Newsletter, Omaggi, Area acquisti e molto altro. Scopri la tua area riservata: Registrati Entra Scopri l'Area Riservata: Registrati Entra
Home / Articoli / Marx e la decrescita. Per un buon uso del pensiero di Marx (II parte)

Marx e la decrescita. Per un buon uso del pensiero di Marx (II parte)

di Marino Badiale, Massimo Bontempelli - 08/03/2010

7. Accumulazione, decrescita, anticapitalismo.Dopo aver spiegato perché riteniamo che il materialismo storico e la teoria della rivoluzione di Marx non possano rappresentare la basi teoriche per l’anticapitalismo contemporaneo, esaminiamo ora la teoria marxiana del modo di produzione capitalistico. Cercheremo di mostrare come in essa si possano trovare tali basi teoriche, e come appaia naturale il collegamento con la teoria della decrescita.Il modo di produzione capitalistico è caratterizzato dall’appropriazione del plusprodotto nella forma specifica del plusvalore, attraverso la compravendita e l’uso di quella particolare merce che è la forza-lavoro. La caratteristica fondamentale che qui ci preme sottolineare è il fatto che tale appropriazione si esprime necessariamente nella forma della riproduzione allargata. Si ha riproduzione allargata del capitale quando, dopo un ciclo formato dall’acquisto di forza-lavoro, dal suo uso produttivo di valore e dalla realizzazione di tale valore sul mercato, viene iniziato un nuovo ciclo con un capitale maggiore di quello del primo ciclo, utilizzando parte del plusvalore prodotto e realizzato nel primo ciclo. Per usare un linguaggio non marxiano, si ha riproduzione allargata quando una parte dei profitti vengono reinvestiti, in un modo o nell’altro, nel processo produttivo. Marx studia dapprima (nel capitolo 21 del primo libro del Capitale, dedicato appunto alla “riproduzione semplice”) il caso di un capitalismo in cui non vi sia riproduzione allargata, per mostrare che si tratta di un modello astratto, non corrispondente alla realtà, utile solo a porre in evidenza un punto particolare, cioè il fatto che il plusvalore è sempre lavoro non pagato. La realtà dell’accumulazione capitalistica è descritta nel capitolo successivo, dedicato alla “trasformazione del pluvalore in capitale”, nel quale Marx prima osserva che “adoperare plusvalore come capitale ossia ritrasformare plusvalore in capitale significa accumulazione del capitale[1] e poi che  “considerata in concreto, l’accumulazione si risolve in riproduzione del capitale su scala progressiva”[2], cioè appunto in riproduzione allargata. La riproduzione allargata è inevitabile, all’interno di un’organizzazione capitalistica, perché è diretta conseguenza della concorrenza: “la concorrenza impone ad ogni capitalista individuale le leggi immanenti del modo di produzione capitalistico come leggi coercitive esterne. Lo costringe ad espandere continuamente il suo capitale per mantenerlo, ed egli lo può espandere soltanto per mezzo dell’accumulazione progressiva”[3]. La riproduzione allargata, o accumulazione progressiva, è dunque strettamente legata agli aspetti fondamentali del modo di produzione capitalistico: “tutte le circostanze che determinano la massa del plusvalore cooperano anche a determinare la grandezza dell’accumulazione”[4], e inoltre “insieme con l’accumulazione del capitale si sviluppa quindi il modo di produzione specificamente capitalistico, e, insieme al modo specificamente capitalistico, l’accumulazione del capitale”[5]. Nell’analisi marxiana il capitalismo è quindi un rapporto sociale nel quale l’allargamento continuo della produzione, la sua mancanza di ogni limite, appare elemento costitutivo e fondamentale. Questo fatto rappresenta la base di una spiegazione convincente dei problemi ecologici generati dalla società attuale. E’ infatti del tutto chiaro che un sistema economico votato all’espansione senza limiti non è compatibile con la finitezza dell’ambiente naturale. Ma questo tema  non si esaurisce qui. Infatti, la tendenza all’accumulazione illimitata non devasta solo la natura, ma la stessa società umana.  Essa conduce infatti, alla fine, all’estensione del rapporto sociale capitalistico a tutti gli ambiti della società, anche a quelli la cui logica di funzionamento è del tutto incompatibile con esso (la scuola, per esempio). Fino a qualche decennio or sono nei paesi capitalistici la subordinazione alla logica del rapporto sociale capitalistico dei vari ambiti sociali esterni all’impresa capitalistica rappresentava un loro vincolo esterno, mentre al suo interno ogni ambito non aziendale continuava a funzionare secondo la sua logica specifica, diversa da quella del profitto. La novità che è intervenuta negli ultimi decenni sta nel fatto che tutte le sfere della società sono sussunte alla logica dell’accumulazione capitalistica, per cui la scuola è diventata un’azienda, gli ospedali sono diventate aziende, ed è diventato un’azienda anche lo Stato, che non è più “Repubblica italiana fondata sul lavoro”, ma appunto “azienda-Italia”. Abbiamo