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«Ricordo di Ennio Flaiano», dipinto del suo amico e vecchio sodale intellettuale Mino Maccari

di Miro Renzaglia - 08/03/2010

Tutto cominciò in una birreria insieme a Leo...

Tutto ebbe inizio in una birreria, dove, per quei casi della vita che assumono i connotati del miracolo, del mito e poi della leggenda, Ennio Flaiano incontrò Leo Longanesi. I geni che, come sosteneva lo stesso Flaiano, non amano essere compresi, sanno però comprendersi benissimo fra loro. E Leo Longanesi riconobbe nell'altro non solo un pari genio, ma una mano narrativa che si era fin lì repressa. Come andarono le cose, lo racconterà lo stesso Flaiano quando, il 27 settembre del 1957, si trovò a scrivere per Il Mondo il necrologio dell'amico mentore: «Ho ricordato come l'avevo conosciuto, vent'anni fa [probabilmente, un lapsus: doveva trattarsi del 1946, quindi 10 e non 20 anni prima, come si legge, ndr] in una birreria dove, dopo quattro chiacchiere, mi disse: "Si metta a scrivere e non perda tempo". Me lo ordinò addirittura, senza spiegarmene le ragioni, che io non vedevo chiare. Era il suo modo di convincere i pigri e i delusi della mia specie...». Cronaca vuole che da quella perentoria esortazione, che dettava perfino i tempi della stesura in tre mesi, nascesse Tempo di uccidere, l'unico romanzo di Ennio Flaiano, passato però alla storia ufficiale della letteratura italiana come il vincitore della prima edizione del Premio Strega, nel 1947.
Tempo di uccidere viene spesso fatto spesso passare come opera memorialistica della personale vicenda del suo autore che, nel 1936, partecipò alla impresa della conquista etiope, con annessa critica all'epopea coloniale del regime fascista e all'insensatezza delle guerre. Non è così. O meglio: è così solo se ci si riferisce al contesto della trama narrativa. Ma, in questo caso, meglio che in Tempo di uccidere, Flaiano ha fatto con la sua teatrale La guerra spiegata ai poveri. In realtà la trama, in qualsiasi opera narrativa o teatrale che sia, è sempre e solo un semplice pre-testo per raccontare altro.
L'altro in questione sulle pagine di questo romanzo è la stessa anima del protagonista, il tenente Enrico Silvestri, che com-bacia al millesimo con quella di Flaiano. In questa chiave, tutto va interpretato in forma allegorica e/o simbolica. l'Africa (l'Etiopia): la terra promessa. La meravigliosa fanciulla etiope con-turbante di cui il tenente s'invaghirà, dal nome appropriato di Mariam: lo stato verginale e primigenio. Il suo ferimento accidentale e, poi, l'omicidio volontario per evitarne lo strazio dell'agonia: l'innocenza perduta. Lo spaesamento dell'assassino in una Massaua caotica e labirintica: lo smarrimento dell'io nel senso di colpa. La lebbra che Silvestri teme aver contratto dalla fanciulla concupita: la giusta punizione. I reiterati tentativi di omicidio e di furto che il protagonista compirà per sottrarsi alla giustizia terrena: la resa dell'individuo alla ineludibile malvagità umana. L'uscita dall'incubo della malattia, grazie alle rivelazioni del padre della fanciulla con-turbante: nemesi, catarsi e resurrezione.
