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Plenilunio

di Francesco Lamendola - 02/03/2010

 

 
 

C’è un’ora della notte, che varia secondo le stagioni, in cui è possibile respirare il silenzio perfetto del mondo.
Adesso, alla fine di febbraio ed ai primi di marzo, quell’ora si colloca fra le tre e le quattro del mattino: troppo tardi per i più ostinati nottambuli, troppo presto per i più ardimentosi mattinieri.
Se, poi - come ora -  è una notte di plenilunio, alla magia del silenzio si unisce e si sovrappone la magia della luce metallica, irreale, che irradia dal nostro satellite e che si riversa sul mondo con sconcertante nitore.
Il silenzio è totale: non un verso di uccelli, non un passo umano; nemmeno il miagolio d’un gatto, di questo felpato amante dell’oscurità.
Un silenzio strano, compatto, quasi solido: un silenzio che fa rumore. Un silenzio assordante, che non è dovuto allo stormire delle fronde o allo sgocciolare di una grondaia, dopo la grande pioggia dei giorni scorsi.
Ecco: un silenzio vivo, respirante nella notte. Quando l’orecchio arriva a percepire questo silenzio assoluto, significa che ha oltrepassato la dimensione dei suoni ordinari, che vengono registrati dai sensi ordinari; e che la coscienza si è spinta un passo oltre, nella terra misteriosa che si estende al di là della vita di ogni giorno.
E la luce lunare: così pura e al tempo stesso così fredda, così profondamente aliena, come se il mondo fosse scivolato sotto il fascio di una luce extraterrestre e messo impietosamente a nudo, fin nelle sue pieghe più riposte.
Le montagne innevate risplendono in maniera innaturale; le colline si stendono senza più segreti, dolci e pigre come fianchi di donna. L’essenza della notte, la dimensione del segreto, è svuotata dall’interno per mezzo di questa luce che trasforma la notte in un giorno che non è giorno, ma una sua strana, quasi inverosimile contraffazione.
Le cose non sono veramente illuminate, ma piuttosto sono violentate dalla luce lunare, messe impietosamente a nudo, sorprese e quasi tradite nella loro abituale fiducia di potersi immergere nella complicità del buio notturno.
Eppure la luce argentea che si spande ovunque possiede anche una sua indefinibile dolcezza o, quanto meno, una sua misteriosa, inafferrabile femminilità. Esibisce un vigore che non è fatto di forza fisica e una determinazione che non scaturisce dalla sola volontà intenzionale, ma entrambi rimandano a una condizione originaria, primigenia, che emerge con naturalezza dalle pieghe di un mondo convenzionale, in cui era rimasta a lungo imbrigliata.
Non è una scena che si possa definire e descrivere in termini puramente razionali. Vi è in essa qualche cosa che non si lascia catturare, che non si lascia includere, che non si lascia assimilare; qualche cosa che rimane sempre altra e che suggerisce all’uomo la consapevolezza della propria piccolezza e della propria inadeguatezza.
La luce del plenilunio, specie dopo un periodo di piogge, quando il cielo si schiude e le stelle brillano tra le ultime nubi a brandelli che corrono via all’orizzonte, ha qualche cosa di sacro, nel senso etimologico di “sacer”, ossia di consacrato a una divinità e pertanto di non più umano, non più dipendente dal mondo degli uomini, ma santo o maledetto, a seconda che si tratti di divinità celesti oppure di divinità infere.
Davanti ad essa, e davanti al silenzio perfetto delle ultime ore notturne, ci si sente terribilmente spiazzati, come degli ospiti che si accorgano di non essere stati invitati da alcuno, di essersi venuti a trovare abusivamente in un luogo che non era stato riservato a loro, ma nel quale sono capitati per puro caso, al di fuori di ogni volontà.
Ci si sente piccoli e fragili, finalmente.
*     *     *
