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Divenire realmente se stessi, cioè persone, è porsi in un rapporto primitivo con l’Essere

di Francesco Lamendola - 10/03/2010

 
 

Oggi tutti pretendono di essere delle eccezioni; tutti pretendono di essere unici e originali; ma - questo è il punto - già per il solo fatto di sbandierarlo ai quattro venti, e poi anche per il modo pedissequo di seguire tutte le mode del momento, tutto ciò che riescono a manifestare è una forma penosa di individualismo di massa.
Non c’è forma più esiziale di falsa coscienza che pretendere di essere degli individui eccezionali, quando non si è che pecore nel gregge; non c’è spettacolo più patetico e meschino dell’individuo anonimo e spersonalizzato che si atteggia a campione di autenticità e che gonfia il petto, chiedendo di essere ammirato per la sua supposta eccezionalità.
La verità è che ogni essere umano è eccezionale, ma alla condizione di divenire realmente se stesso, cioè una persona; diversamente, lo scopo della sua vita fallisce clamorosamente e non resta che fingere di essere quello che non si è, rincorrendo l’ombra dei propri desideri e delle proprie illusioni e perdendosi nel labirinto degli specchi del proprio falso Ego.
Ecco perché non basta essere al mondo per dire di essere se stessi: perché se stessi non si nasce, si diventa.
Diventare se stessi vuol dire realizzarsi come persone; non realizzare se stessi vuol dire rimanere allo stato di persone puramente potenziali, cioè di individui irrisolti e senza scopo: perché lo scopo del nostro esserci è quello di farci persone, ossia di diventare realmente e pienamente noi stessi, autentici, desti e consapevoli.
Chi non è desto o consapevole non è nemmeno se stesso, perché solo la consapevolezza permette di conferire un vero significato alla propria umanità. Di certo non è sufficiente possedere due braccia, due gambe, contrarre un matrimonio o assicurarsi un posto in banca.
Vi sono due forme principali di inautenticità: quella di credersi eccezionali mentre si è solo delle pecore nel gregge e quella di credersi eccezionali perché si mena vanto di realizzare contenuti esistenziali d’eccezione. Della prima abbiamo già detto quanto basta, in questa sede e altrove; vediamo adesso la seconda.
Non basta compiere imprese eccezionali per essere individui eccezionali e, perciò, persone; molti possono compiere imprese eccezionali, ma solo pochi sono spiritualmente all’altezza di esse, solo pochi riflettono la propria eccezionalità nelle cose che fanno.
Scalare una altissima montagna, per quanto possa costituire una impresa eccezionale sotto il profilo tecnico e magari anche psicologico, non equivale automaticamente ad essere delle persone eccezionali; né fare una grande scoperta scientifica e  neppure realizzare una stupenda opera d’arte o addentrarsi nelle sfere più alte del pensiero speculativo.
Tanto per cominciare, eccezionali non solo solamente le “grandi” imprese che chiunque può vedere e ammirare, ma anche molte, moltissime imprese nascoste e quotidiane. Eccezionale è prendersi cura ogni giorno, ogni ora, di un familiare gravemente malato o afflitto da forti disturbi psichici; riversare la propria benevolenza su qualunque essere vivente, anche sconosciuto; togliersi di bocca il poco cibo che si ha nel piatto, per dividerlo con qualcuno che non ne ha affatto. Anche se nessuno di questi eroi sconosciuti finirà mai sulle pagine delle enciclopedie o riceverà qualche importante riconoscimento pubblico.
In secondo luogo, un individuo si realizza realmente come persona, e quindi diviene eccezionale, quando sa porsi in un rapporto primitivo con l’Essere, prendendolo ad unico testimone della propria vita; quando rivolge ogni sua speranza, ogni suo desiderio, ogni sua aspirazione, ad accordare la propria volontà con la sua.
Porsi in relazione direttamente con l’Essere vuole dire spogliarsi di ogni residuo del falso Ego e consegnarsi fiduciosamente, devotamente, gioiosamente, alla potenza dell’Essere, riponendo in essa ogni fiducia e accettando tutto ciò che ne scaturisce.
La logica conseguenza di un tale atteggiamento è che l’uomo, non confidando più in se stesso ma unicamente nell’Essere, e non cercando l’approvazione o l’ammirazione di nessun altri che dell’Essere, assume le proprie decisioni lontano da ogni forma di pubblicità e imbocca la propria strada avendo gelosamente cura che la propria mano destra non sappia che cosa stia facendo la mano sinistra.
Ecco perché l’uomo o la donna che compiono un’impresa eccezionale non sono però, essi stessi, eccezionali, se la prima cosa che si precipitano a fare è quella di far sapere a tutti quanto siano stati bravi, audaci, coraggiosi e simili. Perché un tale comportamento è molto, molto ordinario: non ha proprio nulla di eccezionale e non testimonia affatto, in alcun modo, l’eccezionalità di chi vi si abbandoni; al contrario, illustra anche troppo la sua ordinarietà.
Naturalmente questo principio vale anche quando si tratti di una relazione fra due soli esseri umani, come potrebbe essere nel caso di un impegno, di una promessa, di un proponimento esplicitato dall’uno all’altro. Ciò che rende banale e inautentico un gesto anche grande non è solo il fatto di vantarsene davanti a molti; può essere anche il fatto di dichiararlo a un altro essere umano, quando ciò non sia necessario e quando il dichiararlo implichi una riposta intenzionalità interessata, ossia l’aspettativa di un qualche vantaggio, anche solo di tipo morale.
Le azioni autentiche sono gratuite e disinteressate; le persone autentiche vivono in maniera gratuita e disinteressata. Prendono le proprie decisioni nel segreto della coscienza e non le esibiscono, perché hanno già quell’unico testimone che ne è anche il garante, il sostegno, il fondamento: l’Essere, da cui tutto viene e cui tutto ritorna. E tali decisioni possono essere sia quella di fare, sia quella di non fare - ma a ragion veduta - una determinata scelta. Grande, quindi, è non solo chi sa fare grandi cose, ma anche chi sa compiere grandi rinunce, pur potendo agire.
Straordinariamente fini ed acute sono le riflessioni che, a questo proposito, Sören Kierkegaard svolge intorno alla propria mancata esperienza matrimoniale con Regine Olsen - la fidanzata che all’ultimo momento non volle sposare, non perché non l’amasse più, ma forse perché l’amava troppo - nelle pagine del suo «Diario» del 1849 (traduzione italiana di Cornelio Fabro (Brescia, Morcelliana, 1949, vol. II, pp. 199-201):

