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I nuovi conflitti spiegati da Camus

di Miro Renzaglia - 25/02/2010

 

Uno dei problemi della politica oggi, su uno o l'altro versante, è quello di capire i fenomeni della contemporaneità senza rimanere incastrata in categorie obsolete. Non si tratta certo di buttare a mare il passato, ma di uscire da quelle vecchie contrapposizioni ideologiche che la stessa realtà smentisce, dimostrando come i confini e gli steccati noti siano ormai fluttuanti, aperti. Del resto l'altro giorno lo stesso presidente della Camera, Gianfranco Fini, ha detto che occorre ormai avventurarsi oltre la politica prigioniera dei vecchi schemi destra-sinistra, di per sé «più incline a guardare dalla specchietto retrovisore piuttosto che interrogarsi sul futuro, sulle sfide della società multietnica e multiculturale, sui nuovi parametri per definire la ricchezza del paese». Da questo punto di vista, possiamo trovare un valido interlocutore da "sinistra" in Massimo Ilardi. Da sinistra tra virgolette, vista la sua capacità eterodossa di spiazzare la sua stessa appartenenza politico-culturale. Sociologo dell'Università di Camerino, Ilardi lo avevamo d'altronde già incontrato su queste stesse pagine per i suoi saggi sulla metropoli, tra cui l'attualissimo Ricominciamo dalle periferie, curato insieme a Enzo Scandurra per la "manifestolibri", in cui si prendevano le definitive distanze dal modello "veltroniano" di città.
Un coraggio che Ilardi ripropone adesso nella cura del volume collettaneo Il potere delle minoranze. Immaginari culture, mentalità all'assalto del mondo (edizioni Mimesis, pp. 120, € 14,00), in cui si affronta la figura del cosiddetto "ribelle". Come lo stesso studioso aveva già scritto sull'allora quotidiano, e oggi settimanale, Gli Altri, il ribelle sarebbe proprio colui che sfugge alle classificazioni destra-sinistra, ed è anche figura che mette in discussione l'idea della politica come fine. Siamo davanti all'archiviazione della figura del vecchio rivoluzionario, quello che ci affidano iconografia e storia degli anni Settanta, e all'emergere di un protagonista inedito che vive la rivolta del "qui" e "ora". Il che è tutt'altro da quanto finora concepito. C'era una volta, infatti, il ribelle jüngeriano: quello che "passava al bosco" (e il bosco era ovunque: perfino «nei sobborghi di una metropoli») per conquistarsi uno spazio di autentica libertà da cui ripartire all'offensiva di una realtà da lui non condivisa né condivisibile. Era una figura di ribelle che contestava il nemico via via più immediato per arrivare a colpire, o sognando di arrivare a colpire il nemico assoluto e per stabilire quindi, a vittoria presa, un nuovo orizzonte, una nuova società , un altro futuro. Questo ribelle - ci dice adesso Ilardi - non esiste più. In sua vece, è nato quello che non ha altra causa che contestare il nemico immediato nell'immediato per soddisfare, sempre nell'immediato, il proprio bisogno di giustizia: «Non si sognano nuovi mondi, nessun potere costituente o nuova sfera pubblica… Il conflitto si libera da motivazioni ideologiche e da utopie…».
Mutuata la fisionomia di questo ribelle da Michel Foucault (soprattutto dal suo saggio Il soggetto e il potere, del 1983), non «rivoluzione», quindi, è il nome appropriato della sua azione, ma: "rivolta" (do you remenber L'uomo in rivolta di Alber Camus?). Una rivolta senza causa finale, quindi. Ma anche così destituiti da finalità messianiche, comunque, questi fenomeni non sono privi di esiti politici. I coautori ne riportano alcuni e li analizzano: Angelo Petrella racconta, in particolare, delle rivolte di Napoli provocate dai rifiuti e dagli insediamenti delle discariche a Chiaiano e Pianura; Giuseppe Scandurra indaga sul "degrado" urbano di piazza Verdi a Bologna; Francesco Macarone Palmieri, sulle migrazioni urbane di giovani che partono dalle periferie di Roma per riappropriarsi del "centro"; Antonio Tursi interviene sulle interazioni fra realtà e rete virtuale nella espressione del nuovo dissenso sociale e politico; Emiliano Ilardi e Fabio Tarzia, infine, interpretano le logiche territoriali delle rivolte come metafora delle differenze fra religioni, soprattutto, tra le monoteiste, quella ebraica e quella cristiana.
È quindi una politica che si svolge non nei palazzi istituzionali, ma sul territorio urbano: «La crisi della politica - scrive Ilardi - vuol dire anche questo: la trasformazione del territorio da bene comune a un cumulo esplosivo di particolarismi in lotta tra di loro. È dentro questa opposizione tra controllo e libertà che si origina quel politico metropolitano che ha nel ribelle una figura centrale». Raggiunto lo scopo, l'aggregazione "in rivolta" compattata su "quell'obbiettivo" può sciogliersi per fine della ragione sociale e ricompattarsi in nuove formazioni che, magari, possono trovare i vecchi componenti di prima in contrapposizione frontale su "altri obiettivi".
