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Lettera al Signor Guareschi

di Fiorenza Licitra - 11/03/2010

 
 

Caro signor Guareschi,
le scrivo da dietro questi vetri di pioggia, dopo averla vista andare, ingombrante e nervoso, su e giù per la stanza e, una volta seduto di fronte alla macchina da scrivere, seguire quasi in punta di piedi candidi pensieri.
Noi due ci siamo conosciuti diverso tempo fa, si ricorda? All’epoca di lei sapevo ben poco, ma avevo tanti di quei pregiudizi che non facevo altro che sbuffare e rimandare l’incontro.
Perdoni il ritardo.
La prima volta che ci siamo incontrati fu nel Corrierino delle famiglie e in quelle pagine ho avuto il piacere di conoscere anche la Pasionaria, Margherita e Albertino.
Ricordo che già ai tempi lei strepitava come un forsennato! Sulle prime m’intimorii un po', ma poi gli altri componenti della famiglia, placidi più che mai, mi fecero capire con una strizzatina d’occhio che i muri non sarebbero crollati sulle nostre gracili spalle umane.
Da quella volta mi è rimasta impressa la sua voce forte e chiara come un temporale, anche se dentro una stanza.
Dal mio canto non ebbi più paura, ma lei non fu molto soddisfatto di questo risultato: sperava in qualcosa di meglio di un’altra che stesse calma e immobile mentre lei, calorosamente, distruggeva la cucina!
L’ho poi ritrovata, signor Guareschi, in tante altre avventure - poiché le sue lo furono davvero - sia quelle ambientate in galera o a cavallo di una bicicletta, sia quelle avvenute nel pensiero, che mi hanno fatto sorridere e sperare.
Tuttavia, ai tempi, ancora diffidavo di alcune delle sue amicizie, di Don Camillo e di Peppone, per intenderci; infatti, i preti accompagnati da un sindaco comunista mi sembravano davvero una compagnia terribile e poco fidata.
Fu durante un pomeriggio d’autunno che, gambe in spalla, mi risolsi ad andare a Brescello per fare la conoscenza di quelli che si sarebbero rivelati due splendidi giganti - statura morale compresa -  audaci, sanguigni e irresistibilmente umani. Da quel giorno le divenni ancor più fedele e imparai che, alle volte, è una fortuna immensa sbagliarsi!
Sui miei scaffali di libri, l’ho messa in compagnia del suo conterraneo Fuschini e, quando credete che io sia distratta, vi fate lunghe e appassionanti chiacchierate più sulla vite che su Dio perché questo, per voi, è già un modo di disquisire di Lui.
Le scrivo per dirle che ci sono stati giorni lenti in cui io e questo mondo non ci appartenevamo, delle volte in cui camminando per la strada mi sembrava di non incontrare nessuno e delle altre che, sebbene parlassi la stessa lingua del mio prossimo, non lo capivo.
Durante quei silenzi, durante quelle lunghe ombre, venivo a cercarla sul margine del fiume e la scorgevo, immerso nelle sue zolfate di fumo, passeggiare con l’aria di uno che, a sua volta, cerca il fischio che la nonna Filomena gli rivolgeva da bambino per richiamarlo a casa.
Ognuno di noi, prima o poi, si ritrova lungo quel fiume, ma raramente prende sul serio ciò di cui è davvero alla ricerca, ciò che profondamente gli manca.
C’è chi vorrebbe ritrovare la vecchia soffitta per andarsi ancora a rifugiare nella polvere dei mobili; chi fruga sotto le foglie per stanare il ritratto di un ragazzo brutto e molto spensierato. C’è poi chi aspetta di vedere le tende scivolare fuori dalla finestra come vele nel cielo e chi ha l’impressione di sentirsi ancora chiamare con quel nome che mai più nessun altro pronunciò.
Eppure, la maggior parte della gente preferisce fare finta che tutto questo non sia importante, che sia solo una perdita di tempo come può esserlo una vaga fantasticheria.
«E tu cosa cerchi?» mi chiese lei una volta.

Quella volta non le risposi semplicemente perché non trovai il fiato per farlo. È molto difficile, sa, venir fin laggiù… ti si spezza sempre un po’ il cuore.
Oggi non le scrivo cosa cerco - ho sempre il fiato corto - ma voglio dirle che ho scacciato via la paura di non riuscire a ritrovare “il mio segreto” perché ho la certezza che fino a quando continuerò a cercarlo, fino a quando lo andrò a sognare senza mai addormentarmi, lo troverò ogni volta.
Caro signor Guareschi, tornerò ancora a salutarla e magari ci rivedremo proprio sulla sponda del fiume, di giorno come di notte, perché quello non è un posto pericoloso, anzi è pericoloso non andarci: si rischia di smarrire la parte più autentica di noi stessi. Questo, però, lei che in merito ha scritto tanto, lo sa molto meglio di me!
A presto dunque…