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Tibet, tensione e repressione

di Giorgio Caccamo - 11/03/2010





Si preparano manifestazioni per l'anniversario delle rivolte del 1959 e del 2008 e le autorità cinesi lanciano una nuova "campagna per la sicurezza"

La celebrazione del secondo anniversario delle proteste esplose in Tibet il 10 marzo 2008, mette evidentemente in apprensione le autorità cinesi, che infatti inaugurano nuove e più restrittive misure di sicurezza e potenziano i controlli. Il Centro Tibetano per i Diritti Umani e la Democrazia (Tchrd) denuncia che da almeno una settimana, da quando cioè è iniziata la nuova "campagna per la sicurezza", sono stati arrestati circa cinquecento tibetani nella sola città di Lhasa. In realtà, anche gli organi di informazione governativi confermano gli arresti. Gli stessi giornali ufficiali, controllati da Pechino, hanno diffuso nei giorni scorsi la notizia che le autorità di polizia della capitale Lhasa e di tutto il Tibet hanno lanciato la nuova campagna di sicurezza "Strike Hard". Colpire duro: poco spazio all'immaginazione, come già nelle omonime operazioni del gennaio 2009.

Per l'occasione è stato istituito un nuovo corpo di sicurezza, che collaborerà con la polizia per "mantenere l'ordine sociale e la stabilità". I controlli sono già in atto nei confronti dei monaci buddhisti, praticamente reclusi nei monasteri della capitale, dai quali non possono uscire senza uno specifico permesso rilasciato dalle autorità cinesi. A differenza di altre campagne di polizia, però, questa non sarà limitata alla sola Lhasa, ma le operazioni avranno luogo contemporaneamente in tutta la regione autonoma, per intimidire la popolazione e prevenire qualsiasi protesta appunto in occasione dell'anniversario della repressione del 2008.
Anche se l'obiettivo dichiarato da Pechino è di combattere il crimine e ristabilire l'ordine sociale, il Tchrd ritiene che il vero scopo delle autorità consiste nel colpire ancora una volta gli attivisti politici tibetani, con misure repressive come gli arresti arbitrari, la detenzione illegale, le torture, l'espulsione dalle istituzioni religiose.
Attraverso i giornali controllati dal regime, il governo risponde con i numeri. Migliaia di abitazioni e decine di altri luoghi "sensibili" perquisiti, quasi cinquecento arresti, ma solo quattordici per furti. Nessun dettaglio ufficiale sugli altri arresti. Cinquanta persone sono state fermate perché prive dei tre documenti previsti dalle autorità, cioè la carta d'identità, la registrazione della residenza - il cosiddetto hukou, il permesso di soggiorno temporaneo. Ma i numeri non dissipano affatto i dubbi e i timori del Tchrd e delle altre organizzazioni pro-Tibet. Le limitazioni alla libera circolazione, con l'obbligo dei tre documenti, non sarebbero altro che un espediente per operare una stretta ulteriore sui tibetani che vivono all'esterno della regione autonoma, perlopiù dissidenti politici.

Sono previste manifestazioni pro-Tibet in decine di città nel mondo, e la giornata si è aperta questa mattina a Dharamsala, la località indiana dove vive in esilio da cinquant'anni il Dalai Lama. Infatti, il 10 marzo ricorre soprattutto l'anniversario delle rivolte indipendentiste tibetane del 1959 che portarono poi all'esilio della massima guida spirituale del buddhismo lama. Parlando ad una folla di esuli e di monaci, il Dalai Lama si è rivolto all'élite tibetana che lavora per il governo cinese: "Invito gli ufficiali tibetani al servizio delle amministrazioni delle aree autonome del Tibet a visitare le comunità tibetane che vivono nel mondo libero, per rendersi conto personalmente della situazione". Il governo di Pechino, tramite l'agenzia di stampa Xinhua, ha risposto duramente: il Dalai Lama è un separatista, fomenta la violenza, il suo discorso è retorico e pieno di risentimento. La sua richiesta di una "autonomia significativa" per il Tibet, che occupa un quarto del territorio cinese, è inaccettabile per il governo centrale.

A Pechino piaceranno ancora meno le parole di sostegno e amicizia che il Dalai Lama ha rivolto agli Uiguri, la minoranza musulmana e turcofona del nord-ovest della Cina. In questo giorno dedicato al Tibet e alle sue battaglie, il leader spirituale ha voluto ricordare ed esprimere solidarietà al "popolo del Turkestan orientale", anch'esso represso dalle autorità cinesi. Il Dalai rischia così di peggiorare il già difficile rapporto con la Cina, anche perché "Turkestan orientale" è il nome che gli esuli uiguri indipendentisti danno alla loro regione, che invece Pechino chiama Xinjiang. Probabile che nella capitale cinese si voglia interpretare la dichiarazione del leader tibetano come l'ennesima provocazione separatista.

Nei giorni scorsi, Pechino ha fatto intendere che vorrà intervenire - e interferire - nella designazione della prossima guida buddhista. Anche sul futuro del lamaismo si gioca una partita tutta politica, altro che religiosa o spirituale. "Non c'è alcun bisogno di discutere sulla reincarnazione del Dalai Lama", decideranno le autorità politiche, ha chiarito Padma Choling, governatore filo-cinese del Tibet. Uno dei componenti di quell'élite a cui si è rivolto il Dalai Lama, evidentemente senza essere ascoltato.