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La lunga, lunga ombra dei primi passi falsi in Iraq

di Anthony Shadid - 25/02/2010



Convenientemente, ci fu l’Ordinanza n.1

Cinque giorni dopo essere diventato proconsole in Iraq, nel maggio 2003, L. Paul Bremer III emise il decreto, utilizzando lo stile imperiale di un uomo con un debole per gli stivali da combattimento da occupante e per la giacca e cravatta da burocrate. Con questo decreto, Bremer metteva al bando il Partito Ba’ath di Saddam Hussein, scatenando un processo che continua ancora oggi. In inglese, il suo eufemismo era de-ba’athificazione. Ma Bremer, che ha sempre dato l’impressione di soddisfare una presunta tendenza irachena per l’autorità, non ha mai capito fino in fondo il linguaggio del Paese che aveva ereditato. In arabo, lingua più descrittiva, la parola che veniva usata era “ijtithath”- strappare o sradicare.

L’Ordinanza n.1 era un inizio, che deve ancora avere una fine, un po’ come la presenza americana in un territorio che gli Stati Uniti hanno cercato goffamente di forgiare a loro somiglianza.

Questi giorni sono l’equivalente del crepuscolo americano in Iraq. Dopo sette anni di invasione, occupazione, e amministrazione di un Paese che non è mai stato così sovrano come veniva sostenuto, gli Stati Uniti stanno andando via. Ci sono altre guerre da combattere, dopo tutto. Ma le ripercussioni dell’Ordinanza n.1 sottolineano una realtà scomoda per l’amministrazione Obama mentre l’Iraq si avvicina alle elezioni del 7 marzo per decidere chi governerà dopo la dipartita statunitense. Il carrozzone difettoso della democrazia, che l’America ha contribuito a costruire un po’ a casaccio nei giorni di Bremer, sembra destinato ad avere bisogno dell’intervento americano per paura che si fermi, per molto tempo dopo che i soldati saranno rientrati in patria.

In altre parole, per anni a venire, la falange di diplomatici a Baghdad lotterà contro i suoi stessi errori, il cui prototipo è l’Ordinanza n.1.

“È un’amara ironia”, dice l’Ambasciatore Christopher R. Hill – quella che “a volte gli iracheni, a loro volta, utilizzano con noi con un certo piacere: avete fatto degli errori in passato, perché non pensate di poterli rifare”.

Le ironie non mancano in Iraq. A volte si arriva al limite del surreale. Nella politica attuale, sono i ba’athisti di un tempo e il partito comunista che parlano un linguaggio laico più familiare agli americani. Ma gli Stati Uniti hanno dato il potere a partiti sciiti ferventi religiosi - si dice che un partner di lunga data degli Stati Uniti, sciita, abbia deposto una corona di fiori in Libano sulla tomba di Imad Mughniyeh, l’esponente di Hezbollah accusato di aver pianificato l’attentato contro la caserma dei Marines in Libano nel 1983.

Ma l’Ordinanza n.1 potrebbe essere considerata l’ironia più grande. È stato il primo passo intrapreso per modellare un sistema che sembra abbracciare la politica del rischio calcolato, popolato da personaggi un tempo in esilio che gli Stati Uniti hanno portato al potere. E in questo sistema, forse solo gli Stati Uniti possono agire da mediatore per superare la crisi e l’impasse.

Al suo interno, c’è un non so che della regola, apocrifa ma spesso citata, del “negozio di porcellane”: chi rompe paga e i cocci sono suoi. Di questi tempi, mentre si avvicina la fine, la massima adatta potrebbe essere: l’hai costruito, e te lo tieni.

È notevole quanto il ruolo americano qui sia cambiato nel corso degli anni.

Nel 2003, i funzionari statunitensi mostravano una singolare abilità nell’alienare le persone. All’epoca, uno di loro liquidò Muqtada al-Sadr, religioso sciita estremista, come “tutto fumo e niente arrosto”. Questo prima che i suoi seguaci lanciassero due rivolte contro l’esercito americano in cinque mesi. Una volta, a Hume Horan, celebrato diplomatico morto nel 2004, era stato dato il compito di comunicare agli anziani delle tribù che gli americani avevano iniziato un’occupazione. Horan, che quando era a Baghdad leggeva la poesia medievale del quarto Imam sciita nel tempo libero, comunicò la notizia in un arabo perfetto, ma si ricordava bene la reazione degli uomini delle tribù, che quasi si strozzavano bevendo il loro tè: la parola araba“Ihtilal” evoca la Palestina occupata, non il Giappone o la Germania del dopoguerra.

Persino gli amici dell’America, che soffocavano di caldo durante i blackout estivi, si meravigliavano dell’incompetenza dei loro rappresentanti: era davvero lo stesso Paese che aveva sconfitto Saddam Hussein nel giro di qualche settimana?

Di questi tempi, quasi tutti in Iraq considerano gli Stati Uniti un arbitro. I politici iracheni reagiscono regolarmente male all’intervento statunitense, specialmente quando questo va contro i loro interessi. Ma anche loro riconoscono il ruolo svolto dagli Usa, che è cresciuto in qualche modo proprio mentre l’amministrazione Obama fa capire che l’Iraq non sarà la guerra di questo presidente.