Per essere chiari su questo punto, ricorriamo anche alla cronaca recente. Pochi mesi fa, si è svolta a Roma una manifestazione di tutti i gruppi del tifo calcistico organizzato (i cosiddetti ultras) nessuno escluso, ivi compresi quindi anche raggruppamenti di segno politico opposto, che aveva come obbiettivo la contestazione della "tessera del tifoso": una specie di braccialetto elettronico finalizzato al controllo sicuritario, e finanche finanziario, delle loro organizzazioni. Il corteo unitario si è svolto senza il benché minimo incidente. Esaurito il mandato, il movimento si è poi sciolto di nuovo nelle fazioni di appartenenza originarie, per tornare a darsele fisicamente di (poco) santa ragione alla prima occasione: è solo di poche domeniche fa la notizia degli incidenti, occorsi nel capoluogo friulano fra ultras del Napoli e quelli dell'Udinese, con tanto di arresti e feriti.
L'episodio ricordato contiene altri segni qualificativi del fenomeno osservato da Ilardi e dagli altri autori del libro. Tra questi, è centrale il tema della libertà. Ma è una libertà di segno diverso da quella che distingueva il ribelle di Ernst Jünger. Se anche per quest'ultimo «il passaggio al bosco» significava riprendere possesso di un territorio libero dalle forze omologate del sistema, in questo transito realizzava solo il primo stadio della sua ribellione che Nietzsche avrebbe contemplato come un «liberarsi da»: una specie di fuga, insomma. Nobile fin quanto si vuole ma solo e pur sempre una fuga. Con Jünger, il ribelle avrebbe realizzato se stesso solo dando un «per», ovvero una causa finale, alla sua libertà riconquistata. Il suo nemico, infatti, era una temperie assoluta e finanche un destino assoluto: il nichilismo. È «dal» nichilismo che il (suo) ribelle desiderava liberarsi; era «per» sconfiggere questo nemico, primo e ultimo, che passava al bosco. Come sappiamo, il nichilismo non è un'invenzione moderna e nemmeno postmoderna: Nietzsche - per esempio e non a torto - lo faceva risalire alla separazione fra mondo delle idee e mondo reale, con conseguente degrado di quest'ultimo a pallida ombra del primo, operata da Platone. E, nel corso dei secoli, ha cambiato più volte maschera senza, pur tuttavia, riuscire mai a mimetizzarsi completamente. Nel postmoderno le sue fattezze hanno la fisionomia chiara di quella componente dell'economia che va sotto la definizione di primato del profitto sopra e contro ogni altro possibile interesse umano. Ed è qua che avanziamo la nostra obiezione all'ottimismo con cui Ilardi osserva il fenomeno. Non è forse la legge del profitto a omologare i nostri comportamenti sociali e individuali? E non è quel ciclo infernale (una specie di perverso eterno ritorno) consumo-produzione-consumo a definire il perseguimento della sua finalità? E se la rivolta (le rivolte) del nuovo ribelle «è - come dice il curatore de Il potere delle minoranze - un agire conflittuale rimodellato da una società del consumo che non vive sul simbolico o sull'ideologia ma sull'immaginario che ha perso ogni credenza nella fondatezza»; se la rivolta, quindi, non fa altro che ripetere il ciclo del consumo-produzione-consumo di se stessa, dov'è il reale scarto della norma?
Negli anni '70, Pier Paolo Pasolini appioppò a noi, ribelli di allora, alcuni dei suoi versi più spietati: «[…] e così capirai di aver servito il mondo  / contro cui con zelo "portasti avanti la lotta":  / era esso che voleva gettar discredito sopra la storia - la sua;  / era esso che voleva far piazza pulita del passato - il suo;  / oh generazione sfortunata, e tu obbedisti disobbedendo! / Era quel mondo a chiedere ai suoi nuovi figli di aiutarlo  a contraddirsi, per continuare…» (La poesia della tradizione). Aveva ragione Pasolini. E il ragionamento di Ilardi ci induce a riflettere sul fatto che forse fu nella nostra presunzione di possedere una causa rivoluzionaria e finale ad aver determinato la sconfitta di tutta una generazione. È un'ipotesi. Ma è un'ipotesi che non può essere dimostrata perché alle dimostrazioni i «rebels without (a final) cause» post-moderni hanno rinunciato in partenza. Il loro «assalto al mondo» non prevede alcuna sconfitta, perché non sogna alcuna vittoria. E in questo limbo da eterno pareggio, un altro po' di acne giovanile sarà liftato dal maquillage con cui il nichilismo usa agghindarsi per i banchetti dove «carogne crapulano, ospiti di usura» (Ezra Pound).