che ci fanno volare così basso e ci costringono all’infelicità.
Il modo più lineare per uscire dalla palude in cui diguazziamo, e per riportarci sul solido terreno asciutto della strada maestra, all’ombra di una fresca vegetazione, è quello di risvegliare la nostra consapevolezza. Ciò significa che dobbiamo riattivare la capacità di percepire le cose non solo con i sensi fisici, ma con i sensi interiori; di gioire di tutto ciò che l’autentica vita dell’anima ci offre e di provare gratitudine per la bellezza del mondo.
Abbiamo detto che dobbiamo gioire per tutto ciò che ci offre l’autentica vita del’anima, e questo significa che dobbiamo imparare a riconoscere ciò che in essa è autentico, e nasce da una esigenza reale e legittima, e ciò che, invece, è inautentico, perché deriva da stimoli artificiali, da capricci momentanei o da una nostra incapacità di leggerci dentro con chiarezza ed onestà, andando dritti all’essenziale.
La vita del’anima si colloca sul piano dell’essenziale, per cui uno stile di vita sobrio, improntato alla freschezza e alla benevolenza, scaturisce naturalmente dalla graduale eliminazione di tutto ciò che è superfluo, tanto in senso materiale che in senso intellettuale e spirituale. Ma poiché siamo tutti, chi più e chi meno, contaminati dalla malattia del consumismo, il tipo di pensieri, di sentimenti e di azioni che caratterizzano la nostra vita riflette la nostra dipendenza dalle cose, la smania di apparire, il terrore di essere noi stessi: perché saper essere se stessi esige la capacità di accogliere la solitudine non come un peso indesiderato, ma come una splendida opportunità di crescita e di autoconoscenza.
In noi vi sono molte più cose di quello che non crediamo; molte più energie, molte più risorse, molte più potenzialità; molta più attitudine alla bellezza, alla gioia, all’apertura verso l’esistente. Vi è una parte divina, in fondo all’anima, che sarebbe capace praticamente di qualsiasi cosa; che non avrebbe timore di misurarsi nei cimenti più impegnativi, di confrontarsi con le difficoltà più grandi e prolungate, di aprirsi con fiducia alle esperienze più intense e coinvolgenti.
Ci piace crederci deboli e fragili, per avere la scusa di rimanere nell’inerzia: tale è la sgradevole verità che non vorremmo sapere, perché ne usciremmo umiliati.
Questo sentimento di debolezza, inoltre, ci è utile perché giustifica il nostro eterno inseguire le cose, delle quali ci sembra di aver bisogno per sentirci più sicuri e protetti. Ad esempio, pensiamo di aver bisogno di denaro perché potemmo ammalarci: e non ci rendiamo conto che a farci ammalare è proprio la corsa ad accumulare denaro. Oppure ci sembra di aver bisogno di una tecnologia sempre più sofisticata, perché il mondo in cui viviamo è sempre più complesso: ma non ci sfiora l’idea che il mondo è così terribilmente complesso proprio perché abbiamo permessa alla tecnica di divenire il fine e lo scopo di esso.
Saremmo assai meno deboli e meno fragili se incominciassimo a spogliarci del superfluo, per vestirci di povertà: la povertà dell’essenziale. Ciascuno se la rappresenti come vuole; il concetto di povertà non può essere quantificato, perché la sua essenza risiede nella capacità di togliere, di lasciar cadere, di spogliare. E noi viviamo in un orizzonte culturale di tipo quantitativo, proprio perché la cultura moderna - a cominciare dalla sua espressione più vistosa, la scienza materialista e meccanicista - è proteso all’avidità e, quindi, all’accumulo delle cose.
I grandi mistici, i grandi santi, i grandi iniziati lo sapevano; essi conoscevano il segreto della povertà come ricerca della essenzialità, come mezzo per liberarsi dal peso di tutto ciò che è inutile o dannoso per la vita dell’anima. Lo sapeva, ad esempio, la mistica francese Marthe Robin, che visse per decenni inchiodata a un letto e immersa nel buio, tormentata da dolori atroci e tuttavia capace di ascoltare e consigliare con dolcezza e con saggezza migliaia di visitatori (e che, con buona pace della scienza materialista, per tutto quel tempo non si nutrì mai d’altro cibo se non delle particole della comunione).
Sarebbe però un errore pensare che solo quelle grandi anime siano chiamate alla povertà ed all’essenzialità della vita dell’anima. Vi siamo chiamati tutti, perché tutti aspiriamo ad una vita più piena e più autentica e perché tutti, pur restando nel ruolo che la famiglia, il lavoro e i doveri sociali ci hanno assegnato, possiamo aspirare a riconciliarci con la nostra parte più profonda e trarre dalle sue radici la fresca linfa per imprimere una svolta alla nostra vita.
La rivoluzione che siamo chiamati ad operare in noi stessi non è di tipo quantitativo, ma qualitativo; non importa quanto ci sappiamo spogliare del superfluo in senso quantitativo, ma quanto lo sappiamo fare in senso qualitativo. E non si tratta solo di sapersi spogliare, ovviamente, ma anche e soprattutto di vestirsi delle cose giuste, facendo dono all’anima del suo autentico nutrimento spirituale.
Per un artista, ad esempio, operare questa rivoluzione interiore significa perseguire lealmente e incondizionatamente il proprio ideale di bellezza, ignorando le scorciatoie e le astuzie cui potrebbe fare ricorso per strappare un facile successo commerciale. Per l’uomo o per la donna comuni, si tratta di disfarsi di pensieri e sentimenti falsi, inautentici, gonfiati artificialmente, per riscoprire tutta la verità e l’armonia di ciò che giace al fondo di se stessi, anche nelle piccole cose e nei piccioli gesti della vita quotidiana, del lavoro, del tempo libero.
