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La prima guerra mondiale delle parole

di Mary Rizzo - 23/02/2010

Ci sono parole che vengono usate come grilletti emotivi e paraocchi mentali. Servono a orientare la mente verso una direzione specifica nella quale le facoltà critiche sono momentaneamente congelate per far sì che la terminologia stessa rimanga vivida e ottenga una reazione emotiva da parte dell'ascoltatore, ma che le sue connotazioni vengano modificate in tutto o in parte da chiunque diffonda il messaggio.

Esistono molti termini ed espressioni che fanno parte del nostro lessico e che sono stati utilizzati per influenzare le nostre opinioni e procurare il nostro sostegno “morale” a certi obiettivi politici o ideologici, con un chiaro intento: ottenere il nostro consenso implicitamente o esplicitamente, giacché i dettami della “democrazia” esigono il consenso.
Gli strumenti linguistici di persuasione vengono utilizzati soprattutto nei settori più sofisticati delle Psyops (operazioni psicologiche messe in atto dai governi, in particolare in tempo di guerra o di crisi), ma sono anche impiegati nella comunicazione giornalistica di base e divengono parte integrante del “discorso pubblico”.

Dato che tutti noi usiamo il linguaggio, la sua codificazione è essenziale affinché non ci sia bisogno di definire tutti i termini, facilitando la comunicazione delle idee; ma c'è anche chi ha il compito di trasformare questi termini in armi e in strumenti funzionali di propaganda. L'esperienza ci dice che l'Hasbara israeliana (“Propaganda più”, per usare un termine coniato da un amico psicologo), è organizzata a molti livelli per creare un consenso che reitera un postulato specifico, definibile come “Israele über alles”, e ciò viene ottenuto con l'uso della retorica e del linguaggio.

Il pensiero occidentale è così permeato da questo linguaggio che il Ministero della Verità di Orwell sembra essere nient'altro che la preconfigurazione narrativa di ciò che quotidianamente fanno il Ministero dell'Hasbara e tutte le sue più o meno formali o ufficiali emanazioni nel mondo. Assistendo al telegiornale della sera, non ci si stupisce quasi più di fronte ad azioni commesse contro una popolazione civile sottoposta a occupazione militare – crimini di guerra a tutti gli effetti, riferiti come se fossero atti legittimi e necessari se non addirittura gesti esplicitamente umanitari.

Queste atrocità vengono presentate come passi necessari verso la coesistenza pacifica, mentre l'elemento della sofferenza umana viene cancellato o negato. Tuttavia, quando la vittima della sofferenza è un occidentale o “sta con i democratici”, entra in azione il meccanismo opposto e siamo tenuti a provare indignazione morale. Noi utenti dei media occidentali veniamo imboccati con informazioni che sarebbero moralmente ripugnanti se si invertissero i ruoli e se invece di essere i responsabili dei soprusi ne fossimo le vittime.

Chi compone e redige queste notizie attribuisce un valore intrinseco alle vite di coloro che percepisce come il proprio pubblico, e assembla informazioni che rafforzano questo pregiudizio e lo traducono in pensiero normativo.

Quando muore un soldato occidentale lo si trasforma in un eroe, indipendentemente da dove si trovava o da cosa faceva in quel momento, e lo stesso vale per gli israeliani che occupano territori “ripuliti” dei loro abitanti non-ebrei. Ogniqualvolta viene mostrato il bersaglio di un'azione violenta, la sua statura morale dipende da quanto corrisponde alla nostra immagine di noi stessi.

Quando le vittime rientrano tra quelli che sono stati ufficialmente designati come “cattivi” siamo quasi esortati a provare sollievo e un'ondata di patriottismo che ci manda un messaggio secondo il quale “hanno vinto davvero vinto i buoni”. In modo analogo, ci si aspetta che difendiamo qualcuno che vive a Sderot e che viene presentato come se le sue difficoltà, i suoi nervosismi e la sua “spavalderia” fossero la nostra principale preoccupazione.

