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Il frutto dell'infinito (II parte)

di Bruno Corzino - 02/03/2010

 

Mangiare o non Mangiare?

Per capire le conseguenze del definire il frutto proibito come una mela piuttosto che un fico occorre che ora ci soffermiamo ancora un attimo a definire meglio in cosa consiste la colpa, il “peccato” compiuto in illo tempore dai progenitori dell’umanità. Innanzi tutto vale la pena soffermarsi un secondo sul simbolismo dell’albero. In tutte le tradizione l’albero è uno dei simboli chiave (insieme alla montagna) dell’axis mundi, ovvero del “pilastro centrale” che collega Cielo e Terra. Si tratta di quell’asse che dal punto di vista fisico passa per i poli terrestri e dal punto di vista simbolico attraversa tutto il centro dell’universo. Si tratta di un simbolismo universale che ritroviamo in tutte le culture (rimandiamo per un’analisi più approfondita ai lavori di Mircea Eliade), è il cammino di mezzo, l’asse immobile attorno a cui ruotano le galassie ed il tempo. Tuttavia nella Genesi sembrano esserci due alberi, dotati di rispettivi frutti: l’albero della Vita e l’albero della Conoscenza del bene e del male. Vale qui ciò che abbiamo detto riguardo a Venere ed ai simboli della mela e del fico: in altri termini si tratta dello “sdoppiamento” dei due aspetti dello stesso asse centrale o Albero universale.
Secondo una tradizione cinese l'albero Chien-mu (Legno diritto, identificato con lo gnomone) è al centro del mondo e lungo di esso ascendono i sovrani per accordare fra loro Cielo e Terra; nell'antico Egitto l'Albero sacro per eccellenza è il sicomoro, “sui cui rami abitano gli dèi”, ma l’Albero cosmico era anche simboleggiato dal Djed, la colonna sacra munita di quattro capitelli, ritenuta a sua volta simbolo della colonna vertebrale (in particolare quella di Osiride, il “rinato”).
In America l'immagine dell'Albero cosmico ritorna nell'uso sioux di piantare un albero al centro dello spazio riservato alla danza del Sole, oppure, nella civiltà azteca, come emblema del Quetzalcóatl, il “Serpente piumato” che abbiamo già incontrato sopra.
Nell'Eurasia il simbolo dell'Albero cosmico riaffora nella betulla, sacra allo sciamanesimo siberiano, nell'Asvattha, l'"albero capovolto" degli antichi Indiani (simbolo della manifestazione che ha le sue radici nell’immanifesto), nel frassino Yggdrasill  (un frassino) sacro ad Odino presso gli antichi Germani.
In India abbiamo il Soma, pianta da cui si estrae un succo inebriante che mette in contatto con la divinità, in Persia l’Haoma, pianta sacra dotata della stessa proprietà.
Tuttavia l’aspetto duale di questo albero (che è origine con la sua rivoluzione sia del giorno che della notte, ovvero sia del bene che del male) è già ben evidente in un’immagine delle Upanishad in cui tuttavia si parla di un unico albero. Su questo Albero, dice il testo, stanno due uccelli: il primo mangia un frutto, il secondo, distaccato osserva. Il significato è chiaro: il primo rappresenta l’azione, l’essere “dentro il mondo” (quindi “mangiare”), l’altro rappresenta la contemplazione, il distacco dal mondo (che non implica il non agire quanto, secondo l’espressione upanishadica il non essere attaccato ai frutti dell’azione).
In questa metafora i due aspetti sono rappresentati dallo stesso Albero, dallo stesso frutto: la differenza è data da chi mangia (quindi è irretito da paura, attaccamento ecc.) e chi invece non mangia (ovvero si tiene estraneo da desiderio, paura di perdita ed attaccamento generati dagli oggetti su cui si agisce e si è di conseguenza agiti).