La luce metallica del plenilunio e il silenzio assordante delle ultime ore notturne formano lo scenario perfetto per una resa dei conti con se stessi, con la propria verità interiore troppo a lungo conculcata e repressa.
È strano, ma nella luce abbagliante del Sole riesce più facile camuffarsi, mimetizzarsi, farsi passare per ciò che non si è; riesce più facile ingannare se stessi e gli altri.
Bisogna immergersi in questo bagno di luce lunare, fredda e inesorabile, per sentirsi frugare dentro e per intuire quanto sia fragile il castello di inautenticità, di compromessi e di vere e proprie menzogne che ci costruiamo intorno con zelo, giorno dopo giorno, per proteggere la nostra pigrizia e la nostra vigliaccheria.
Di solito non si pensa che la luce del giorno possa offrire dei nascondigli; si pensa che ciò sia tipico della notte. Ma non nelle notti di plenilunio; non quando il nostro satellite brilla come l’argento e lascia vedere chiaramente le sue montagne ed i suoi mari, nitidi e precisi, quasi come se fossero a portata di mano.
In una notte come questa, quando anche il silenzio produce un rumore fragoroso, non si può che sentirsi messi a nudo. Pure, si prova un tale senso di comunione con la natura, una tale immedesimazione con lo splendore lunare e con la voce del silenzio, che questo sentirsi a nudo fa l’effetto non di una condanna, ma di una liberazione.
È liberatorio lasciarsi investire dal plenilunio e accoglierlo gioiosamente, respirandolo a pieni polmoni, senza offrirgli alcuna resistenza.
Il silenzio è perfetto; la luce lunare è perfetta; ogni cosa è perfetta, esattamente come deve essere e come è giusto che sia.
“Perfetto” viene dal latino “perfectus” e precisamente dal supino “perfectum” del verbo “perficĕre”; pertanto indica ciò che è eccellente, nel senso di completo perché è stato compiuto. Una cosa è perfetta quando è stata portata a termine, finita e perfezionata. A rigore, bisognerebbe dire che la morte non ci distrugge, ma ci rende perfetti, dal momento che solo nella morte la nostra vita terrena trova il proprio naturale compimento.
Così, anche questo silenzio e questo plenilunio sono perfetti: parlano da soli, non abbisognano di alcuna spiegazione; sono esattamente quali devono essere.
Anche noi dobbiamo imparare ad essere perfetti: a portare a compimento il nostro divenire spirituale, ad essere esattamente quel che dovremmo essere. Non è giusto che ci accontentiamo di nulla che non sia la perfezione: e ciò non come un atto di superbia, ma, al contrario, come un atto di suprema umiltà.
Perché divenire perfetti non è cosa che dipenda da noi; ma da noi dipende la nostra disponibilità ad accogliere la compiutezza, cioè la perfezione.
Noi non siamo qui per tirare a campare, per vivere “pressappoco”, “più o meno”, ma per tendere al compimento spirituale, vale a dire per tendere alla perfezione. Non è un obiettivo ambizioso: è l’obiettivo che ogni singolo essere umano dovrebbe porsi, in questa vita.
Essere compiuti significa essere così come si deve essere.
La filosofia classica ha sempre distinto tre livelli differenti di verità: la verità dell'essere, la verità del conoscere e la verità dell'esprimere.
È vero l'essere che è quello che deve essere; vera la conoscenza che vede ciò che vi è nell'essere; vera l'espressione che traduce quello che vi è nella conoscenza. Ma se noi non siamo quello che dovremmo essere, allora noi non possiamo conoscere veramente noi stessi e tanto meno possiamo esprimere veramente noi stessi.
La nostra vita è immersa nella inautenticità, perché noi non osiamo essere veramente noi stessi: non osiamo essere perfetti, non osiamo abbandonarci nel grembo dell’Essere, che si farebbe garante della nostra verità interiore e ci darebbe gli strumenti per perseguirla tenacemente, senza stancarci e senza scoraggiarci.
Non osiamo chiedere: perché, in fondo, abbiamo paura di ottenere. Dopo di che, non avremmo più alcuna scusa dietro la quale rifugiarci.

