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Elezioni in Iraq: intrighi e retroscena

di Alessandro Iacobellis - 04/03/2010

Il 7 marzo l’Iraq torna alle urne per eleggere il nuovo parlamento nazionale, cinque anni dopo le consultazioni che ne decretarono l’attuale assetto politico.
Molto è cambiato dal 2005, e gli equilibri che usciranno dalle urne di domenica sono tutt’altro che scontati.
Allora si votò per due volte: a gennaio, per eleggere un’assemblea costituente, e a dicembre, quando fu stabilita la composizione definitiva del parlamento dell’Iraq “liberato”, come vulgata democratica vuole.
Per prima cosa è mutata la situazione sul campo. Le passate consultazioni si tennero nel periodo di maggiore intensità dei combattimenti fra la resistenza sunnita e le truppe statunitensi. All’epoca, diversamente da oggi, la guerriglia aveva il controllo fisico di intere porzioni del territorio irakeno, sottratte all’autorità dell’allora primo ministro Allawi. Le principali città del nord (Mosul e Tall Afar), del centro (Tikrit, Samarra), dell’ovest (Ramadi, Falluja, Qaim) e dell’est (Baquba) erano aree virtualmente “off-limits”, così come la stessa Baghdad, all’infuori della blindata Zona Verde. A ciò si aggiungeva un’attività maggiormente ridotta, ma comunque presente, di resistenza anche nelle zone a maggioranza sciita del centro e del sud, a Bassora, Kut, e nelle città sante di Najaf e Karbala, principalmente ad opera dei nuclei dell’Esercito del Mahdi di Moqtada Al Sadr. La violenza delle offensive statunitensi nei confronti della popolazione civile, i massacri indiscriminati compiuti dall’occupante (da poco si era concluso il sanguinoso attacco a Falluja) fecero sì che nel gennaio 2005 gli arabi sunniti boicottassero le urne. Già nelle elezioni di dicembre, il Partito Islamico Irakeno (principale forza politica dei sunniti, guidato da Iyad Al Samarrai) pose fine al boicottaggio, aderendo alla coalizione del Fronte dell’Accordo Irakeno.
Il risultato delle consultazioni fu ripartito, come ampiamente previsto, su rigide basi etniche e religiose, naturale per un Paese che dal 2003 è stato scientificamente balcanizzato, mettendo una comunità contro l’altra secondo l’antico ma sempre efficace “divide et impera”, e che ha vissuto momenti di vera e propria guerra civile. La maggioranza dei seggi, con più del 40%, andò al blocco sciita dell’Alleanza Nazionale Irakena, fondata dai maggiori partiti confessionali quali lo Sciri, il Movimento Sadrista e il Partito Dawa (da cui fu espresso l’attuale premier Nouri Al Maliki). Al nord, superando antiche e feroci rivalità, anche i curdi si presentarono con una lista unificata, con l’Unione Patriottica del Kurdistan di Jalal Talabani e il Partito Democratico del Kurdistan di Barzani. I curdi irakeni, già semi-autonomi dalla prima Guerra del Golfo del ’91, sono da sempre i favoriti di Washington, che li ripaga politicamente (favorendo l’elezione di Talabani a presidente dell’Iraq), e permette che le zone montuose del nord fungano da retrovia per azioni armate in Turchia e in Iran (con conseguenti e giustificate reazioni di Ankara e Teheran). Altro aspetto da non sottovalutare è la massiccia presenza (sotto copertura, ma non negata) israeliana nella regione.