Un simbolismo simile si trova nel più antico poema epico dell’umanità pervenutoci, ovvero la storia dell’eroe sumero Gilgamesh. Riassumendo al massimo Gilgamesh è il re della città di Ur e vuole compiere grandi imprese, ma, scosso dalla morte dell’amico Enkidu, è angosciato dall’idea della morte ed arriva alla conclusione che l’unica vera impresa, la più grande e degna è quella di conquistare l’immortalità. Dopo molte peripezie riesce quindi a farsi svelare l’esistenza di un “frutto” (in realtà qui si tratta di un’alga acquatica) in grado di dare l’eterna giovinezza; il segreto gli è svelato da Utnapistim, il sopravvissuto al diluvio universale che vive per volontà degli dei in un giardino “oltre le acque della morte”, immortale. Tuttavia mentre risale dalle acque un serpente gli ruba la preziosa pianta, lasciando l’eroe con un pugno di mosche. Tuttavia il finale non è tragico: anzi sembra che proprio ora che Gilgamesh torna a casa rassegnato, riappacificato coi propri limiti, abbia raggiunto la vera felicità che in tutta questo rincorrere il “sempre di più” (imprese sempre più grandi, dalla costruzione delle mura della città, al taglio dei cedri custoditi dal mostro, alla lotta col “Toro celeste” fino alla ricerca dell’immortalità, l’impresa suprema). L’accettare il limite, il destino, sembra essere il lieto fine, il punto di arrivo della pienezza e della felicità dell’eroe.
Similmente per un’altra storia mesopotamica: la storia del re Etana. Etana è un uomo pio e tuttavia ha quello che per i tempi era un enorme problema: non riesce ad avere figli, il che nella mentalità sumerica era come morire del tutto, essere dimenticati, visto che era nel “nome”, nella discendenza, che un uomo si realizzava completamente e diventava immortale. Per risolvere questo problema va alla ricerca di una “pianta della fecondità”; dove si trova tale pianta però lo sa solo un’aquila.
Questa aquila vive in un albero “in comunità” con un serpente che ne abita le radici (ecco qui il tema insolito che ritroviamo nella frase del Vangelo di Matteo: “siate candidi come colombe ma astuti come serpenti”, dove però l’innocenza si mischia al “distacco dominatore” dell’aquila, tema ripreso anche da Nietzsche in Cosi parlò Zarathustra). Ad ogni modo la convivenza pacifica ha fine: l’aquila per paura che il serpente mangi per primo la pianta della fecondità e si avvantaggi, la mangia prima lei e stermina i serpentelli; per vendicarsi il serpente chiede aiuto al dio Shamash, dio del Sole e della giustizia, di fronte al quale i due avevano giurato di aiutarsi e non aggredirsi. Ottiene così aiuto, si nasconde in una carcassa di animale e quando l’aquila lo artiglia la aggredisce e la lascia morente in un fosso. In queste condizioni la ritrova Etana, che accetta di aiutarla a patto che lei lo conduca a prendere questa famosa pianta di cui ha bisogno. La cosa curiosa è che questa pianta non si trova sulla terra, ma in cielo, in uno dei cieli di cristallo e pietre preziose che secondo la cosmologia mesopotamica avvolgono il mondo; per la precisione il settimo cielo, quello di Venere. Come fa notare Claudio Saporetti nel suo Saggi su Gilgamesh, il mondo mesopotamico è ricco di questi frutti-gemme che splendono di luce propria; i pianeti stessi si abbeverano alla luce pulsante di queste gemme vive e da esse prendono il loro splendore mentre che sorgono passando dai giardini minerali e lucenti del cielo. Ad ogni modo, sarà per la stanchezza dell’aquila non ancora ripresasi dalle ferite, sarà per il peso o la fretta di Etana, fatto sta che la salita non riesce ed a un certo punto l’aquila non ce la fa più e cade al suolo insieme al suo improvvisato cavaliere.
La cosa che appare curiosa dal nostro punto di vista è che anche qui gli dei, invece di arrabbiarsi con Etana per il suo tentativo “oltre i limiti” e quindi sacrilego, premiano il fatto che si sia rassegnato, che abbia infine accettato il proprio destino. Almeno così pare dal seguito delle tavolette: sembra infatti che Etana abbia poi avuto la discendenza che tanto bramava; proprio nel momento in cui si era rassegnato al destino di non averne!