introdotto tempo addietro l’espressione “capitalismo assoluto” per designare questa inedita configurazione del rapporto tra formazione sociale e rapporto di produzione, caratterizzata da un assorbimento quasi totale della prima nel secondo[6]. Arrivato il capitalismo nella fase del capitalismo assoluto, lo sviluppo capitalistico devasta la natura, la società e la psiche[7], e genera quindi forti resistenze sulle quali radicare una forza anticapitalistica. Una delle forme che tali resistenze assumono oggi in Italia è, come dicevamo sopra, quella delle proteste popolari contro le grandi opere che devastano il territorio. Ma si tratta solo di un esempio. Le resistenze contro lo sviluppo capitalistico possono assumere forme molto diverse, e il compito di una forza politica anticapitalistica sarebbe quello di collegare e coordinare tali lotte offrendo ad esse una progetto complessivo. Su questo punto sono necessarie alcune precisazioni. In primo luogo occorre distinguere, come sempre si è fatto nella tradizione marxista, fra potenziale oggettivo delle lotte e coscienza soggettiva dei protagonisti delle lotte stesse. Nei vari tipi di resistenze contro lo sviluppo capitalistico gli strati sociali coinvolti possono non avere coscienza della natura di queste lotte, possono aderire alla lotta per motivi puramente “locali”, possono insomma esprimere quella che è stata chiamata “sindrome NIMBY”[8]. Resta il fatto che tali lotte hanno un contenuto oggettivo anticapitalistico, per i motivi che abbiamo spiegato: mettono in questione l’accumulazione di plusvalore, e quindi la sostanza stessa del capitalismo. In secondo luogo, per poter costruire su queste basi una forza politica anticapitalistica occorre avere ben presenti le novità della situazione, che possono essere compendiate in due punti:a. Le forze anticapitalistiche nella tradizione marxista avevano ben chiara la necessità di superare lo sviluppo capitalistico, ma rimandavano tale necessità al momento in cui lo sviluppo delle forze produttive avesse portato le contraddizioni capitalistiche al punto di esplosione, per cui le scelte politiche concrete delle forze anticapitalistiche non contraddicevano lo sviluppo stesso ma anzi tendevano a favorirlo, impostando la lotta politica piuttosto sul piano della redistribuzione del reddito. Al contrario le resistenze alle quali facciamo riferimento tendono fin dal loro primo manifestarsi a contestare immediatamente lo sviluppo capitalistico, ed è questa l’unica prospettiva sulla quale abbia senso basare oggi una forza politica anticapitalistica. Le lotte per la redistribuzione dei proventi dello sviluppo capitalistico oggi sono perse in partenza (torneremo più avanti su questo punto). b. Le lotte anticapitalistiche del passato erano strettamente collegate ad una classe sociale. Nelle resistenze anticapitalistiche attuali il soggetto antagonista non è più identificabile con una classe sociale: non si tratta del proletariato né di un suo sostituto. Il soggetto antagonista non è cioè sociologicamente precostituito dal modo di produzione, dai rapporti sociali dati, ma si costituisce in una prassi trasversale a diversi gruppi sociali, attraverso l’emergere di bisogni umani conculcati. Per usare una vecchia formula, la resistenza anticapitalista è oggi “resistenza umana”.   

8. Sulle contraddizioni del capitalismo. Cerchiamo di chiarire ulteriormente. E’ noto che in fasi storiche precedenti i marxisti avevano individuato in modi diversi la contraddizione fondamentale del capitalismo, sulla quale fare leva per scalzarlo. Essa poteva così essere individuata da alcuni nella contraddizione fra capitale e lavoro, da altri nel sottoconsumo implicito nell’economia capitalistica, da altri ancora nella caduta tendenziale del saggio di profitto. Per fare un po’ di ordine in queste discussioni, conviene ricordare che quando parliamo di “contraddizioni del capitalismo”, ci riferiamo alla sfera logica, al concetto astratto di “modo di produzione capitalistico”, e che, una volta individuata una contraddizione insita nel concetto stesso di tale modo di produzione, essa può manifestarsi empiricamente in vari modi, a seconda delle concrete situazioni storiche. Per impostare una politica anticapitalistica adeguata ai tempi occorre dunque capire quale sia la forma che le contraddizioni capitalistiche assumono in una determinata fase storica.Così, l’immiserimento crescente del proletariato è stata indubbiamente la forma in cui si sono manifestate le contraddizioni del capitalismo nella fase storica della vita di Marx ed Engels, ma tale contraddizione è sembrata superata per un lungo periodo, almeno nei paesi occidentali. La contraddizione fra le capacità produttive generate dal capitalismo e i bassi salari di gran parte della popolazione, che si manifesta in definitiva come scarsità di domanda, può infatti rimanere latente per intere fasi storiche, come quella del secondo dopoguerra, nella quale la creazione di nuovi prodotti indirizzati