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Per una sostenibile e duratura politica industriale

di Diego Barsotti - 23/02/2010

 

 

Alcune settimane fa l'amministratore delegato di Fiat aveva spiazzato un po' di benpensanti (anche a sinistra) dicendo che Fiat non aveva (più) bisogno di incentivi alla rottamazione, ma aveva bisogno di una "politica industriale". Col senno di poi potremmo forse dire che Marchionne non ha fatto altro che leggere i dati (quelli delle vendite, quelli della produzione, per tutte le case automobilistiche) e annusare la politica (l'Ue ha dichiarato un paio di giorni fa ormai finita l'epoca degli incentivi alla rottamazione). Il governo italiano, dopo lo smarrimento iniziale, ha fatto buon viso a cattivo gioco e accettato il suggerimento di Fiat ed è stata probabilmente la prima bella figura in Europa, anticipando gli altri Paesi nel bloccare l'insostenibile elargizione di ossigeno a un carrozzone troppo pesante, che il mercato aveva già scaricato.

In questo caso dunque il mercato ha appunto visto meglio e prima della politica, che anzi da destra e da sinistra aveva perpetuato per anni il modello insostenibile degli incentivi che stava bene a tutti: agli imprenditori e agli operai, regalando quindi un paese virtuale al di sopra delle leggi della domanda e dell'offerta.  

Ora la governance è chiamata a fare il passo più importante: fare una politica industriale. Ovvero pianificare, ovvero avere una visione lunga e prendere decisioni non al breve termine elettorale, ma per le future generazioni. Un argomento tornato molto in auge in questi giorni insieme all'altro tema ridondato dai vaticanisti dell'etica nell'economia. Della necessità di una politica industriale nuova per l'Italia ne ha parlato Romano Prodi nella sua lectio magistralis  a Pisa durante Manifutura (ricordando l'ambizioso e serio Industria 2015 dall'orizzonte almeno decennale) e oggi l'affrontano gli economisti Valerio Onida sul Sole24Ore e Nicola Cacace sull'Unità (che scivola poi sul luogo comune che la competitività italiana sia minata «da Paesi dove materie prime e norme ambientali sono più a buon costo»).

Onida suggerisce di ridisegnare la politica industriale del nostro Paese «alla luce delle moderne teorie dello sviluppo e dell'innovazione (ad esempio Rodrick Hausmann, Acemoglu, Sachs, Nelson-Winter) e con uno sguardo spassionato alla storia e ai dati», magari partendo dalla storia più recente - aggiungiamo noi - cioè analizzando le cause del fallimento del vecchio modello di sviluppo imperniato esclusivamente sulla crescita di tutti i fattori e non di quelli sostenibili.

Onida però fa un'aggiunta importante: «Abbiamo sempre più bisogno di mutuare dai concorrenti avanzati una ‘cultura della valutazione' che si avvale di agenzie indipendenti (dal governo e dalle categorie produttive) per sottoporre a continuo monitoraggio e credibili analisi di impatto i (troppo) numerosi interventi di politica economica mirati all'industria e ai servizi».

Il concetto di merito dunque, così poco di moda nel nostro Paese televotante, che consentirebbe invece di rendere più efficienti anche quei (pochi) soldi destinati alla ricerca e alla innovazione (che se non si tratta di annunci dovrebbero aumentare sostituendo proprio gli incentivi alla rottamazione) facendo selezione tra le 91 diverse forme di incentivi a livello nazionale a cui si aggiunge una batteria di 1216 incentivi a livello regionale: «una ridondanza del sistema - scriveva il ministero dello sviluppo economico in un rapporto di qualche mese fa - che si traduce in diseconomie nell'utilizzo delle risorse finanziarie».

Insomma. Basterebbe che ognuno facesse il suo mestiere: cioè che l'economia tornasse ad essere uno strumento di lavoro al servizio di chi deve governare le risorse collettive e indirizzare lo sviluppo in direzione della sostenibilità.