Non è difficile vedere in questi esempi il concetto greco di hybris, ovvero di un’azione che va oltre i limiti umani e pertanto viene punita dagli dei: una concezione resa assai famosa dai tragediografi dell’età classica. Questi esempi ci spingono però a pensare più in profondità tale concetto: qui infatti il tentativo “eccessivo” è punito con la semplice frustrazione e non in quanto “offesa personale agli dei” come viene di solito interpretato in modo semplicistico. Infatti, se la frustrazione porta infine a comprendere l’inutilità di questo sforzo e quindi all’accettazione del destino, la punizione cessa automaticamente. In altre parole si vede che la “punizione” che consiste nella frustrazione dei tentativi sembra più che altro un “correttivo” per portare alla comprensione ed all’accettazione dei propri limiti intrinseci, piuttosto che una ritorsione contro un “sacrilegio”.
Abbiamo introdotto il racconto di Etana soprattutto per mostrare come questo racconto sopravviva poi nelle gesta di Alessandro Magno la cui leggenda era assai popolare sino all’età moderna. Nel caso del condottiero greco, però, il “frutto” è quello dell’immortalità ed il volatile è un grifone che Alessandro convince a volare tenendo in mano due lance su cui sono infilzate delle bistecche. Anche in questo caso l’impresa fallisce ma né gli dei, né il Dio cristiano puniscono la sua hybris, ma anzi sembra che anche in questo caso la rassegnazione e l’abbandono all’ordine dell’universo vengano premiati da benevolenza. Tra le righe, per segnalare quanto le ramificazioni dei miti giungano persistenti e vitali dagli abissi del tempo per plasmare la realtà, segnaliamo questo stesso concetto nella figura di Alessandro cavalcante il grifone con le esche in mano la si può ammirare incisa sul frontone medioevale del duomo di Cremona.
Vale la pena infine di segnalare come questo abbandono ai comandi del destino è anche la virtù precipua di Enea, l’eroe di Virgilio, che la definisce pietas, ovvero l’accettazione dell’ordine delle cose, del volere degli dei. In questa luce appare anche comprensibile in cosa sia lodevole l’azione dei patriarchi biblici che non brillano certo di moralità, né umanità o buone azioni, ma rispondono con assoluta docilità ai comandi del destino.
Il mangiare il frutto è quindi simbolo di questa hybris, di questo voler infrangere i limiti del proprio essere, voler potere, godere, sapere di più di ciò che è adatto a ciò che si è.
Tornando al nostro albero, risulta quindi chiaro che la Genesi esprime questo simbolismo sdoppiando gli alberi ed i frutti: da una parte abbiamo il frutto della Vita che rappresenta l’essere, l’accettazione e l’unità (rappresentata dallo stesso pilastro centrale o Albero cosmico); dall’altea abbiamo il frutto della Conoscenza del bene e del male, che rappresenta la volontà di potenza che tende al dominio illimitato, ma che è sempre frustrata perché la scissione sta a monte. Il termine conoscenza si riferisce infatti proprio a questo (in tedesco giudizio di dice Urteil, “taglio originario”); si tratta di una scissione tra io e mondo, tra conscio ed inconscio, tra io e Altro che è del tutto incolmabile. Si tenta di colmare questa mancanza, questo vuoto esistenziale cercando di possedere l’Altro, quindi si cerca di sapere sempre di più, diventare sempre più potenti, più forti, più ricchi, migliori moralmente ecc. Tutto inutile perché il vero abisso è alle spalle, all’origine. La Genesi pone una netta separazione: da una parte troviamo la conoscenza intellettuale e sterile. Si tratta della conoscenza che classifica, ovvero divide (il nucleo di tutte le opposizioni è quella in bene e male), ma anche quella che mediante tale classificazione vuole agire sul mondo con la tecnica. Infatti per creare ad esempio un veicolo più veloce occorre classificare i veicoli, i motori ecc., ma soprattutto presupporre che sia bene avere un veicolo che va più veloce! Ecco quindi riproposta la scissione originaria di bene e male: risulta pertanto chiaro che la conoscenza tecnica è anch’essa null’altro che una branca della morale. Di conseguenza una conoscenza che classifica, ovvero scinde, divide (in greco dia ballo, da cui il temine “Diavolo”, letteralmente “colui che divide”).