alle masse, combinata con la politica dei redditi di stampo “socialdemocratico”, ha permesso per decenni di ottenere una domanda robusta e crescente per la produzione capitalistica.Ma qual è allora la contraddizione fondamentale del modo di produzione capitalistico, e quindi la matrice ultima delle violente crisi economico-sociali ricorrenti nelle formazioni sociali capitalistiche? Nella teoria economica di Marx, essa è rappresentata dalla contraddizione tra le condizioni di produzione del plusvalore e le condizioni di realizzazione del plusvalore stesso. L’esposizione di questa contraddizione si trova nel capitolo XV del terzo volume del Capitale, e non è quindi opera diretta di Marx (il quale, come è noto, del Capitale ha potuto curare solo la pubblicazione del primo volume), ma è stata costruita dopo la sua morte da Engels, organizzando  e rendendo coerenti sparsi e disorganici appunti dell’amico. Ciò significa che la ricostruzione della teoria di Marx sulla ragione delle crisi capitalistiche richiede, in mancanza di un testo diretto di Marx, un grande impegno interpretativo basato sull’assimilazione dell’impianto logico della scienza economica di Marx quale risulta dal primo volume del Capitale e dai Grundrisse.Ad ogni modo, nel capitolo XV del terzo volume del Capitale si dice che il limite della produzione capitalistica, che ne determina le sempre più devastanti crisi periodiche, sta nella teleologia costitutiva del capitale stesso, cioè nella sua incessante autovalorizzazione, che si basa da un lato sulla espropriazione e l’impoverimento dei produttori, in modo da estorcere loro in misura crescente il pluslavoro con cui accumulare un sempre maggiore plusvalore, e da un altro lato sulla trasformazione di questo plusvalore in denaro attraverso la vendita delle merci che lo incorporano, tale da consentire il suo reinvestimento in un nuovo ciclo produttivo che lo valorizzi ulteriormente. Ma è chiaro che questi due lati dell’autovalorizzazione del capitale, cioè della teleologia costitutiva del capitale stesso, sono in contraddizione tra loro. Tale contraddizione è precisamente esposta nel brano seguente: “Il guadagnare questo plusvalore costituisce il processo di produzione immediato, che, come si è già detto, non ha altri limiti che quelli sopra menzionati[9]. Il plusvalore è prodotto non appena il pluslavoro che è possibile estorcere di trova oggettivato nelle merci. Ma con questa produzione del plusvalore si chiude solo il primo atto del processo di valorizzazione del capitale, la produzione immediata (…). Comincia ora il secondo atto di quel processo. La massa complessiva delle merci, il prodotto complessivo, tanto la parte che rappresenta il capitale costante e variabile, come quella che rappresenta il plusvalore, deve essere venduta. Qualora questa vendita non abbia luogo, o avvenga solo in parte oppure a prezzi inferiori a quelli di produzione, lo sfruttamento dell’operaio, che esiste in ogni caso, non si tramuta in un profitto per il capitalista (…). Le condizioni dello sfruttamento immediato e della sua realizzazione non sono identiche: esse differiscono non solo dal punto di vista del tempo e del luogo, ma anche da quello della sostanza”.[10]La tradizione marxista ha per lo più insistito su altre contraddizioni capitalistiche, come abbiamo sopra indicato. Una di queste è la contraddizione fra capitale e lavoro, che attribuisce una falsa valenza anticapitalistica alle rivendicazioni redistributive della classe operaia, conformemente all’impostazione ideologica della Seconda Internazionale. Un’altra è la la caduta tendenziale del saggio di profitto. Si tratta in questo caso del fatto che lo sviluppo capitalistico richiede un investimento sempre maggiore in quello che Marx chiama “capitale costante” (macchinari, materie prime, strutture) e quindi una diminuzione relativa di quello che Marx chiama “capitale variabile” (essenzialmente, i salari). Poiché il plusvalore è generato dal capitale variabile, ciò implica (a parità di altre condizioni) una diminuzione del rapporto fra capitale investito e plusvalore ottenuto, e questo significa appunto una diminuzione tendenziale del saggio di profitto. Sulla base di questa configurazione viene attribuita al capitalismo una falsa tendenza alla stagnazione delle forze produttive, coerentemente con quanto affermato da Marx nella celebre Prefazione a Per la critica dell’economia politica[11], e con l’impostazione ideologica del comunismo novecentesco. La trattazione della caduta tendenziale del saggio di profitto, anch’essa esposta nel terzo volume del Capitale, ha in realtà una funzione del tutto diversa all’interno della teoria marxiana del modo di produzione capitalistico.  