Durante la guerra condotta contro Gaza, a un gruppo di adolescenti israeliani che lamentavano di sentirsi imprigionati tra scuola, casa e rifugio antiaereo fu concesso dai media lo stesso spazio e la stessa importanza data ai genitori palestinesi che piangevano la distruzione delle loro case e l'assassinio dei loro figli a opera dei soldati e delle armi di Israele. In qualsiasi contesto sarebbe assurdo tracciare una qualche equivalenza tra questi due livelli di sofferenza, ma ci si aspetta che non battiamo ciglio di fronte a servizi simili.

La stessa cosa accade quando ci si aspetta che accettiamo le giustificazioni di Israele riguardo all'“esercito più morale del mondo”, indipendentemente da ciò che ci hanno mostrato le fotografie uscite dall'inferno di Gaza.

Per citare le parole del Primo Ministro israeliano in risposta alle pubbliche rimostranze: “L'esercito israeliano, caratterizzato da una moralità senza paragoni, ha avuto cura di agire in conformità con il diritto internazionale e ha fatto il possibile per impedire danni a civili non coinvolti nei combattimenti, comprese le loro proprietà, e a tal fine ha tra l'altro distribuito moltissimi volantini e ha usato i media e la rete telefonica locali per trasmettere tempestivamente allarmi generali e dettagliati alla popolazione civile.

L'esercito israeliano ha preso provvedimenti anche per rispondere alle necessità umanitarie della popolazione civile nella Striscia di Gaza durante i combattimenti.”

Al di là del giudizio sulla moralità senza paragoni dell'esercito israeliano, va notato come questa dichiarazione nasconda il contenuto abietto dei volantini “umanitari” e l'“uso” dei media e della rete telefonica locali.

I volantini avvertivano la popolazione della distruzione che sarebbe di lì a poco seguita se la gente (che si trovava letteralmente in trappola) non se ne fosse semplicemente “andata”. Ciò dimostrava l'intento premeditato di causare danni e la minaccia di morte e di distruzione di proprietà appartenenti ai civili. Per quanto riguarda l'uso del telefono, un articolo pubblicato su USA Today riferì che i palestinesi ricevevano sia sui telefoni fissi che sui cellulari delle chiamate che li avvisavano che la loro abitazione stava per essere bombardata.

Le chiamate non potevano essere rintracciate o bloccate perché provenivano da operatori internazionali. Le autorità israeliane dissero che si trattava di un servizio per i palestinesi (che ovviamente precedeva il vero servizio reso loro), ma il Maggiore Jacob Dallal, il portavoce dell'esercito intervistato in quel servizio, si rifiutò di dire come l'esercito israeliano si fosse procurato i numeri dei cellulari di Gaza.

L'“uso” dei media locali fu di fatto l'intrusione dell'IDF nelle trasmissioni di Al Aqsa TV e l'irruzione nelle stazioni radio locali, comprese quelle di Hamas, del PFLP e del Jihad islamico. Secondo quanto ha raccontato Kamal Abu Nasser, durante la programmazione di Voice of Jerusalem l'IDF interrompeva le trasmissioni ogni ora per mandare in onda messaggi che incolpavano Hamas di tutti i problemi di Gaza.

Le affermazioni di Abu Nasser sono state confermate da molti abitanti di Gaza per i quali la radio era l'unico legame con il mondo e che venivano bersagliati dalla propaganda di quelli li stavano bombardando.

Possono essere facilmente smontate anche le dichiarazioni a proposito degli allarmi dettagliati e degli aiuti umanitari. L'esercito israeliano non disse neanche ai medici che tipo di armi stesse usando e come si dovessero curare le strane ferite tipiche dell'uso di DIME (esplosivo a metallo denso e inerte) e fosforo bianco. Come ormai tutti sanno, la Striscia di Gaza era sottoposta a un blocco totale via terra, mare e cielo, e le sole merci che riuscivano a entrare nella Striscia passavano attraverso i tunnel: gli israeliani e gli americani si affrettarono a dire che quei tunnel venivano usati per il “traffico d'armi” e non come l'unico modo per far passare merci di tutti i tipi perché in superficie i valichi erano stati bloccati da Israele e dall'Egitto, e vi stazionavano le forze di sicurezza che obbediscono a Fatah.

Leggere una qualsivoglia dichiarazione di Israele richiede sempre un grande sforzo. La verità c'è, ma è l'opposto di quanto si afferma. Tuttavia, queste dichiarazioni vengono prese alla lettera e perfino elevate al rango di dichiarazioni umanitarie.