Dall’altra parte abbiamo l’albero della Vita. Il suo simbolismo è ovvio, spontaneità, energia vitale, armonia con l’ambiente naturale ecc. Tuttavia vale la pena notare che esso contiene a sua volta un certo tipo di conoscenza (nel mondo ebraico studio e culto si identificano e non è pertanto immaginabile una condanna tout court della conoscenza). Di che tipo di conoscenza si potrà quindi trattare? Già, perché moltissimi identificano la conoscenza stessa, tutta la conoscenza, con il semplice classificare, memorizzare e giudicare. Vi è tuttavia un genere di conoscenza che trascende tutto questo ed è quella che la Genesi indica come Vita. In questo saggio ne abbiamo dato qualche accenno introducendo al simbolo, alla sua natura ed al suo funzionamento. Se la conoscenza malvagia, quella che ha portato alla “caduta” è la conoscenza che divide, è chiaro che la conoscenza della Vita sarà quella che unisce. Che non si può più nemmeno dire che è conoscenza, dal momento che conoscere implica la separazione di soggetto ed oggetto, mentre qui le due cose si fondono, diventano un’unica esperienza, un unico essere. Per questo la Genesi la chiama Vita e la oppone alla Conoscenza del bene e del male. I simboli possono aiutare a comprendere: un simbolo interiorizzato, insegna la psicologia, può cambiare una persona, dissolvere complessi (o viceversa crearne altri quando usato per il dominio, come nel caso dei “loghi” pubblicitari). Ecco quindi una conoscenza che agisce, che porta ad un essere e supera quindi la sua stessa natura di conoscenza; il contenuto intellettuale è messo tra parentesi e rimane solo il “qui ed ora”, la pura esperienza della vita.
Se già nel racconto della Genesi vi è uno “sdoppiamento” dei frutti e quindi una scissione tra aspetti positivi e negativi, con la trasformazione del frutto in mela questo concetto della Conoscenza del bene e del male subisce una metamorfosi, arrivando ad indicare qualcosa di diverso. È ora la passione, e segnatamente il desiderio sessuale (ma non solo) ad incarnare la passione inesauribile, insaziabile; il sesso sembra infatti  non essere più qualcosa che lasci soddisfatti, sazi dell’atto compiuto, ma qualcosa di cui “se ne vuole sempre di più”, una fame senza fondo. Ma se prima sembrava naturale che una passione (prendiamo una passione amorosa) che spinge al superamento dei limiti usuali (ad esempio può rendere possibili atti che un timido non compirebbe mai altrimenti!) tuttavia, nel suo divenire giunge ad un appagamento e così si esaurisce. Ed in questo esaurimento, in questo abbandono al destino sembra esserci la vera pace (nirvana in sanscrito significa semplicemente “espirazione”, il sospiro liberatorio di resa).
Si tratta di una percezione del “principio del piacere” leopardiano: l’uomo insegue senza fine mille piaceri diversi (ma qui l’accento è posto sul desiderio del piacere, ovvero su quello che implica una conquista, uno sforzo al di fuori della norma). Tuttavia ogni piacere è transitorio. In altre parole, si è sazi, ci si abitua e ci si annoia. Non si trova appagamento e la rincorsa continua così all’infinito, senza che la felicità sia mai sfiorata per più di un secondo per sfuggire al primo giro di ruota.
Come si vede qui non c’è nessuna presa di coscienza; l’uomo non si accorge mai di essere preda di una fuga continua da se stesso, da quell’unità che potrebbe dargli appagamento. Inoltre non si tratta più di un impulso in certa misura normale, ma diventa un vero e proprio peccato, qualcosa di sacrilego. Per questo Dio punisce chi vi si azzarda (e la società si incarica di reprimerlo, qualora non ci pensasse Dio).