Vi sono due modi di compiere anche il più semplice gesto quotidiano: quello autentico e quello inautentico; e la vita è fatta di tanti piccoli gesti quotidiani. Vi sono due modi di guardare una pozzanghera: un modo consapevole, che sa scorgervi una finestra aperta sul cielo, ed uno inconsapevole, che non vede in essa se non un ostacolo sul proprio cammino o, addirittura, che non la scorge affatto. Analogamente, vi sono due modi di guardare l’uomo o la donna che abbiamo davanti: quello inautentico, che vede secondo le apparenze, e quello autentico, che sa andare oltre e punta dritto alle profondità dell’anima.
Colui che non sa vedere il cielo nella pozzanghera o che non sa vedere l’anima dietro l’involucro del corpo e dei vestiti, ha smarrito la capacità di vivere dell’essenziale, vale a dire delle cose che contano, e si disperde in cento maniere, inseguendo affannosamente il superfluo. Si sta facendo del male con le sue stesse mani ed è un infelice che meriterebbe compassione, per quanto possa ostentare dei beni di fortuna che lo rendono oggetto di invidia da parte di altre persone le quali, come lui, giudicano secondo le apparenze e non sono capaci di penetrare al di là della superficie delle cose.
Vi sono due modi di aspirare il profumo dei campi, di ascoltare una musica, di accogliere il dono di un sorriso.
Vi sono due modi di pensare, di sentire, di vivere le piccole e grandi situazioni della vita; due modi di gioire e di soffrire; due modi di restare e di partire - compreso il grande e misterioso viaggio della morte.
Ma vi è un solo modo di spalancare una finestra.
Vi è un solo modo di far entrare l’aria fresca e pura in un ambiente chiuso, che sa di vecchio. 
E vi è un solo modo di essere veramente se stessi: non ce ne sono due.
Essere se stessi vuol dire essere nell’unica maniera possibile, nell’unica maniera in cui non si è qualcun altro.
Essere se stessi vuol dire far coincidere il nostro centro esistenziale con il nostro centro spirituale; far coincidere il nostro poter essere con il nostro essere effettivo.
In termini filosofici, vuol dire far coincidere nella propria anima la necessità e la libertà: cosa realmente divina, perché - nell’ambito dell’assoluto - tale è il privilegio e tale è la caratteristica fondamentale dell’Essere, non degli enti.
Noi che viviamo immersi nella dimensione del relativo, non possiamo aspirare, ovviamente, a cancellare la differenza ontologica fra l’Essere e gli enti; ma possiamo aspirare a realizzare in noi stessi il massimo della libertà, che - se ben sappiamo leggere le autentiche esigenze dell’anima - coincide con la perfetta necessità.
E questo è possibile perché in noi vi è una scintilla di quell’infinito che vanamente, il più delle volte, cerchiamo al di fuori di noi, credendo di scorgerlo nel pallido riflesso delle cose e dimenticando che esse non brillano mai di luce propria, ma sempre e soltanto della luce abbagliante dell’Essere.
Ciechi di fronte alla verità dell’Essere, andiamo brancolando in cerca di qualche piccola verità che la possa surrogare; ci infiammiamo di passione per cose che non sono amabili in se stesse, ma che traggono tutta la loro bellezza da quell’altra luce, incorruttibile e perfetta, che emana direttamente dalla sorgente di ogni cosa: l’Essere cosciente di se stesso e ineffabilmente beato.
E non si tratta realmente di due cose diverse: ci sembrano diverse a causa della nostra ignoranza, della nostra cecità.
In realtà, quando noi ammiriamo lo splendore del cielo in una pozzanghera, noi stiamo ammirando lo splendore dell’Essere; e quando stringiamo a noi il corpo della persona amata, noi stiamo abbracciando lo splendore dell’Essere.
È la nostra ignoranza che ci fa velo allo sguardo e che ci nasconde i reali contorni delle cose: noi crediamo di vedere, ma non sappiamo vedere nulla.
Se sapessimo vedere, allora scorgeremmo ad ogni passo, ad ogni istante, la rivelazione dell’Essere e la smetteremmo di lamentarci continuamente, perché capiremmo di essere infinitamente fortunati e privilegiati, in quanto invitati ad un banchetto sontuoso che non ha mai fine.
In verità, colui che non sa vedere la luce dell’Essere in una pozzanghera fangosa è un cieco e un ingrato; e colui che non sa vedere la meraviglia dell’Essere mentre carezza il viso della persona amata, non sa cosa sia l’amore e non è degno di un dono così grande come quello di essere a sua volta amato.
Per divenire degni di essere amati, dobbiamo prima imparare ad amarci; e non vi è altra strada che quella di spogliarci del superfluo, che ci fa velo allo sguardo, e rivestirci con la povertà dell’essenziale.
Quando avremo imparato ad amarci, senza troppe indulgenze e senza narcisismo, allora saremo degni di amore: perché allora, e soltanto allora, capiremo che tutto è Amore.
Ora non lo sappiamo, perché ci piace immaginarci deboli e fragili e avere così la scusa di restarcene nell’aria chiusa dell’umida cantina o della soffitta polverosa.
Ma fuori, ci sono le stanze luminose e il giardino profumato che ci attendono.
Dipende solo da noi spalancare la finestra e lasciar entrare l’infinito.
Forse, vale la pena di tentare.