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Il valore ignorato dei mestieri

di Pierre Rimbert - 10/03/2010



Alimentato dalla recessione, dalle marachelle della City e dalla prospettiva delle elezioni legislative di primavera, nel Regno Unito si diffonde il dibattito sulle disuguaglianze. Una ricerca svela il lato nascosto del sistema delle remunerazioni.

 

A forza di valutare tutto e tutti sul metro del loro rendimento monetario – quanto portate nelle tasche dei vostri azionisti? – era fatale che un bel giorno si ponesse di nuovo la domanda a chi analizza, ma posta da un altro punto di vista: che vantaggi portate alla società?
A un rovesciamento della prospettiva di questa entità invita uno studio pubblicato lo scorso dicembre sotto l’egida della New Economic Foundation (1). Eilis Lawlor, Helen Kersley e Susan Steed, tre ricercatrici britanniche, vi affrontano non senza malizia la questione delle disuguaglianze, mettendo a confronto la remunerazione di certi mestieri, selezionati alle due estremità della scala del reddito, con il «valore sociale» che il loro esercizio produce. Nel caso di un operaio addetto al riciclaggio, pagato £ 6,10 all’ora (circa 7 euro), le autrici stimano che «ogni sterlina spesa in salario produrrà 12 sterline in valore» per l’insieme della collettività. Al contrario, «mentre percepiscono retribuzioni comprese fra 500.000 e 10 milioni di sterline, i grandi banchieri d’affari distruggono 7 sterline di valore sociale per ogni sterlina di valore finanziario prodotta». Così il bilancio collettivo delle attività meglio retribuite talvolta si rivela negativo, ciò che già suggeriva la tempesta finanziaria scatenata dopo il 2008…

Battezzato «ritorno sociale sull’investimento», il metodo utilizzato per quantificare il valore prodotto da un posto di lavoro fa cadere la teoria economica standard nella sua stessa trappola. Gli alti compensi rifletterebbero l’apporto dei quadri superiori dell’impresa. «Il pensiero ortodosso dice che la nostra utilità deriva dal denaro», mettono in rilievo le ricercatrici. «Più si guadagna, più si è utili. Ne consegue che, per massimizzare il benessere collettivo, è necessario accrescere il reddito totale».

Una simile visione del mondo porta in particolar modo a non attribuire alcun valore al lavoro domestico, riservato in grande maggioranza alle donne. E a perdere di vista il fatto che il processo economico si estende al di qua e al di là dello scambio monetario. Perché la produzione e il consumo di beni e di servizi provocano ripercussioni involontarie chiamate «esternalità», talora negative, talaltra positive, immediate o differite: una vettura trasporta ma inquina, un libro diverte e istruisce. Si possono valutare questi effetti secondari calcolando i costi dell’inquinamento e i benefici dell’istruzione. Lo stesso vale per le professioni. Per determinare il contributo sociale netto di un mestiere, spiegano Lawlor, Kersley e Steed, è necessario tenere conto dei suoi impatti indiretti sull’economia, sull’ambiente, sulla società, ecc.

Consulente tributario o predatore sociale?

Prendiamo un pubblicitario. La sua attività mira ad accrescere i consumi. Ne deriva, da un lato, una creazione di posti di lavoro (nel settore della pubblicità, ma anche nelle fabbriche, nel commercio, nei trasporti, nei media) e, dall’altro, una crescita dell’indebitamento, dell’obesità, dell’inquinamento, dell’uso di energie non rinnovabili. Attraverso una serie di calcoli ingegnosi e talvolta acrobatici le tre ricercatrici valutano ognuno dei benefici e costi dell’iperconsumo imputabile alla pubblicità. Non resta altro che metterli in relazione: «Per ogni sterlina di valore positivo vengono generate 11,50 sterline di valore negativo». In altri termini, i quadri del settore pubblicitario «distruggono un valore di 11,50 sterline ogni volta che producono una sterlina di valore».

La proporzione si rovescia se si considera il lavoro di un addetto alle pulizie di un ospedale. Disagiato, invisibile, poco considerato, male pagato e generalmente in condizioni di subappalto, egli contribuisce nondimeno al funzionamento generale del sistema sanitario e rende minimi i rischi di infezioni ospedaliere. Fondandosi in particolare su un articolo del British Medical Journal dedicato ai vantaggi sanitari indotti dall’assunzione di un pulitore supplementare e sui costi delle patologie contratte negli ospedali, le autrici stimano che «per ogni sterlina che assorbe in salario, questa attività produce più di 10 sterline di valore sociale». E ancora, precisano, «si tratta probabilmente di una sottovalutazione».

Il metodo permette ugualmente di stabilire che un consulente tributario, la cui arte consiste nel privare la collettività del prodotto dell’imposta, distrugge quarantasette volte più valore di quanto ne crei, al contrario della vigilatrice dell’asilo-nido che, con l’educazione profusa nei bambini e il tempo libero a disposizione dei genitori, rende alla società 9,43 volte più di quello che percepisce col salario. Questi numeri portano all’evidenza qualcosa di strambo. «Effettuando questi calcoli non miriamo alla precisione», spiegano Lawlor, Kersley e Steed, «certi aspetti del valore ci sono probabilmente sfuggiti. Si trattava di attirare l’attenzione sul problema». Di opporre la creazione di valore per la società alla creazione di valore per l’azionista; di suggerire lo sconvolgimento di un modo di remunerazione che valorizza, strapagandole, alcune delle professioni più dannose e, simmetricamente, scoraggia attività vantaggiose per il più gran numero di persone. Non senza indirizzare, en passant, la fattura delle devastazioni che provocano a tre dei sei mestieri messi allo studio.

Ancor ieri giustificate in nome dell’ «effetto di distribuzione capillare» (trickle-down theory), secondo il quale la ricchezza dei più danarosi avvantaggia tutti, perché finisce per sgocciolare sul fronte dei poveri, le disuguaglianze inquietano, fino ai liberali compresi, nella misura in cui il loro accrescimento dissipa le ultime illusioni di «mondializzazione felice». Nel Regno Unito un rapporto governativo pubblicato nel gennaio scorso descrive dettagliatamente l’anatomia di una società fratturata in modo durevole, nella quale il 10% più ricco possiede 97 volte più del 10% più povero (2).

Citato in questo documento, uno studio dell’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo (OCSE) rileva che, fra la metà degli anni ’80 e la metà degli anni 2000 le disuguaglianze dei redditi si sono vieppiù scavate in diciannove dei ventiquattro Paesi presi in esame. I costi sanitari e sociali di questa vertiginosa alterazione dei livelli vi sono documentati (3). Eppure, malgrado la concordanza delle diagnosi, quale governo oserà prescrivere i due rimedi fino ad oggi ben noti: una fiscalizzazione che scremi i redditi alti e una restrizione del libero scambio per allentare la pressione sui salari bassi?

(1) Eilis Lawlor, Helen Kersley et Susan Steed, «A bit rich. Calculating the real value to society of different professions», New Economic Foundation, Londres, 2009; www.neweconomics.org
(2) John Hills (sous la dir. de), «An anatomy of economic inequality in the UK. Report of the national equality panel», Government Equality Office-London School of Economics and Political Science, Londres, 2010.
(3) Vedi la ricerca sugli effetti delle disuguaglianze nei ventitre Paesi ricchi realizzata dagli epidemiologhi Richard Wilkinson et Kate Pickett : The Spirit Level Why More Equal Societies Almost Always Do Better, Penguin Books, Londres, 2009

 (traduzione dal francese di José F. Padova)