Per constatare la differenza basta paragonare tutte le narrazioni che abbiamo visto sopra con quella che Dante fa del viaggio di Ulisse oltre le Colonne d’Ercole. Ulisse è spinto dalla sua curiosità (quindi da una conoscenza puramente intellettuale) che lo arde come una passione che lo spinge sempre più il là: oltre il limite assegnato agli uomini, che per Dante, come per i popoli classici, è costituito dalle Colonne d’Ercole, limite del Mediterraneo. Ulisse non vaga per le piatte distese dell’Atlantico fino a quando si accorge dell’inutilità delle sue pretese; non ne ha il tempo, perché dio lo punisce prima, appena giunge in vista del monte del Purgatorio. Come si vede, qui non è nemmeno contemplata la possibilità di una presa di coscienza, di un’accettazione consapevole del proprio destino e dei propri limiti. C’è solo una colpa, che è una tendenza all’infinito incallita, incurabile, che è punita da Dio e va repressa dalla società.
Questo il significato del frutto quando diventa mela: fuga verso un infinito negativo, mai raggiungibile, fuga dai propri limiti, da ciò che propriamente costituisce il proprio essere.
Una mutazione affatto simile subisce il simbolo del serpente. Presso le società arcaiche era universalmente venerato come simbolo di fecondità, di energia creatrice e rigenerazione, come mostra dalla sua pelle (templi a serpenti c’erano in Egitto, in Grecia, in India e nell’America centrale, tanto per nominare alcuni luoghi). Abbiamo già visto come nella tradizione indiana esso rappresenti kundalini, l’energia vitale che si arrotola sulla colonna vertebrale e rende possibile la coscienza (e quindi anche il suo potenziamento, il risveglio). Anche nei racconti di Gilgamesh e di Etana abbiamo visto che esso si comporta come guardiano ma soprattutto come aiutante, dal momento che è grazie alla sua azione che gli eroi falliscono e si rendono conto di come sia sbagliato desiderare senza sosta.
La tradizione ebraica tende a sua volta a confermare questa lettura: l’azione del serpente, che pure spinge gli uomini alla caduta è benefica, perché li rende coscienti della loro pochezza e li costringe ad iniziare un cammino di auto perfezionamento per tornare presso Dio. D’altronde la Bibbia ci presenta un serpente dalla valenze assai positive: si tratta del serpente di bronzo che Mosè prepara fuori dal deserto. Antenato nella forma dell’insegna delle farmacie, esso ha il potere di guarire tutte le malattie e di allontanare ogni male. Inoltre possiamo trovare sia il Cristo che Satana raffigurati come due serpenti e, secondo il modo di procedere che abbiamo già visto, addirittura le due figure unite nella forma di un’anfesibena, ovvero un serpente a due teste.
Tuttavia anche questo simbolo con la nuova mentalità basso medioevale diventa unilaterale: il serpente non ha più lati buoni, è solo il simbolo della carnalità, del sesso e quindi del male, è Satana e va combattuto e distrutto.
Ma col finire del medioevo ed il sorgere dell’epoca moderna ecco che la situazione si capovolge! La mela da strumento del peccato e della dannazione diventa simbolo di una tensione all’infinito, questa volta però giudicata positiva. La mela che cade sulla testa di Newton (lo ricordiamo: si tratta di un mito moderno, una leggenda inventata da Voltaire) indica una nuova epoca in cui la fuga da sé, la tensione perenne e dolorosa verso l’infinito diventano valori positivi e non più negativi. Si elogia una conoscenza sempre in fieri, ovvero che non conosce mai veramente, che rimanda sempre ad un futuro migliore, come i biglietti coi quali i rivoluzionari pagano le merci confiscate: dei pagherò che si rivelano puntualmente carta straccia. La tensione dei nervi, lo sforzo infinito, la lotta contro qualcosa che non si può vincere vengono elogiati e diventano le nuove virtù.
Dopo secoli di repressione questa mela diventa finalmente buona. La gente d’altronde non conosce più il latino (lingua antiquata) e dunque è sorpassato l’antico accostamento con “malum” che infamava questo nobile frutto. Non c’è più alcuna presa di coscienza possibile; l’uomo si sente oramai tanto lontano dalle sue radici, ovvero da quell’appagamento e quella consapevolezza di sé che lo portavano infine ad accettare il “qui ed ora” che non capisce nemmeno le ragioni per cui la fuga da se stessi, la tensione all’infinito vada repressa. Questa corsa eternamente frustrata verso il piacere è oramai incallita e patologica. L’uomo si convince pertanto che essa è naturale, anzi, diciamocela tutta, essa è buona! Non è forse questo il motore del tanto decantato progresso, della marcia inarrestabile verso più conoscenza, più ricchezza, più potenza tecnologica sul mondo ecc.?