Infatti la reazione del capitalista alla caduta del saggio di profitto è l’allargamento della produzione: se aumenta in modo adeguato la massa dei prodotti, essa permette un accrescimento continuo del profitto complessivo anche se diminuisce il profitto sulla singola unità prodotta. Di qui si diramano però conseguenze importanti. In primo luogo l’aumento della produzione si ottiene tramite investimenti in capitale costante che riproducono ad un livello superiore lo stesso problema della caduta del saggio di profitto, che quindi è un processo che si autoalimenta spingendo il capitalismo ad una continuo allargamento della scala della produzione. In secondo luogo l’aumentata produzione deve pur essere venduta sul mercato, e di qui nasce la necessità di sottrarre quote di mercato agli altri capitalisti, e quindi l’acuirsi della concorrenza fra le singole unità capitalistiche. Il testo del terzo volume del Capitale ripete più volte che caduta del saggio di profitto ed accelerazione dell’accumulazione non sono che due diverse espressioni del medesimo processo di sviluppo delle forze produttive. Ne consegue che il capitale non produce affatto, alla luce di queste teorizzazioni marxiane, la stagnazione delle forze produttive, ma produce, al contrario, il loro sviluppo, in modo che l’allargamento della scala di produzione, e quindi della massa del plusvalore, ipercompensi gli effetti della caduta tendenziale dela saggio di profitto. In questo modo, però, la coazione del capitale ad allargare la scala della sua produzione erode quegli stessi elementi storici e sociali che favoriscono la realizzazione del plusvalore sul mercato. La caduta tendenziale del saggio di profitto si rivela così, nella teoria marxiana del modo di produzione capitalistico, non la contraddizione sistemica fondamentale, ma la condizione, il presupposto della contraddizione essenziale, quella sopra indicata tra il modo in cui il plusvalore è prodotto e il modo in cui è realizzato. Una forma “empiricizzata” ed “economicistica” di questa contraddizione fondamentale è quella che si traduce nella scarsità della domanda, alla quale abbiamo sopra accennato[12]. Da questa scarsità di domanda sono nate le tre grandi crisi di sovrapproduzione del 1929-33, del 1974-75 e del 1980-82. Oggi, invece, esistono mezzi che permettono di aggirare questo problema, anche se mai in modo compiuto e risolutivo, e la contraddizione fondamentale si esprime in altri modi, indotti da questi stessi mezzi che permettono di mettere in sordina il problema della scarsità di domanda. Si può infatti notare che condizione per la creazione del plusvalore è lo sfruttamento della natura, mentre la condizione per realizzarlo è un consumo crescente di merci, e questo esige la stabilità necessaria alla ripetizione allargata del consumo. Ma lo sviluppo capitalistico nella fase attuale devasta società e natura, e in particolare devasta il territorio e le comunità in esso insediate, come abbiamo detto. Ecco quindi indicata una nuova forma concreta, storica, della contraddizione fondamentale del capitalismo, e di conseguenza una possibile leva per la lotta anticapitalistica: le lotte contro la devastazione capitalistica della natura, le lotte delle comunità invase e sconvolte dai vari tipi di interventi capitalistici, le lotte in difesa del territorio contro le grandi opere, rappresentano in questa fase storica l’esplicitarsi della contraddizione fondamentale del capitalismo e hanno, se condotte con coerenza, una valenza oggettivamente anticapitalistica (qualsiasi sia la coscienza di chi è coinvolto in esse) perché rappresentano un ostacolo all’accumulazione allargata del plusvalore cioè, come abbiamo indicato sopra, all’essenza del modo di produzione capitalistico. L’idea della decrescita è l’idea della graduale sostituzione del consumo di merci con quello di beni e servizi non mercificati, del consumo di beni prodotti intensivamente su larga scala e trasportati da lunghe distanze con quello di beni prodotti su piccola scala e trasportati su brevi distanze, di alti consumi di energia con bassi consumi di energia, della costruzione di nuove opere invasive del territori con il riuso e la manutenzione di opere già esistenti. Da quanto fin qui detto emerge che tale idea è allora, nella fase storica attualmente raggiunta, l’idea, la cui prassi costituisce il fattore capace di far esplodere la contraddizione fondamentale del capitalismo e di far nascere una nuova, non predeterminata, forma di società. Facciamo un esempio. Abbiamo detto che oggi in Italia la distruttività dello sviluppo si percepisce soprattutto nel carattere invasivo delle “grandi opere” che devastano il territorio. Il territorio è talmente consumato che ogni suo ulteriore consumo ha un immediato impatto distruttivo sugli equilibri ambientali e antropici, determinando forme di resistenza popolare che nascono quasi sempre con angusti orizzonti localistici e con marcate immaturità che le rendono ingannabili e aggirabili, e che starebbe a chi si dice anticapitalista battersi per portare a maturazione. La difesa dell’integrità del territorio, attraverso proposte pratiche di decrescita, consente infatti di colpire elementi vitali di accumulazione del plusvalore (per esempio: sviluppo