La crisi sulla de-ba’athificazione, che è iniziata il mese scorso, è un esempio calzante. Una commissione, lascito dell’ordinanza di Bremer, ha escluso 511 candidati al parlamento per i loro legami col partito Ba’ath. Personalità laiche e sunnite hanno denunciato l’esclusione, definendola un regolamento di conti da parte dei partiti sciiti. Quei partiti hanno ribattuto che stavano semplicemente seguendo la legge – che, di questi tempi, tende a essere interpretata nel modo più flessibile e opaco. Quei partiti hanno subito montato una frenesia anti-ba’athista tanto cinica quanto efficace fra il loro elettorato.

I funzionari americani hanno espresso cauta preoccupazione, quindi hanno lavorato in modo zelante dietro le quinte per trovare una soluzione, tutto ciò mentre sostenevano di non minare la sovranità irachena.

“Non abbiamo l’autorità di un Cavaliere Jedi per andare dagli iracheni e dire: “Questi non sono i droidi che state cercando”, dice Hill. “ Si può provare, ma di solito non funziona”. Per poi proseguire dicendo: “ Questo è il tipo di Paese in cui, se non sei attivo, è come se non ci fossi”. Il suo popolo, afferma, “ vuole vedere che ti sta a cuore”.

A volte, gli americani e il personale delle Nazioni Unite sembravano molto più determinati a risolvere la crisi di quanto non lo fossero gli stessi funzionari iracheni. La nozione di legittimità ha ostacolato a lungo il processo politico qui. Per anni, i sunniti l’hanno contestato. Stessa cosa hanno fatto Muqtada al-Sadr e i suoi seguaci. Adesso sono entrambi una parte decisiva dell’elettorato. La de-ba’athificazione ha rischiato di disfare quei vantaggi di inclusione conquistati a fatica, e presto sono seguite le minacce di boicottaggio del voto.

Dietro la crisi, hanno detto subito alcuni iracheni, c’erano in agguato gli americani. Ali al-Lami, capo della commissione che ha escluso i candidati, ha chiesto che l’ambasciata americana “ponesse fine alle sue interferenze e pressioni”, e il Primo Ministro Nuri Kamal al-Maliki ha ammonito in modo secco l’Ambasciatore Hill a non abusare della sua posizione. Quelli che sono tra le fila degli sconfitti hanno accusato gli americani di non aver fatto abbastanza. Tuttavia, con paura o trepidazione, molti di loro li vedevano come l’unico attore che avesse l’autorità di intervenire in un processo politico dove le crisi sembrano essere la norma.

A volte quell’apprezzamento per il potere americano era maggiore dell’autorità che esso effettivamente esercitava; resta da vedere se gli Stati Uniti saranno in grado di contribuire ad attenuare l’impatto della crisi sulla credibilità delle elezioni. “Gli iracheni hanno bisogno degli americani come mediatori”, dice Qassim Daoud, parlamentare sciita, ex ministro e candidato alle prossime elezioni.

Non troppo lontano, a occidente, l’America potrebbe trovare una lezione che fa riflettere in un’altra entità politica modellata da un altro occupante.

In una politica che è bizantina anche per gli standard del Medio Oriente, in Libano le confessioni rivali – cattolica maronita, greco-ortodossa, musulmana sunnita, musulmana sciita, e drusa – faticano a trovare una soluzione basata sul consenso. Che è quasi sempre passeggero. Invece la politica è, di solito, a somma zero, in un paesaggio che, citando le parole di un architetto del posto, non offre a nessuna comunità “garanzie per la sua sopravvivenza”. Per anni, dopo la guerra civile, la Siria ha avuto il potere supremo, esercitato spesso brutalmente, arbitrando le dispute. Nel 2005 si è ritirata, e da allora il sistema libanese, senza qualcuno che controllasse la situazione attraverso la propria influenza politica, ha sopportato più anni di impasse di quanto non si pensasse. Sono in pochi a sentire la mancanza dei siriani, ma sono in molti a desiderare ardentemente la stabilità.

Bremer e i suoi funzionari hanno svolto un ruolo decisivo nel modellare un sistema politico iracheno che evoca il confessionalismo libanese. Le quote sono obbligatorie, il potere è rigorosamente contestato secondo linee confessionali ed etniche. Ne consegue spesso l’impasse, con ogni comunità che vede la politica come un asso piglia tutto. La situazione si sblocca solo quando la pressione di un protagonista con influenza politica trova una soluzione all’ultimo minuto.

Al crepuscolo dell’America in Iraq, il ruolo imperiale di arbitro, in un sistema che potrebbe malgrado tutto rivelarsi impraticabile, ancora le appartiene. 

“Non sono qui per risolvere questo problema”, aveva detto il mese scorso a Baghdad il Vice Presidente Joseph R. Biden durante la crisi sulla de-ba’athificazione. “Sta agli iracheni farlo, non a me”.

Forse. Tuttavia, qualcuno avrebbe potuto rendergli un buon servizio citando un proverbio arabo.

“Kul ma qulna assa Allah, kul ma jadda al-rahil” , recita. Per quanto la traduzione non renda: “Ogni volta che diciamo di essere sulla buona strada, salta fuori qualcosa di nuovo”.

(Traduzione di Arianna Palleschi per Osservatorio Iraq)

Articolo originale


The New York Times,