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Kate Moss Machine

di Stenio Solinas - 28/02/2010

 

Sono vent’anni che mi piace Kate Moss, qualsiasi cosa faccia, qualsiasi ruolo interpreti, qualunque cosa indossi. Anche niente. Mi piaceva al tempo dei suoi esordi grunge, quando era the Waif, la ragazzina abbandonata e di strada del mensile The Face, e poi quando è divenuta l’immagine di Obsession, con quelle foto su un’isola deserta dei Caraibi, vestita solo del profumo di Calvin Klein... Mi è continuata a piacere come simbolo glamour del look Gucci voluto da Tom Ford, l’heroin chic, lo chic eroinomane che per poco non le costò la carriera, l’idea intimidente di aver visto tutto, sperimentato tutto, viaggiato dappertutto. Mi piaceva quando era l’immagine della Cool Britannia con cui Tony Blair voleva svecchiare la monarchia e il socialismo, drappeggiata nell’Union Jack, avvolta in un Burberry, e mi è continuata a piacere quando l’arte contemporanea e la cultura pop l’hanno eletta a icona, scolpita come Sphinx da Marc Quinn dipinta da Lucian Freud, serigrafata alla Andy Warhol...
Adesso che il sociologo Christian Salmon ha scritto su di lei questo saggio che in Francia fa discutere, dal titolo Kate Moss Machine (La Découverte, 134 pagine, 11 euro), in cui se ne fa il simbolo della rivoluzione neo-liberale dell’ultimo ventennio, sono combattuto fra il piacermi ancora e sempre Kate e il dovermi far piacere, per proprietà transitiva, il neo-liberalismo: vale la pena approfondire.
La tesi di Salmon è la seguente. Con la caduta del Muro di Berlino del 1989 si chiude un secolo, il XX, ma si apre uno spazio, un «vuoto narrativo», che copre gli anni sino all’11 settembre del 2001, quando il crollo delle Torri Gemelle segna l’ingresso nel nuovo millennio. In questa parentesi storica, in questo iato fra i due secoli, appare una nuova generazione, la cosiddetta Generazione X descritta da Douglas Coupland nell’omonimo libro, che è priva di un «romanzo collettivo» intorno al quale strutturare la propria vita sociale: non ci sono più certezze ideologiche, non esiste più la logica politica dei blocchi, la liberazione sessuale si è risolta in «peste del secolo», biotecnologie e neuro-scienze modificano la realtà del corpo umano, la stessa idea di spazio e tempo è alterata dalla mondializzazione telematica e dalle nuove tecniche d’informazione, la globalizzazione economica aumenta le disparità sociali e si rivela il volano della finanza da rapina... Secondo uno dei protagonisti del romanzo di Coupland, per uscire dall’impasse, questa generazione senza più una storia condivisa, non ha altra strada che fare «della propria vita un romanzo» ed è, sostiene Salmon, proprio quello che fa Kate Moss: diviene una cassa di risonanza per tutta una generazione che cerca di riempire la propria fame di storie. Kate è insomma uno «scoubidou» sociale che intreccia, come tanti fili di plastica, i valori dell’epoca: la giovinezza, la magrezza, la velocità, la trasgressione, la capacità di impersonare un ruolo e di captare l’attenzione.
Questo elemento camaleontico è ciò che per Salmon caratterizza il neo-liberalismo. Se prima era bello quello che durava, ora si ama solo ciò che cambia, ciò che muta. Kate Moss simboleggia questa mobilità e flessibilità che ci viene chiesta dalla società il cui messaggio è cambiare, rompere le righe, vivere sulla breccia. L’individuo neo-liberale deve adattarsi, integrare la propria vita nel cambiamento perenne: di oggetti, di look, di luoghi, di lavoro, di partner. Sotto un tale profilo, Kate Moss non è una deriva del sistema, ma il suo tipo ideale: la ribelle integrata, quella che fa della trasgressione una norma sociale.
Sta anche in questo il segreto della sua tenuta, del suo camaleontismo. Il neo-liberalismo, infatti, ci vuole strateghi di noi stessi: non è tanto o solo il talento a valorizzarci, ma la capacità di fare un uso strategico delle nostre emozioni, dei nostri corpi, dei nostri desideri. Così, la vita sociale non è altro che la scena delle performance individuali e il «racconto sociale» consiste nel trasformare le leggi economiche in molla psichica. Proprio perché Kate Moss è, per le sue origini middle class di periferia, una Fashion Conscious, consapevole cioè del vestito non come un capo d’abbigliamento legato all’estetica, ma come segno d’identità, elemento strategico con cui attraversare le frontiere sociali, è anche il più perfetto esempio della «modernità liquida» teorizzata da Zygmunt Bauman: la flessibilità che permette di cambiare e di adattarsi alle circostanze fluttuanti della vita, un obbligo accettato anche come necessità economica, a condizione però di apparire come un fatto culturale, una moda, una storia.
Fin qui il Kate Moss Machine di Salmon nelle sue linee essenziali. Che dire? È un dato di fatto che in Kate quello sguardo che sembra come braccato, quel fisico agile senza essere perfetto, la frenetica indolenza che si porta addosso, la privacy difesa semplicemente rifiutando di difendersi, raccontano il nostro tempo meglio di sofisticate indagini sociologiche. L’ansia di successo, la fragilità dei ruoli maschili e femminili, la difficoltà o forse la non volontà di crescere, il rifiuto e/o la paura delle responsabilità, la superficialità degli interessi, l’individualismo anarchico di chi non si fida: dello Stato, della politica, del prossimo genericamente inteso.
Simbolo di una bellezza insostenibile nella sua leggerezza, Kate Moss si limita a essere. Non rilascia dichiarazioni, non ha frequentazioni altolocate, non aggredisce nessuno. Ha raccontato il leader dei Tories David Cameron di averla un giorno incontrata a una festa di amici comuni, di averla intrattenuta sul problema delle tubature e delle inondazioni nel West Oxfordshire, dove ambedue hanno casa, e di essere stato scambiato per un idraulico... Una figlia, almeno due grandi amori turbolenti alle spalle, lo stile di Kate Moss è il suo talento. Non le si conoscono ambizioni, se fa beneficenza non lo dice, non confonde la popolarità con lo stra-parlare su tutto.
Nella Storia della bellezza di Umberto Eco, una sua fotografia, scattata da Herb Ritts, figura al fianco di capolavori del Rinascimento. L’anno prossimo, il Museo delle arti decorative di Parigi le dedicherà una mostra dal titolo «Le mythe Kate Moss». Mito o macchina, oppure mito-macchina, uno dei segreti di Kate, che adesso va verso i quarant’anni, è una sorta di giovinezza magnetica e senza tempo, incolpevole e incosciente, sempre a rischio e mai completamente a proprio agio. E se anche questo è neo-liberalismo, che sempre sia lodato.