degli affari attraverso le cosiddette grandi opere, le grandi reti di distribuzione dell’energia, le grandi arterie di trasporto, lo smaltimento dei rifiuti) connettendo questa lotta contro l’accumulazione di plusvalore alla tutela delle condizioni materiali di vita degli insediamenti abitativi, e facendone la leva per nuove forme di redistribuzione della ricchezza collettiva a vantaggio dei ceti subalterni. La difesa dell’integrità del territorio, attraverso proposte pratiche di decrescita, consente inoltre di colpire l’attuale intreccio affaristico-corruttivo tra ceti politici e imprese capitalistiche che ruota attorno alle rendite ricavabili dal consumo del territorio.Più in generale, dovrebbe ormai essere evidente la sostanza delle nostre tesi: se la riproduzione allargata del capitale, l’accumulazione del plusvalore, è un aspetto sostanziale e ineliminabile del modo di produzione capitalistico, allora se c’è la decrescita, cioè la negazione dell’accumulazione, si mette in questione la produzione di plusvalore, quindi il capitalismo. La decrescita coincide quindi con la distruzione del modo di produzione capitalistico. La proposta della decrescita è quindi la proposta di un agire politico anticapitalistico adeguato alle forme in cui oggi si manifestano le contraddizioni capitalistiche. Liberando l’anticapitalismo dalla ricerca di un Soggetto Sociale Rivoluzionario (la classe operaia, o i suoi succedanei come gli emarginati o gli immigrati) che faccia da garante metafisico del buon esito dell’impresa rivoluzionaria, la decrescita permette di guardare la realtà concreta alla ricerca delle contraddizioni reali che l’attuale fase di sviluppo del capitalismo genera: la degradazione dell’ambiente della vita comune, lo sconvolgimento continuo del territorio, l’invivibilità delle città, la lenta cancellazione di ogni forma di servizio sociale, l’insicurezza su tutti gli aspetti fondamentali della vita, tutto ciò si traduce in un continuo peggioramento della vita che genera tensioni e scontri. Essendo le varie correnti anticapitalistiche incapaci di entrare in contatto con questo disagio, esso si traduce  in pulsioni razziste e richieste securitarie, o semplicemente in degrado mentale. Se l’anticapitalismo che si ispira a Marx facesse propria la proposta della decrescita potrebbe intercettare questo crescente disagio sociale, uscendo così dal vicolo cieco in cui si è cacciato inseguendo un inesistente Soggetto Sociale Rivoluzionario, e tornando a incidere sulla realtà[13].  

9. L’unica via d’uscita. La decrescita rappresenta l’unica prospettiva odierna di lotta anticapitalistica nei paesi occidentali. Le precedenti forme di questa lotta non hanno oggi nessuno sbocco possibile. Tali forme si compendiavano in due grandi principi contrapposti: da una parte la rivoluzione comunista, cioè la lotta rivoluzionaria per l’abbattimento immediato del capitalismo e l’instaurazione di un superiore modo di produzione; dall’altra il riformismo socialdemocratico, cioè la lotta per la redistribuzione del prodotto dello sviluppo nella prospettiva di un superamento futuro del capitalismo una volta che esso avesse compiuto la sua “missione storica” di sviluppo delle forze produttive. Entrambe queste prospettive sono oggi prive di qualsiasi possibilità reale. Sulla rivoluzione comunista c’è poco da aggiungere a quello che un banale esame dei fatti storici insegna a chiunque, con l’esclusione dei pochi sacerdoti del Vero Comunismo chiusi nelle loro piccole sette:  nei paesi occidentali la rivoluzione comunista non esiste come prospettiva reale, e non è mai esistita da circa ottant’anni a questa parte. Non si tratta di una realtà storica da giudicare, di un movimento reale al quale rapportarsi in un modo o nell’altro. Si tratta di una irrealtà della quale semplicemente non vale la pena discutere, se non sul piano strettamente teorico (i movimenti comunisti nei paesi occidentali sono stati insignificanti sul piano storico, ma hanno talvolta prodotto cose interessanti sul piano intellettuale). La percezione di ciò è oscurata, in paesi come l’Italia, dal fatto che sono esistiti partiti comunisti, come appunto il Partito Comunista Italiano (PCI), che non erano irrealtà ma anzi realtà significative, che hanno inciso durevolmente nella storia. La risposta a questa apparente smentita alla nostra tesi sta nel fatto che partiti come il PCI, comunisti di nome, non avevano assolutamente nulla a che fare con la prospettiva di una rivoluzione comunista: nella loro prassi politica interna erano semplicemente dei partiti riformisti, mentre erano legati all’URSS in politica internazionale. Si trattava insomma di “socialdemocrazie filosovietiche”, un apparente ossimoro che spiega la difficoltà di comprenderne correttamente la natura.Per quanto riguarda il riformismo socialdemocratico, esso ha rappresentato una forza storica reale che ha segnato un’intera fase della storia recente dei paesi occidentali, quella del “trentennio d’oro” seguito