Esagero, forse, nel privilegiare una lettura del testo in chiave di allegoria cristiano-escatologico? Macché: mica ce l'ho messa io in epigrafe al romanzo il passo del Qohèlet (più noto come l'Ecclesiaste) III, 3: «… tempo di uccidere e tempo di sanare; tempo di…», ce l'ha messa Ennio Flaiano stesso. E se non è una freccia direzionale questa, utile a indicare l'interpretazione che l'Autore vuole sia data alla sua opera, allora ditemi a che serve il peritesto. Semmai, dobbiamo chiederci a quale verbo alludano quei puntini sospensivi che chiudono la citazione biblica. Il libro dei libri riporta «demolire» ma proprio sull'omissione si apre l'incipit del narrato da Flaiano: «Ero meravigliato di essere vivo, ma stanco di aspettare soccorsi. Stanco soprattutto degli alberi che crescevano lungo il burrone, dovunque ci fosse posto per un seme che capitasse a finirvi i suoi giorni, Il caldo, quell'atmosfera morbida, che nemmeno la brezza del mattino riusciva a temperare, dava alle piante l'aspetto di animali impagliati. Da quando il camion s'era rovesciato, proprio alla curva della prima discesa, il dente aveva ripreso a dolermi, e ora un impulso che sentivo irresistibile (forse l'impazienza della nevralgia) mi spingeva a lasciare quel luogo. "Io me ne vado", dissi alzandomi. Il soldato che fumava soddisfatto, ormai pronto a dividere con me gli imprevisti della nuova avventura, si rabbuiò. "E dove?" chiese».
Eccolo, dunque, il verbo giusto con il quale Flaiano sostituisce il biblico «demolire»: «c'è un tempo per…» andare. Andare, andare e basta: il "dove" per qualsiasi viaggiatore (dico: viaggiatore, non turista) che si rispetti è solo una scusa per partire. Non ambire più ad alcuna mèta è la sua vera mèta. Il viaggio, e annessa ipotesi del ritorno, sono all'origine dei tòpoi della letteratura europea. Nel suo secondo monumentale invito alla lettura che Omero ci fece, all'alba della nostra civiltà, il mito dell'odisseo viene scolpito e descritto a fulcro dell'essenziale umano: metafora indefettibile dell'errare, in ogni senso dell'essere. Resta da incidere a chiare lettere "che cosa" si vada veramente a cercare, errando. Che, poi, è la domanda che ogni onesto errante (in tutti e due i sensi) deve farsi, qualunque sia la strada che prende. Io propendo per questa risposta: vai, conosci te stesso e dimentica chi sei stato fino ad ora. Mi sono di sostegno queste parole del romanzo: «L'aver ucciso Mariam ora mi appariva un delitto indispensabile. Più che un delitto, anzi, mi appariva una crisi, una malattia, che mi avrebbe difeso per sempre, rivelandomi a me stesso». Che si vada per geografie, infatti, non esclude che si seguano itinerari della Psyché. Anzi, se l'azione esterna produce effetti eco all'io che la mette in essere («Chi fa il male, lo fa soprattutto a se stesso», diceva qualcuno che ci vedeva chiaro...); quell'azione privilegiata che è l'errare (in entrambi i sensi) riconduce all'ente dell'essere l'eco di un'intera polifonica. Poi, è ovvio, sta al direttore d'orchestra armonizzare le note in sinfonia. Come fece Omero. Come ha fatto Flaiano.
C'è un altro errore da evitare nella interpretazione di questo romanzo: quello di un Flaiano tutto inscritto e aderente alla, come s' detto sopra: "escatologia cristiana". Ed è ancora lui, l'abruzzese a farcene accorti. Rimasto senza sigarette, il tenente Silvestri non si farà scrupolo di strappare dalla bibbia una pagina e rollarsela con i resti di un'oncia di tabacco. Come dire: tutto va in fumo. Tutto è: «vanità delle vanità…».
E, allora, tutto torna. Torna la sana scepsi di un Ennio Flaiano troppo smagato per poter appartenere ad una chiesa qualsiasi: «Noi viviamo - grazie a Dio - in un'epoca senza fede», il libertario che non sa che farsene dei dogmi, se non "fumarseli": «La verità, caro amico, dal momento che me la imponi, non mi interessa»); poi il relativista: «Certo, certissimo, anzi: probabile»; l'indipendente refrattario ad essere classificato nelle maniere della destra e della sinistra: «In Italia i fascisti si dividono in due categorie: i fascisti e gli antifascisti»; torna, in assoluto, l'amante fedele alla religione della libertà. Torna, Flaiano, torna…