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Washington taglia fuori Roma

di Roberto Zavaglia - 28/02/2010

E’ passata un po’ sotto silenzio la sostituzione, come rappresentante dell’Unione Europea a Kabul, di Ettore Sequi con l’ex ministro degli Esteri lituano Vygaudas Usackas. Si tratta di una novità che, a prescindere dal ruolo limitato della carica in oggetto, spiega alcuni cambiamenti strategici della guerra in Afghanistan. Come ha scritto Franco Venturini sul “Corriere della Sera”,  adesso che statunitensi e britannici stanno tentando di dare una poderosa spallata “vogliono controllare ogni bullone di una macchina che deve vincere per poi portare al disimpegno”
  Il nuovo ambasciatore Ue è un uomo fidatissimo degli Usa, tanto che è stato costretto a dimettersi dal suo governo essendo sospettato di avere coperto le prigioni segrete della Cia nel suo Paese. Il rappresentante europeo è quindi un personaggio che ha collaborato con gli Usa nelle cosiddette extraordinary rendition, i rapimenti di veri o presunti terroristi che poi sparivano nelle segrete di qualche Paese amico, per essere “interrogati con tutta calma”… A nominarlo è stato il nuovo “Ministro degli Esteri” della Ue, la baronessa Catherine Ashton, che ha subito dimostrato cosa vuol dire scegliere inglese per uno dei ruoli di vertice dell’Unione. E pensare che erano in molti a chiedere, addirittura,  che come presidente permanente della Ue fosse designato Tony Blair, per dare maggiore compattezza all’Europa grazie a una figura ”carismatica”. Sarebbe stata una compattezza al servizio, senza né e senza ma, del caro alleato d’oltreatlantico…
  Prima della “defenestrazione” di Sequi, un altro italiano, Fernando Gentilini, era stato avvicendato, nel ruolo di rappresentante civile della Nato in Afghanistan, da, indovinate un po’, un britannico, l’ex ambasciatore di Londra a Kabul Mark Sedwill. Non si tratta di lamentare -come ha fatto, con  mugugni “patriottici”, qualche esponente del governo- l’estromissione di personalità italiane dalle istituzioni internazionali. Di cariche importanti ne abbiamo sempre meno, ma ciò è il risultato della mancanza di peso politico del Paese e della cattiva reputazione della sua classe dirigente, che certo non è migliorata con le varie inchieste giudiziarie di queste ultime settimane. La gloria che si può ottenere in Afghanistan è, poi, piuttosto dubbia.
  Ci appare legittimo che Usa e Gran Bretagna, gli Stati che sostengono la maggior parte dello sforzo bellico, vogliano impadronirsi di tutti gli ingranaggi, anche politici, dell’enorme macchina di occupazione occidentale. Dal punto di vista militare ci sono tre tipi di Paesi presenti nella coalizione guidata dalla Nato. Gli statunitensi, robustamente affiancati dai britannici, sono quelli che combattono sempre e comunque e presidiano le zone più pericolose. Al loro fianco ci sono i contingenti più piccoli, ma ugualmente impegnati, di Canada e Olanda la quale, recentemente, ha però visto cadere il suo governo sulla questione Afghanistan.  Al secondo gruppo appartengono Paesi come l’Italia, la cui operatività è comunque in corso di trasformazione, che combattono “solo fino a un certo punto”, se sono attaccati. Quando partecipano a missioni offensive, di solito con le truppe speciali, lo fanno in segreto perché gli sarebbe vietato dalle regole di ingaggio. Ci sono, infine, nazioni come la Germania, presenti in Afghanistan di malavoglia, che evitano il più possibile lo scontro armato.
  L’Italia è estranea ad ogni decisione strategica, ma ciò non di meno è il Paese che ha accolto l’invito Usa a rafforzare i contingenti con maggiore generosità, inviando altri mille soldati. Nel primo semestre del 2010 il costo mensile della nostra missione militare è cresciuto, dai 45 milioni di euri dello scorso anno, a 51 milioni, una cifra che salirà ulteriormente quando saranno giunti i rinforzi promessi. Saremmo, poi, anche noni nella classifica mondiale dei donatori al martoriato Paese, avendo stanziato 396 milioni di euri tra il 2001 e il 2008, con una previsione di spesa, per il biennio seguente, di altri 150 milioni.
  Lo sforzo dell’Italia serve, però, a nulla per ottenere voce in capitolo. La guerra, ormai è palese, è infatti una guerra degli Usa, affiancati dagli alleati più disponibili, contro i cosiddetti insorgenti. E’ il presidente Obama, come aveva annunziato durante la sua campagna elettorale, che vuole ottenere, a tutti i costi, una vittoria almeno parziale, per affidare poi il Paese alle potenziate forze militari di Karzai e riportare a casa i “nostri ragazzi”. La chiacchiera sulla “democratizzazione” dell’Afghanistan è stata abbandonata, per tema del ridicolo, anche nei discorsi di propaganda, in cui  si preferisce adesso parlare di stabilizzazione del Paese e di afganizzazione del conflitto. Il terribile Osama e la “tentacolare” Al Qaeda sono ancora citati ogni tanto, più per abitudine che per reale convinzione che siano quelli i veri obiettivi militari.
  Nella Conferenza di Londra sull’Afghanistan dello scorso 28 gennaio si è ammesso, quasi ufficialmente, che una vittoria definitiva contro i talebani è impossibile. E’stata allora approvata una nuova strategia: comprare il nemico. Si è istituito un fondo con cui pagare i guerriglieri “meno motivati” per convincerli a deporre le armi. Dopo tutto l’enorme dispiego di uomini e tecnologie militari degli Usa e della Nato, questa soluzione suscita un vago ribrezzo nelle persone che un tempo si definivano “di retto sentire”: corrompere un nemico infinitamente più debole per paura di affrontarlo a tutto campo pagandone le necessarie conseguenze. Ma queste sono arcaiche romanticherie per i teorici delle “missioni di polizia internazionale”, che hanno inventato la guerra posteroica, in cui l’importante è vincere subendo il minor numero di perdite, senza però prendere in esame quelle inflitte ai nemici con i “sicuri” bombardamenti dal cielo e da terra.
  Perché la strategia si riveli vincente, gli statunitensi sono però convinti di dovere ottenere alcune importanti affermazioni sul campo, onde demoralizzare i talebani e renderli più malleabili. Ecco spiegata l’offensiva attualmente in corso nella provincia meridionale di Helmand e l’assedio della cittadina di Marjah, che hanno provocato migliaia di profughi e di civili intrappolati nelle loro case senza viveri di prima necessità. Si pensa di imitare il “surge” in Iraq: scacciare il nemico, mantenendosi poi in forze sul territorio per infondere alla popolazione un maggiore senso di sicurezza. Peccato che questo tentativo di accattivarsi la simpatia degli afgani, promettendo anche ingenti stanziamenti in opere di pubblica utilità nelle zone “riconquistate”, si scontri con “errori”, come il bombardamento del 21 febbraio scorso su tre pulmini carichi di civili, che ha causato 33 vittime.
  Comunque vada a finire, la guerra statunitense per il controllo dell’Afghanistan prevede, per Paesi come il nostro, solo il ruolo di ascari che devono pagare, tacere, obbedire e, di quando in quando, morire.