alla fine della Seconda Guerra Mondiale, una fase che ha visto avanzamenti effettivi del reddito, dei diritti, del livello di vita dei ceti subalterni. Queste conquiste si basavano sul fatto che la crescita dei redditi dei ceti subalterni creava un mercato per le merci prodotte dall’industria di massa. Tale fase, come è noto, è finita da almeno trent’anni, e ad essa si è sostituita quell’organizzazione del capitalismo mondiale che è abituale chiamare “neoliberismo” e “globalizzazione”. Questa fase ha implicato la perdita di ciò che i ceti subalterni avevano conquistato nella fase precedente, e anche un livello di sviluppo capitalistico nettamente minore rispetto a quello della fase precedente. La crisi dei redditi popolari avrebbe provocato stagnazione della domanda e difficoltà di generare profitti, se ad essa non si fosse ovviato con la finanziarizzazione dell’economia e lo sviluppo del credito al consumo, specialmente negli USA, che sono così diventati i ”compratori in ultima istanza” del sistema capitalistico. E’ noto come queste “soluzioni” del problema della bassa domanda abbiano a loro volta provocato la crisi economica attuale[14]. Se si parte da queste considerazioni, sembrerebbe allora sensata la proposta di una fase di lotte sociali per una politica di tipo riformista, cioè centrata sulla crescita dei consumi popolari come base per lo sviluppo capitalistico. Si tratta a nostro avviso di una proposta priva di prospettive reali, per vari motivi. In primo luogo, essendosi il capitalismo ormai riorganizzato sulle basi di ciò che viene comunemente chiamato “neoliberismo”, è evidente che in esso si sono sedimentati interessi sociali, forze politiche, correnti ideologiche che proprio entro tale organizzazione ricavano forza e potere. Il ritorno a una politica di tipo “riformista” richiederebbe di spezzare il coagulo di tale forze, e questo equivale a un grande sconvolgimento politico e sociale. Non a caso l’avvio della stagione “socialdemocratica” del “trentennio dorato”, ebbe bisogno, per spezzare un analogo accumulo di interessi, di uno sconvolgimento globale come la Seconda Guerra Mondiale. Oggi occorrerebbe dunque un riformismo sostenuto da forti e radicate lotte sociali con l’obbiettivo di sconvolgere l’attuale quadro economico e politico. Ora, a parte la contraddizione di compiere una rivoluzione per realizzare un progetto riformista, non sono disponibili forze sociali per questo programma. Le forme tradizionali della lotta rivendicativa sono oggi infatti completamente spiazzate dall’evoluzione del capitalismo: i lavoratori sono ricattati dalle delocalizzazioni, messi in concorrenza con la forza lavoro immigrata, incapaci di controllare le modificazioni delle forme del lavoro indotte dai mutamenti tecnologici. Inoltre il modello riformista si basa sullo sviluppo capitalistico e abbiamo detto che esso oggi genera sofferenze e quindi resistenze: ciò significa che la proposta di lotte per rilanciare una specie di “riformismo radicale” è condannata in partenza perché essa, per usare un linguaggio d’antan, genera “contraddizioni in seno al popolo”: con uno slogan, potremmo dire che tutti sono contenti che vengano costruiti centri commerciali, ma non tutti sono contenti che vengano costruite discariche o inceneritori; ma il centro commerciale, ovviamente, implica la discarica o l’inceneritore. Infine, in presenza di un nuovo massiccio aumento dei  consumi di massa, si farebbero sentire i vincoli ecologici dello sviluppo, che porterebbero un aumento di costi dovuto alla sempre maggiore difficoltà nel reperire risorse e alle spese per combattere l’inquinamento e le sue conseguenze. Tutto questo renderebbe alla fine poco sostenibile economicamente l’idea di un rilancio dei consumi di massa nelle forme tipiche del “trentennio dorato”.Concludiamo: le idee tradizionali sulle quali si sono basate le forze anticapitalistiche di ispirazione marxista non hanno oggi nessuna possibilità concreta. La proposta di basare un nuovo anticapitalismo sull’idea della decrescita non ha alternative reali. Inoltre, quellla della decrescita è un’idea-forza perché consente di ottenere una redistribuzione della ricchezza sociale che le lotte salariali non sono più in grado di ottenere. Infatti lottare contro le grandi opere a favore di una capillare manutenzione del paese significa lottare anche per un aumento dei posti di lavoro necessari a tale manutenzione. Lottare contro il consumo distruttivo di territorio a favore di un suo uso funzionale ai bisogni delle comunità significa lottare per una politica di estesi servizi pubblici. Lottare per produzioni non intensive, distribuite a brevi distanze con basso consumo di energia, significa estendere l’area della piccola produzione indipendente. Ma più posti di lavoro, più erogazione di servizi pubblici, più piccole produzioni indipendenti, significano decrescita dei profitti e redistribuzione della ricchezza sociale in forma non di merci ma di beni e servizi.   