*     *     *
Tali sono le sensazioni, tali sono le riflessioni che questo plenilunio fantastico e questa silenzio sovrumano ispirano all’anima nella frescura della notte.
Perché anche noi non potremmo divenire perfetti, come sono perfette le cose della natura, come è perfetta questa Luna che splende abbagliante, come lo è questo silenzio che risuona potentemente nella notte stellata?
Perché non potremmo rendere perfetto il nostro essere, non cercando di farci più importanti delle cose, per sottometterle; ma, al contrario, lasciandoci andare alla grande armonia cosmica di cui siamo parte e alla quale siamo chiamati a partecipare?
L’imperfezione è nel crederci separati; l’imperfezione, e con essa anche la nostra sofferenza, è nel pretenderci distinti dal tutto. La radice di ogni nostro male risiede in quel piccolo Io, in quel falso Ego che ci domina come un’ossessione, pur essendo illusorio.
Noi dobbiamo smetterla di dire: «Io», per imparare a dire: «Quello», secondo l’antichissima formula induista: «Tat Tvam Asi», «Tu sei Quello».
Noi siamo nell’Essere, noi siamo una parte o un riflesso o una emanazione dell’Essere. L’Essere è perfetto; e noi pure siamo perfetti, quando riconosciamo questa nostra comunanza con la Sorgente da cui ogni ente ha tratto l’esistenza.
Per divenire perfetti, non dobbiamo fare altro che lasciarci cadere; dobbiamo lasciarci andare, abbandonandoci nella corrente viva dell’Essere.
È chiaro che non raggiungeremo mai la vera perfezione, perché, nella presente dimensione di esistenza, condizionata dallo spazio e dal tempo, noi non possiamo raggiungere il definitivo compimento: che, difatti, avrà luogo su un altro piano di realtà. Tuttavia, dobbiamo puntare a quel traguardo, se vogliamo dare un senso compiuto alla nostra esistenza.
C’è una forza, molto più grande di noi, che ci pervade e che ci chiama: dipende da noi l’ascoltarla e l’assecondarla, oppure no. Ma se decidiamo di non accoglierla, rimaniamo confinati nell’inautenticità e finiamo per smarrirci dietro false immagini di bene; se, invece, decidiamo di abbandonarci ad essa, sarà lei a portarci e niente potrà più farci paura, niente potrà apparirci veramente impossibile.
La paura nasce, anch’essa, dalla illusoria credenza nella nostra separatezza, dalla quale deriva l’idea che non possiamo disporre se non delle nostre modeste risorse individuali. Ma se noi ci mettiamo in sintonia con l’Essere, ecco che diventiamo forti ed intrepidi; diventiamo luminosi e raggianti, praticamente invincibili.
Non solo: allorché ci affidiamo al flusso dell’Essere, noi entriamo in un circuito virtuoso, di cui fanno parte tutti gli altri enti e possiamo, così, usufruire delle energie psichiche e spirituali di innumerevoli altre entità, umane e non umane, che sono come tante gocce d’acqua nel grande, infinito e perfettissimo mare dell’Essere.
Ecco, allora, che le nostre parole, non sono più soltanto nostre; che i nostri pensieri, non sono unicamente nostri; che le nostre intuizioni, le nostre sensazioni, la nostra stessa felicità individuale non sono espressioni, limitate e balbettanti, del nostro piccolo Io; ma sono una nota nell’immensa sinfonia del Tutto, ispirata e pervasa dal soffio armonioso dell’Essere.
Questa bellezza, questa dolcezza, questo sublime accordo, sono alla nostra portata ed è realistico puntare a realizzarli, fin da ora.
L’Essere non ha fretta.
Ci sta aspettando da sempre: da prima che noi nascessimo; da prima che il mondo fosse.
Ci sta aspettando e ci sta chiamando.
Dobbiamo solo imparare a fare silenzio, per udirne la voce.
La voce che chiama a sé tutte le cose, da prima che ciascuna incominciasse ad esistere.