Quindi si convince che tutto il male stava nel reprimere questa mirabile spinta; era la repressione di questo tendere il vero male, anzi il male dei mali. Ora l’uomo, finalmente liberato, la mela la mangia  senza più remore. Anzi, è la mela stessa a colpirlo, tanto è passivo di fronte a tale impulso, ma lui si convincerà senza dubbio che va a lui in realtà il merito della cosa: non è infatti Newton ad avere avuto prima la cultura, gli studi ecc. che gli hanno permesso, una volta colpito per caso dalla mela di formulare la legge della gravità? La superbia e l’ipertrofia dell’io fanno senza dubbio parte di questa stessa tendenza che va ricondotta alla mela: sono infatti il contrario dell’accettare l’azione di una forza estranea all’io nel plasmare il mondo (lo si chiami Destino, Dio, Caso, poco importa).
Le speranze di una tale accettazione, e quindi di ritrovare l’appagamento, la felicità dovute alla presa di coscienza della propria condizione e quindi dell’accettazione del destino (come il Buddha sotto il fico) sono quindi del tutto scomparse per chi vive sotto il mito della mela buona, della mela “liberata”, che è giusto mangiare.
Giungiamo infine al logo della casa produttrice di computers Apple. Una mela morsicata contenente i colori dell’arcobaleno, non disposti però nell’ordine normale, secondo le leggi di natura, ma in modo invertito, coi colori più caldi al centro, a sottolineare il morso. Evidentemente si vede nel morso alla mela un qualcosa di positivo, si esalta anzi questo atto che ha portato alla scienza; il legame col sesso e la “tentazione” (a cui ovviamente ci si lascia andare come suggerisce il morso) fa scattare i meccanismi di attrazione. L’arcobaleno invertito poi è l’esemplificazione più immediata della volontà di infrangere le leggi di natura, essendo l’ordine dei colori una delle manifestazioni dell’ordine naturale che con maggiore forza manifesta un’armonia che nasce dalle leggi limitanti di cui è intessuto il cosmo. Ci teniamo a precisare che non crediamo che i creatori di tale logo siano stati consapevoli a livello cosciente di questi simbolismi, né gli si può attribuire alcuna responsabilità: si sono limitati ad esprimere quello che inconsciamente è ritenuto il Bene da parte della società occidentale moderna.

Conclusioni

A quanto pare questa rapida escursione ci ha portato molto lontano. Abbiamo visto come qualcosa ritenuto comunemente senza importanza e trascurabile, come l’identificazione del “frutto proibito” con una mela piuttosto che una pera, una melagrana o un fico. Che un “semplice errore di trascrizione” può causare conseguenze di portata incalcolabile nella vita di miliardi di persone, nel mondo da essi plasmato e nel modo in cui agiscono e provano sensazioni.
L’analisi che abbiamo portato avanti ci ha condotti di necessità a fare un tuffo nell’oceano sterminato e fantastico che è il mondo dei simboli. Speriamo di essere riusciti ad introdurre il lettore “dietro le quinte” degli avvenimenti, a mostrare come sono proprio i simboli, o archetipi a tenere le fila dei pensieri, delle azioni e degli avvenimenti ed aver chiarito i meccanismi attraverso i quali ciò avviene. Non pretendiamo certo di avere esaurito un tale campo, ma semplicemente di avervi accennato e di aver acceso la curiosità del lettore al riguardo: in realtà il modo in cui tendono i fili di questa ragnatela che chiamiamo realtà sono assai più vari e complessi.