«L’errore del Medio Evo (ripetuto del resto anche in seguito) consisteva nel principio: chi sceglie una condotta particolare, voglia farne la regola generale. Non sposarsi è evidentemente una forma di condotta particolare, che può essere anche molto gradita a Dio. Ma è ben diverso volerla proclamare la regola, e perfino iniziarvi gli altri. Il particolare è l’eccezione e deve rimanere cosciente di sé come tale; e perciò ben lungi dal consigliare gli altri a fare la stessa cosa, deve consigliarli a fare il “generale”, poiché il particolare è vero soltanto quando suppone la primitività del suo rapporto a Dio. Di fronte al generale non si può giustificare che il rapporto primitivo a Dio. Tutto ciò che non possiede questa primitività, è “eo ipso” ingiustificato, quando volesse costituire l’eccezione.
Per rimanere nell’esempio del non sposarsi, è facile mostrare la condotta da seguire. Nell’individuo la risoluzione rimane assolutamente segreta; egli vive da celibe e nessuno, se egli tace, lo può controllare.
Questo “non factum” può essere spiegato in diciassette modi!
L’errore del Medioevo era di farne una cosa pubblica e, peggio ancora, materia di perfezione e di merito.
Io stesso ho sperimentato questa collisione. Nella sua pena e dolore (ahimé, essa ha sofferto anche troppo) la mia fidanzata alla fine mi domandò: “Dimmi solo una cosa: non ti sposerai mai?”. Qui c’era la collisione. Era in tale agitazione che le sarebbe stato molto facile cambiar decisamente rotta in direzione della religiosità. Avrei potuto dirle in tutta coscienza: “No”. E poi? Nella consapevolezza di avere una struttura del tutto particolare, io avrei finito per turbare la sua vita.  Perciò risposi con uno scherzo. Se lei avesse dovuto fare una cosa simile, se tale proposito fosse stato “verità in lei”, e dunque una cosa ammissibile, essa l’avrebbe dovuto sentire in modo veramente originario.
Ora i fatti hanno mostrato che “lei” si sposò: io non ho avuto nulla da ridire, anzi l’ho approvato e ne ho perfino ringraziato Iddio. D’altra parte se quella cosa avesse dovuto divenir “verità in lei”, essa non avrebbe dovuto dirmi una sola parola sull’argomento, ma spontaneamente, nel suo rapporto a Dio, avrebbe dovuto decidere di non sposarsi, e così avrebbe forse avuto ragione. Essa però non aveva raggiunto, come forse s’illudeva, un puro rapporto a Dio, ma soltanto un rapporto di seconda mano. E quando non si ha un immediato rapporto a Dio, non si ha neppure il diritto di essere un’eccezione. Essa desiderava con passione intatta d’unirsi a me. In secondo luogo faceva conto che avremmo deciso di non sposarci o di vivere come non sposati. Ma, mentre nei miei riguardi la cosa era perfettamente in ordine, perché per me quel progetto era la situazione primitiva, in lei invece sarebbe divenuta una situazione derivata. Essa non avrebbe avuto un rapporto a Dio, ma avrebbe trovato quiete in me, in una specie di amor platonico. Ma un rapporto simile non è religioso e quindi non è ammissibile. Solo il rapporto primitivo a Dio giustifica la mia vita d’eccezione.»