10. Cosa può dare il pensiero di Marx alla decrescita.Nei paragrafi precedenti abbiamo cercato di indicare cosa può dare la decrescita all’anticapitalismo che si ispira a Marx. In questo paragrafo conclusivo cerchiamo di spiegare cosa può dare il pensiero di Marx alla decrescita. In primo luogo, per poter impostare un programma di cambiamento sociale incentrato sulla decrescita, occorre avere chiaro quanto fin qui detto: la crescita, che è la nozione che nel linguaggio ufficiale traduce l’accumulazione del capitale, è indispensabile all’attuale sistema economico. Se non si capisce questo punto, l’adesione alla crescita appare unicamente come un errore intellettuale e morale, che si può quindi correggere con le argomentazioni e con l’esempio. Ora, la “religione della crescita” è sicuramente anche un errore inteIlettuale e morale, per combattere il quale occorrono tutte le argomentazioni teoriche elaborate dai pensatori della decrescita, e occorrono tutti i possibili esempi e iniziative pratiche prodotte dalle persone impegnate nella decrescita. Ma non si comprende la forza e la persistenza di questo errore intellettuale e morale se non si capisce che esso si incardina entro il rapporto sociale capitalistico e ne rappresenta l’espressione appunto intellettuale e morale. Perdendo di vista questa connessione le persone impegnate nella decrescita non arrivano a inquadrare la realtà del potere e della politica contemporanee, e in questo modo sembrano ridursi a sperare che dal sistema emergano prima o poi politici sensibili ai temi della decrescita, e che si possano convincere i ceti dirigenti della convenienza economica della decrescita. Queste sono illusioni che paralizzano l’azione politica. I politici attuali sono vincolati ad un sistema di potere che ha fatto della crescita la sua base vitale, né si può sperare di dimostrare la convenienza economica della decrescita, perché in effetti all’interno del capitalismo essa non è conveniente in termini macroeconomici. Per fare un esempio su quest’ultimo punto, una tipica argomentazione dei teorici della decrescita è che le proposte di risparmio energetico sarebbero convenienti a livello economico, perché da una parte permetterebbero di ridurre certi costi sia per le imprese sia per le famiglie, e dall’altra una politica di risparmio energetico creerebbe nuovi posti di lavoro. Ma chi argomenta in questo modo non tiene conto del fatto che nel capitalismo ciò che è costo per l’uno è guadagno per l’altro: il risparmio energetico favorirebbe certe imprese ma ne colpirebbe a morte altre, e ben più rilevanti, vale a dire quelle produttrici e distributrici di energia, quelle fornitrici dei mezzi necessari all’uso di energia, quelle che fabbricano le armi con cui l’imperialismo va ad appropriarsi delle risorse energetiche. In sintesi, non si può pensare ad un mutamento radicale dell’organizzazione sociale senza che questo mutamento, se per caso si avviasse nella realtà, susciti l’opposizione di tutte le forze che hanno interessi al mantenimento dell’attuale organizzazione sociale. I marxisti hanno sempre saputo questa ovvietà, il movimento della decrescita non può sperare di rimuoverla.In secondo luogo, i teorici della decrescita sembrano ritenere che il dogma dello sviluppo, e il potere politico-economico ad esso collegato, sia una specie di “ostacolo” tolto il quale la società potrà progredire “serenamente” e “felicemente” secondo linee più umane e sensate. Non è così, purtroppo, e il problema sta nel fatto che il capitale è un rapporto sociale che si riproduce e allarga continuamente la sua sfera, e quindi incide sull’insieme dei rapporti sociali. Nei paesi occidentali esso si è instaurato da secoli ed ha ormai modificato in profondità la natura dei rapporti sociali, informando di sé l’intera compagine sociale. Oggi il capitalismo, come abbiamo detto, è diventato “assoluto”, non “domina” la società, ma la struttura. Se è così, è chiaro che la proposta della decrescita è destrutturante. Nel momento in cui il processo di accumulazione del plusvalore modella tutte le relazioni umane, tutte le sfere sociali, metterlo in questione significa disarticolare l’intera società, e generare quindi una crisi radicale dell’intera organizzazione sociale. Se si vuole realmente avviare le nostre società sulla strada della decrescita, occorre essere preparati a sconquassi sociali di grandi dimensioni. La decrescita non può pensarsi come un processo di sostituzione indolore dell’attuale società dissennata con una società più razionale, senza scosse né traumi. Non si può seriamente pensare ad una decrescita che sia solo “felice” o “serena”. Le nostre società saranno spinte sulla strada della decrescita, se mai lo saranno, certo anche dall’aspirazione ad una “serenità” e “felicità” che l’attuale sistema sociale non può dare, ma soprattutto dal rifiuto del continuo peggioramento della vita che la crescita capitalistica comporta, dallo spettacolo di degrado materiale e spirituale che il nostro mondo mostra con evidenza a chiunque voglia vedere.  Lungo questa strada occorrerà affrontare da una parte la violenza dei poteri che si nutrono della degradazione prodotta dallo sviluppo, dall’altra le crisi e gli sconquassi prodotti sia dalla degradazione capitalistica stessa sia dai tentativi di sostituire alla logica necrofila dell’attuale sistema una logica di vita. Nessun risultato è garantito, l’unica certezza è quella della profonda crisi di civiltà e cultura alla quale l’attuale sistema ci sta portando.