Ad esempio è curioso come i valori simbolici latenti tornano periodicamente a galla: riguardo all’aspetto negativo della mela, ad esempio, potrebbe sembrare che dopo l’accettazione di ciò che essa rappresenta (con il mito di Newton ad esempio) non si potrà più ritrovare alcun aspetto negativo in questo simbolo. Invece uno degli uomini che più ha incarnato la ricerca e la scienza contemporanee, ovvero Alan Turing, padre dell’informatica moderna, pare fosse ossessionato dal cartone di Biancaneve ed in particolare dalla scena in cui la strega cattiva intinge la mela nel veleno. In seguito alle pressioni del governo britannico dovute alla sua conoscenza di segreti militari di Stato ed alla sua scoperta omosessualità (al tempo reato oltre che giudicata immorale) fu spinto a togliersi la vita e lo fece proprio mangiando una mela avvelenata. In altre parole anche la salvifica scienza del progresso può portare ad alcune conoscenze velenose, anzi fatali.
A questo punto ricapitoliamo quindi la strada percorsa. In primo luogo abbiamo analizzato il significato del simbolo dell’Albero cosmico e di cosa significa mangiare o meno il “frutto proibito” definito spesso “frutto dell’immortalità” o “della Vita”.
In secondo luogo abbiamo visto come tale simbolo “centrale” possiede due significati opposti: in altre parole ha in sé sia l’odio che l’amore, sia la spontaneità e la che l’artificiosità e l’incoscienza (rappresentati nelle Upanishad dai due uccelli, uno che mangia il frutto mentre l’altro osserva coscientemente). Abbiamo quindi uno “sdoppiamento” degli Alberi e dei frutti, che non costituisce altro se non il corrispettivo di considerare le emozioni collegate a tali simboli come due opposti scissi piuttosto che uno spettro unico (i cui gradi hanno capo nei due opposti, ad esempio odio ed amore). Per sviscerare questo processo di “sdoppiamento” abbiamo analizzato il processo parallelo che è avvenuto all’immagine simbolica del pianeta Venere (la Grande Madre) a cui i “frutti di Vita” erano collegati (come anche i due loro “sostituti materiali” la mela ed il fico).
In questo caso abbiamo visto come tale sdoppiamento sia strettamente legato ad alcuni fatti astronomici ed in dettaglio al sorgere del pianeta Venere, della sua posizione, la sua traiettoria e luminosità ed infine il suo rapporto rispetto al Sole.
È venuto quindi chiarendosi il cambiamento avvenuto a partire dalla tarda antichità e proseguito nel medioevo, quando cioè, a seguito della traduzione di San Gerolamo si era oramai stabilita largamente l’identità del “frutto proibito” con la mela. Tale cambiamento è parallelo a quello avvenuto alla Venere mattutina, Lucifero, “portatore di luce”, divenuto un angelo ribelle autoproclamatosi principe del male. Similmente accade per il serpente, da simbolo di vita-morte e rinascita, diventa unilateralmente simbolo del male e del peccato, trascinando con sé il sesso, campo precipuo del suo simbolismo. Se prima le avventure premiavano chi si accorgeva della propria hybris, ovvero dell’inutilità di volere sempre di più e di opporsi quindi col proprio io al destino, ora questa inane fuga da se stessi viene semplicemente condannata, senza che sia prevista una presa di coscienza: in altre parole chi è malvagio è tutto malvagio. Non ha possibilità di rendersi conto del proprio complesso e sottomettersi al destino (quindi acquisire quella che per gli antichi era la somma virtù, la pietas). Questo perché il bene è ora pensato come del tutto scisso dal male: di conseguenza chi è malvagio è tutto malvagio e merita solo di ardere all’inferno senza alcuna pietà.
Facciamo una breve pausa per tornare al fico: esso conserva infatti il suo carattere doppio, costituito da una parte dall’energia vitale e fecondante, dall’altra dal desiderio di falsa conoscenza, di catalogazione, scissione e dominio del mondo. Tuttavia, contenendo entrambi i principi, il fatto di mantenere l’unità nell’albero e nel frutto rimanda alla possibilità di unificazione e sintesi. In altre parole, come nei miti antichi, il fico tramanda l’idea di un possibile superamento della scissione e della dualità (Conoscenza del bene e del male) per riacquistare l’Unità originaria. Per questo la bara di Osiride risorgente è un fico (sicomoro), come è sotto un fico che Buddha supera Maya e riceve l’illuminazione. Il principio negativo non è semplicemente ignorato o distrutto con la forza, ma viene integrato come gradino da superare, come pendice da cui si innalza la vetta della montagna.