Chi le ha scritte e diffuse ci prende per ciechi, sordi e sciocchi? O siamo tutto questo e anche più? La nostra posizione nel mondo come esseri privilegiati “al di fuori dell'asse del male” ci impedisce di vederci come potrebbero vederci gli altri e ci esenta dall'essere assolutamente disgustati dall'importanza che attribuiamo a noi stessi e dal disprezzo che riserviamo agli altri? Siamo diventati i mostri insensibili che dobbiamo sembrare o abbiamo solo subito un indottrinamento e un lavaggio del cervello che ci hanno precluso la riflessione critica?

Dato che i mezzi di informazione di massa non possono censurare niente al punto di impedirgli di venire a galla, coloro che li controllano si coprono le spalle fornendo un'interpretazione canonica degli eventi che siamo invitati ad accettare come “fatti” o perfino “verità”. Se siamo ancora in grado di vedere, l'obiettivo degli esperti dell'Hasbara è impedirci di pensare.

Ecco perché questi induttori di paura e questi slogan sono così utili. Pensano al posto nostro. Abbiamo bisogno di sentirci “informati” ma non necessariamente di elaborare e di pensare (questo andrebbe a loro svantaggio). Una volta cessato di pensare, resteremo in silenzio davanti alla violenza usata per opprimere i deboli.

I regimi totalitari si sono sempre basati sull'ignoranza o sulla paura per portare a termine il loro compito di instaurare, consolidare e mantenere il dominio su coloro che altrimenti gli si rivolterebbero contro.

Nelle “democrazie” di oggi sembra accadere la stessa cosa. Si esercitano pressioni sulle organizzazioni caritatevoli islamiche, si definiscono movimenti terroristici gruppi che combattono l'occupazione mentre le relazioni diplomatiche dipendono dal beneplacito di coloro che aprono i cordoni della borsa. Si creano condizioni che impediscono di sostenere pubblicamente movimenti e perfino governi critici nei confronti dello Stato sionista, come se questo fosse il barometro della validità di un'intera nazione nello spettro globale.

In breve, perfino le democrazie (o “demonocrazie”, per citare ancora una volta l'amico psicologo) operano un forte indottrinamento per instillare il proprio vantaggio egemonico a livello politico, economico e perfino morale. Utilizzano i media, sia come informazione che come intrattenimento, per indottrinare e plasmare il loro modello di buon cittadino così che la società possa appoggiare pienamente ogni piano politico supportato dal suo governo. L'effetto di questo lavaggio del cervello attraversa tutti gli strati sociali e influenza perfino i nostri figli, che sono chiamati a rendere acriticamente onore agli “eroi della pace” armati fino ai denti in Afghanistan e in Iraq. Tutto sommato sembra proprio che Orwell ci avesse visto giusto.

La lotta contro la vuota retorica, la decostruzione delle bugie e la riconquista del nostro pensiero critico non sono più un lusso, ma una necessità assoluta. Per contribuire a questo ideale di formazione delle coscienze, Palestine Think Tank e Tlaxcala lanciano una serie di saggi che esaminano molti di questi termini ed espressioni per costruire un glossario alternativo e presentare una lettura più accurata delle parole che ora ci circondano soprattutto come strumenti propagandistici volti a innescare reazioni emotive.

Chiediamo ai nostri collaboratori, membri e affiliati di riflettere e scrivere su questi temi, e invitiamo anche i nostri lettori a inviarci dei testi da pubblicare, tradurre e diffondere.

Quali termini ci interessano? Ce ne sono molti, dunque lasciamo la scelta agli autori. Non intendiamo in alcun modo limitare i saggi a uno per ciascun tema, giacché ogni autore può voler fornire il suo punto di vista o argomentazione su un tema già trattato. Speriamo che questo sforzo di collaborazione internazionale possa contribuire a una migliore comprensione delle questioni mondiali e a una maggiore consapevolezza su come possiamo incidere attivamente, non solo respingendo le definizioni mistificanti che ci vengono fornite ma dando anche un contenuto a queste parole e comprendendo la loro vera dimensione.

 

Tradotto da  Manuela Vittorelli per Tlaxcala.