Dunque, siamo tutti chiamati ad essere eccezionali.
Eccezionale non è il fatto che noi esistiamo, ma che noi possiamo fare di noi stessi esattamente quello che dovremmo essere e quello che siamo chiamati ad essere: delle persone, vale a dire degli enti che tendono a realizzarsi pienamente solo e sempre nell’Essere da cui derivano e a cui anelano a fare ritorno.
Kierkegaard, giustamente, fa notare che in ciò risiede, nel senso proprio del termine, la categoria del religioso: nel fatto di costituire l’eccezione rispetto alla norma e nel fatto di essere coscienti di tale eccezionalità, che si realizza in un rapporto primitivo a Dio.
Quando il nostro rapporto all’Essere (a Dio, nella prospettiva di Kierkegaard) non è primitivo, ma derivato; quando esso è un rapporto di seconda mano, allora noi cerchiamo dei testimoni umani e tentiamo di farli garanti della bontà delle nostre decisioni. Ma la bontà delle nostre decisioni non può avere altro garante che l’Essere: a lui solo, nel silenzio della coscienza e lontano da ogni orecchio umano, noi possiamo affidare tutta la serietà e l’eccezionalità del nostro destino.
L’uomo moderno pensa di essere qualcosa in se stesso, pensa di avere un destino e uno scopo e di potersi innalzare alla eccezionalità senza alcun bisogno di porsi in relazione con l’Essere, ma anzi, negando tale relazione e proclamando che essa è la sua catena, dalla quale si deve emancipare per poter prendere in mano la propria vita. Ma è una illusione, a causa della quale egli si allontana sempre più da se stesso e dal proprio compimento.
L’uomo moderno è una creatura incompiuta perché, unica fra tutte le altre, ritiene di potersi fare garante di se stessa e di poter fare della normalità qualche cosa di eccezionale, restando nella sfera del finito. Invece la norma può divenire eccezionalità solo e unicamente se ci si innalza sul piano dell’assoluto; ma, per fare questo, occorre affidarsi all’Essere.
Quando l’uomo pretende di farsi norma a se stesso e di fare di sé qualche cosa di eccezionale, tutto quel che riesce a realizzare è una mostruosa caricatura della propria natura, del proprio destino e del proprio scopo.
Non vi è altra natura, non vi è altro destino e non vi è altro scopo, per l’uomo, se non quello di accordare la propria volontà con la volontà dell’Essere: perché solo così egli si ritrova e si realizza, solo così diviene persona.
Il paradosso è che un tale movimento dello spirito, dal punto di vista del finito (la contingenza della secolarizzazione), equivale non a un realizzarsi, ma ad un alienarsi e ad un perdersi. E ciò accade perché il relativo non può essere buon giudice dell’assoluto, ma soltanto l’assoluto può essere giusto giudice del relativo.
A noi la scelta verso quale dei due piani vogliamo indirizzare la nostra vita.