Questo l’Iraq uscito dalle urne del dicembre 2005. Nei cinque anni successivi, la strategia di “irakizzazione” del conflitto ha fatto rivedere agli Usa molti dei capisaldi su cui avevano basato i primi anni dell’occupazione. Rendendosi conto di avere dato peso eccessivo agli sciiti per contrastare la resistenza sunnita e per sostenere la de-baathizzazione, Bush e il generale Petraeus hanno “comprato” (nel vero senso del termine) i sunniti per portarli nell’ambito democratico. Il ritiro militare statunitense è già in corso, le unità combattenti sono state già tutte spostate in Afghanistan, da agosto di quest’anno rimarranno nel Paese cinquantamila soldati yankee il cui ritiro completo è previsto per il 2011. Il ragionamento cinico di Washington è il seguente: visto che adesso il nemico è l’Iran, non si può rischiare di lasciare un Iraq nell’orbita politica di Teheran, dopo anni di ingenti perdite umane ed economiche. Per questo il nemico in Iraq è diventato la sola, fantomatica Al Qaida, e tutti gli altri sono improvvisamente divenuti “patrioti che sbagliavano”, da reinserire nella vita civile, tramite istituzioni ad hoc come i Consigli del Risveglio (in pratica, tutti gli ex guerriglieri). Importante è stato in questo senso anche il caos politico creatosi all’interno del partito Baath, che all’indomani dell’invasione del 2003 era entrato in clandestinità e aveva sempre mantenuto un ruolo di alto profilo nella guida politica della resistenza anti-americana. Il momento di rottura avviene precisamente all’inizio del 2007, ossia dopo l’impiccagione di Saddam Hussein, che fino ad allora era ancora leader legittimo del partito (nonché presidente dell’Iraq), seppur prigioniero. Morto Saddam, si è aperta una spietata lotta per la sua successione fra Izzat Ibrahim Al Duri, già uomo di punta del regime e comandante militare della guerriglia, e Mohammed Al Muwali, astro nascente del partito post-invasione, con ottimi rapporti con la Siria (a differenza della vecchia guardia del Baath irakeno). Un feroce scontro interno che ha avuto pesanti ripercussioni sulle attività militari della guerriglia, accompagnato da oscure mosse di disinformazione mediatica (come le cicliche voci sulla morte o la cattura di Al Duri). Il risultato è che gli scontri in Iraq sono drasticamente diminuiti, sebbene il Paese non sia certamente pacificato e si registrino occasionalmente dei picchi di violenza (prevedibilmente anche in questa fase pre-elettorale). Gli statunitensi hanno saputo approfittare di questo sbandamento recuperando gran parte di quella nomenklatura dell’esercito irakeno rimasta disoccupata in seguito al processo di de-baathizzazione. De-baathizzazione che in ambito politico prosegue su un doppio binario: ancora in corso a livello locale, soprattutto nelle province a maggioranza sciita, il governo centrale (su suggerimento Usa) lo ha decisamente frenato. Ciò ha portato ad una frattura interna al blocco sciita, fra l’ala tecnocratica nella figura del premier Maliki e i suoi alleati confessionali, critici nei confronti dell’apertura ai baathisti. Ragion per cui alle elezioni di domenica il Dawa si presenterà da solo, sperando di pescare voti anche fra i sunniti (cosa impensabile rispetto a pochi anni fa). Lo sganciamento politico degli sciiti di Baghdad dall’Iran ha coinciso con un drastico peggioramento nei rapporti fra i due Paesi. Punzecchiature diplomatiche frequenti, e casi come l’occupazione di un campo petrolifero in una zona contesa di confine lo scorso dicembre. Del resto, anche i partiti in linea teorica filo-iraniani come lo Sciri di Al Hakim (acronimo per Supremo Consiglio per la Rivoluzione Islamica in Iraq, nato ad inizio anni ’80 con l’intento dichiarato di importare il modello iraniano) hanno come referenti politici in Iran più gli esponenti dell’ala tecnocratica come Rafsanjani, che quella militare-nazionalista rappresentata da Ahmadinejad attualmente al potere nella Repubblica Islamica. Le relazioni diplomatiche dell’Iraq “libero” sono difficili anche con un altro vicino: la Siria baathista. Dopo ogni grave attentato che sconvolge Baghdad e mette a nudo la fragilità del governo, regolarmente partono le accuse a Damasco di essere lo sponsor del terrorismo nel Paese, con tanto di confessioni (sulla cui spontaneità e verosimiglianza è lecito più di un dubbio…) dei presunti attentatori che in diretta televisiva raccontano di addestramenti e finanziamenti siriani (non si capisce a quale scopo, visto che il presidente Assad si è sempre espresso per la stabilità irakena). Non dimentichiamo poi che dal territorio irakeno partì, nell’ottobre 2008, un blitz delle forze speciali statunitensi in Siria che costò la morte a diversi civili (obiettivo dichiarato, manco a dirlo, il solito fantomatico leader di Al Qaida); un atto gravissimo di sfida alla sovranità nazionale siriana che restò, come al solito, impunito. Resta, in questo magmatico scenario, Al Sadr. Nazionalista sincero, che gode di indiscusso sostegno popolare ma politicamente emarginato, il cui movimento ha subito durissime persecuzioni anche a livello militare (come l’offensiva governativa nella primavera del 2008 a Bassora), tanto da rischiare l’annientamento totale.
In conclusione, il quadro strategico è chiaro: gli Usa vogliono andarsene dall’ex-Mesopotamia sapendo di avere compiuto la loro missione, impiantarvi un governo amico guidato da una classe dirigente sensibile ai richiami della Casa Bianca. Un cuneo filo-occidentale che si trova guarda caso fra le due sole Nazioni autenticamente libere del Vicino Oriente: Siria e Iran.