Ritorniamo quindi alla mela divenuta simbolo del male, della carnalità, del serpente e del sesso come entità totalmente malvagie.
Sappiamo che ad un certo punto questo paradigma giunse ad un’intensità tale da capovolgersi: la condanna e la repressione di ogni contatto con la corporeità, col sesso, con la curiosità e la conoscenza necessaria (quindi cose molto diverse da quella Conoscenza del bene e del male la cui natura abbiamo cercato di spiegare sopra), è divenuta ad un certo punto tanto aspra e totale da non poter più essere tollerata. Se dovessimo pensare ad un momento storico penseremmo certo alla Riforma protestante ed alla Controriforma: situazioni che esasperarono la lettera di molti dogmi che per la maggior parte non venivano più nemmeno compresi. A questo punto, infatti, non si comprendeva più cosa fosse questa Conoscenza del bene e del male, questa fuga da se stessi verso un infinito mai raggiunto ma continuamente ossessionante, questo vano andare contro i limiti ed il destino per dominare il mondo. E si scambiava invece il male per ben altre cose, in gran parte quelle manifestazioni che prima erano ritenuti chiari segni del principio benefico, come abbiamo visto parlando del fico (energia vitale, fecondità sessuale, conoscenza intuitiva e diretta, spontaneità).
Il capovolgimento di questa situazione di repressione senza più comprensione dei principi fu la reazione illuminista. Non capendo più quale fosse il male da reprimere, ovvero non essendo più nemmeno percepita la possibilità di una presa di coscienza, di un risveglio della consapevolezza, si pensò che tutto il male derivava in definitiva dal reprimere tutti quegli istinti, come si faceva “nel medioevo”. Quindi quello che si diceva prima essere male è in realtà il bene: basta non reprimerlo ed avremo il progresso infinito del genere umano: più denaro, più felicità, più dominio sul mondo naturale ecc. Ad esempio l’egoismo prima represso diventa ora una gran cosa, principio di tutta l’economia; e l’economia stessa, ritenuta prima una dottrina al limite dell’immoralità per la sua palesemente ingiusta gestione delle risorse si scopre ora essere una signora scienza, madre di ogni possibile felicità umana (ovviamente solo corporea, quello che prima era negato). E così via un po’ per tutti i principi, a seconda della difficoltà di “digerire” la conversione (ad esempio il sesso è uno dei campi più ostici alla digestione, che ricade prontamente nella repressione; il suo tabù è in effetti troppo stagionato, vigendo da millenni, e possiede inoltre in alcune accezioni notevoli vantaggi sociali e genetici). Tutto questo rivolgimento vale ovviamente anche per il simbolo stesso del male: la mela.
Non si tratta più di una fetida prova della caduta, ricettacolo di ogni male, ma diventa ora anzi un grande strumento di riscatto umano (perché ora la superbia e l’ipertrofia dell’io sono premiate e giudicate positive!). La mela che colpisce al capo Newton è un segno della nuova conoscenza empirica che giunge per dare salvezza al genere umano. È un vero colpo di genio, un colpo che libera la ragione umana dai vincoli della natura, del destino, di ogni valore (quindi bellezza, bene e giustizia). L’uomo può fare quello che vuole e la mela, conoscenza scientifica che si perfezione di generazione in generazione all’infinito, gli da il potere di osare, osare sempre ed avanzare, avanzare senza fermarsi, non importa quante rovine ci si lascia dietro, si distrugge per ricostruire meglio in vista di un infinito che, per definizione, non arriverà mai.
Eccoci quindi giunti alla fine della trasformazione di questo simbolo.
Come si sarà certo notato tale mutazione è strettamente connessa con quella dello spirito dell’Occidente, come dimostra il confronto col simbolo del fico, con cui in Oriente è stato identificato il “frutto del peccato”: il suo significato rimane infatti costante, come una salda colonna, come una freccia puntata immancabilmente verso il risveglio.