Note

[1]             K.Marx, Il Capitale, Libro I, Editori Riuniti, Roma 1977, pag. 635 (il corsivo è nel testo).
[2]             K.Marx, cit., pag. 637.
[3]             K.Marx, cit., pag. 648 (corsivo nel testo).
[4]             K.Marx, cit., pag. 655.
[5]             K.Marx, cit., pag. 684.
[6]             Si veda M.Badiale, M.Bontempelli, Il mistero della sinistra, Graphos, Genova 2005, pagg 14-15, e Id., La sinistra rivelata, Massari, Bolsena 2007, pagg. 169-174. Si veda anche l’articolo M. Bontempelli, Capitalismo, sussunzione e nuove forme della personalità, reperibile in linea, per esempio all’indirizzo:                http://www.rivistaindipendenza.org/Teoria%20nazionalitaria/Bontempelli%20-%20sussunzione.htm
[7]             Si veda per esempio M.Benasayag, G Schmitt, L’epoca delle passioni tristi, Feltrinelli, Milano 2009. Molti autori hanno riflettuto sul carattere psicopatogeno dell’attuale organizzazione economico-sociale, ma ci pare manchi un collegamento fra queste riflessioni sparse in vari campi del sapere e una proposta politico-culturale anticapitalistica.
[8]          Not In My BackYard, “non nel mio giardino”: sigla con la quale si usa stigmatizzare i movimenti di protesta contro le opere invasive del territorio, per suggerire il carattere puramente egoistico di queste mobilitazioni.
[9]             Cioè, come Marx ha spiegato poche righe prima, le materie prime disponibili, i metodi di produzione utilizzabili, l’estensione della popolazione operaia sfruttabile, il grado di sfruttamento storicamente consentito.
[10]          K. Marx, Il Capitale, Libro III, vol. 1, Editori Riuniti, Roma 1977, pag. 296.
[11]          K. Marx, Per la critica dell’economia politica, Editori Riuniti, Roma 1974. La Prefazione di Marx è alle pagg. 3-8. Si tratta di un testo che precede il Capitale e che noi consideriamo da quest’ultimo superato, nel senso spiegato.
[12]          E che si può sintetizzare nella seguente argomentazione: per produrre plusvalore devi pagare poco i lavoratori, ma in un mondo di bassi salari la domanda sociale resta bassa e non puoi vendere le merci prodotte e realizzare il plusvalore.
[13]       La nostra impostazione può essere considerata “autenticamente marxiana” oppure no? Si tratta di una questione abbastanza secondaria, per cui ne discutiamo rapidamente in una nota. La proposta fin qui esposta di un incontro fra decrescita e pensiero di Marx può essere interpretata come una rottura con le coordinate del pensiero di Marx solo dalle piccole conventicole di sedicenti marxisti e sedicenti rivoluzionari, la cui autoriproduzione si basa su una scarsa comprensione della complessità di tale pensiero e soprattutto su un radicale disinteresse alla costruzione di una prospettiva anticapitalistica che abbia qualche possibilità di incidere sulla realtà. Rispetto alla tradizione marxista noi certamente rifiutiamo idee come il carattere fondamentale della contrapposizione tra capitale e lavoro, la tesi che la classe lavoratrice produttrice di plusvalore sia il soggetto rivoluzionario capace di indurre e gestire il passaggio ad un superiore modo di produzione, la fede nel comunismo come sbocco storico necessario del capitalismo, l’illusione che sia prefigurabile la configurazione della società post-capitalistica. Ma queste cesure con la tradizione marxista sono intese a valorizzare quella che riteniamo in Marx la teoria forte e decisiva, cioè la teoria del modo di produzione capitalistico esposta principalmente nel Capitale. Del resto, le tesi tradizionali che rifiutiamo non derivano dai principi logici fondamentali del modo di produzione capitalistico, ma da altri e più contingenti ambiti nei quali si è esercitata la riflessione di Marx. La nostra impostazione “decrescista” è basata sulla piena valorizzazione della scienza critica dell’economia politica scoperta da Marx.
[14]          Ci siamo soffermati sulla crisi economica attuale nell’Appendice a M.Badiale, M.Bontempelli, Civiltà occidentale, un’apologia contro la barbarie che viene, Il Canneto, Genova 2009, pagg.279-296. L’interpretazione della crisi come dovuta in ultima analisi a depressione della domanda è diffusa nell’ambito degli economisti “eterodossi”, vedi per esempio E.Brancaccio, S.Fassina, P.Leon, La crisi di un mondo di bassi salari, in Antologia della crisi globale, Quale Stato-trimestrale della Funzione Pubblica CGIL, n.1/2, 2009, pagg. 45-57.