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Povertà spirituale e surrogati tecnologici

di Adriano Segatori - 17/03/2010

 

C’è stato un tempo in cui <<liberazione>> era un mantra ripetuto in varie versioni e applicato in diversi contesti, un misto di volontà indomabile e di parola magica che avrebbe portato ad uno stato di diffusa e illimitata felicità. La liberazione dalle fatiche del lavoro con l’introduzione delle macchine avrebbe dato più tempo all’uomo per i propri interessi e la propria creatività; la liberazione della donna avrebbe determinato una sua maggiore serenità e una migliore rappresentanza sociale; la liberazione dall’autoritarismo medico avrebbe procurato l’autodeterminazione del paziente ed una sua più consapevole partecipazione alla cura; la liberazione dei giovani dall’autorità genitoriale e scolastica li avrebbe aiutati a trovare una più autentica autonomia ed una più vivace inventiva. E si potrebbe continuare nell’elenco delle emancipazioni perché le liberazioni sono un po’ come gli esami, non finiscono mai, perché c’è sempre qualcosa o qualcuno da cui svincolarsi.
Ma il progetto è andato storto. La tecnologizzazione del lavoro ha schiavizzato l’uomo imprigionandolo alla macchina, e la nuova modalità “non concede più tempo libero al lavoratore, ma solo quella minima parte di svago, indispensabile per il mantenimento della forza lavoro, opprimendone e limitandone la vita con l’uso meccanico del tempo”1 . L’emancipazione femminile ha esasperato la componente narcisistica accentuandone il ruolo di oggetto e riducendo la donna a stereotipi funzionali al sistema – manager, velina, mangiatrice di uomini, ricattatrice politica, virago dello spettacolo. L’incompetente rivendicazione dei pazienti ha creato una medicina difensiva in cui il deprecato ruolo paternalistico è stato sostituito dalla modulistica burocratica – consenso informato, privacy, gradimento delle cure – con un corrispettivo aumento della conflittualità e la trasformazione del rapporto terapeutico in amministrazione tecnica e prestazione d’opera. La velleitaria creazione di un soggetto antropologico giovanile, con una sua moda, un suo gusto, un suo campo di esigenze, un suo impatto opinionistico, ha determinato una frattura tra il passato e il futuro, tra memoria e progetto, tra realtà e sogno. Il risultato è stato quello di presentificare in maniera trasversale tutte le componenti sociali e familiari, negando qualsivoglia valore all’antico – perché sorpassato dal giovanilismo – e ogni prospettiva al futuro – perché inchiodato alla gratificazione dell’immanente. E quando un’aspettativa viene a crearsi nel mondo giovanile, essa è legata inesorabilmente o alla rapida notorietà di immagine prospettata dalle immorali pubblicità dei mass media, o al cinismo carrieristico della controparte darwiniana della nuova lotta sociale.
Gli ultimi cinquant’anni sono stati caratterizzati da una inarrestabile spinta centrifuga verso l’esterno della persona, con una conseguente penalizzazione per tutto quello che poteva essere il cammino faticoso e prolungato della ricerca e della realizzazione del Sé. In questo senso c’è stata una voluta o inconsapevole confusione anche semantica, scambiando, ad esempio, la spontaneità, come manifestazione di vocazioni interiori e di espressioni caratteriali, con la pulsionalità, cioè l’arbitraria manifestazione degli istinti più bassi e delle gratificazioni più volgari.
La deriva, però, non può essere imputata solo ai giovani, perché questo artificiale pianeta non è una monade fluttuante senza riferimenti e senza indicatori di rotta, ma fa parte di un microsistema permeabile che è la famiglia, e di un macro sistema altrettanto includente che è la società. Parlare di <<problema dei giovani>> è altrettanto assurdo che parlare di <<problema degli anziani, o <<del lavoro>> o <<delle donne>> ecc. Così come sarebbe parziale e pericoloso, per un medico, pensare ed agire come se il diabete fosse un problema del pancreas. Il diabete parte da una disfunzione di quella ghiandola, ma la sua attività alterata si concretizza in patologie molto diversificate e distanti – dagli occhi alle gambe, dalla cute ai reni – in una complessa alterazione dell’equilibrio di tutto l’organismo, da cui la necessità di una diagnosi più sofisticata e, soprattutto, di interventi preventivi e curativi molto più articolati e sinergici.
Solo con questa mentalità e questo approccio sistemico si può pensare di agire sulle singole componenti sociali, delle quali quella giovanile è parte integrante.
Si denuncia la scarsa identità dei giovani, la loro ricerca a forme devianti di riconoscimento e di aggregazione. Ma quali sono gli esempi formativi? Genitori chiusi negli egoismi di carriera o aperti agli individualismi sociali, in un contesto che nega anche la diversità di natura in nome di un indifferenzialismo di genere e di comportamenti; una famiglia che ha rinunciato – per una sua incapacità ormai ontologica – alla “narrazione mitico-simbolica”2 , e si aggrega attraverso democraticismi di facciata di cui il “patto generazionale” indicato dal ministro Brunetta è, in negativo, l’esempio più eclatante. Nonni che rifiutano il termine di anziani, e tanto più di vecchi, per un giovanilismo propagandato dalla pubblicità sanitaria e dalla propaganda di mercato; non più impegnati a trasmettere saperi e conoscenze – già obsolete il giorno dopo in un mondo in preda alla tossina della velocità spensierata –, ma attratti da ginnastiche esuberanti e da estetiche ringiovanenti. Non parliamo del futuro, poi, dove il lavoro ha la stessa fluidità e ineffabilità dei caratteri delle persone, e l’unica certezza è quella data dal prendere atto dell’insicurezza strutturale; dove nella scuola si insegnano mestieri che difficilmente troveranno applicazione, e si espandono professioni virtuali legate alla finanza e al management, sempre comunque indirizzate al mondo dell’immagine e della notorietà (fama è un’altra cosa!).
L’errore di base sta nella parcellizzazione del quadro generale, nella riduzione a geografia di ciò che è paesaggio, nella semplificazione pratica di ciò che è complessità sovrarazionale: insomma, nel considerare i giovani, esattamente come ogni altro componente della società, come meccanismo di un’organizzazione e non parte viva di un organismo. In questo senso i giovani sono la cartina tornasole di quel fenomeno che Graziano Martignoni ha schematicamente interpretato come un “depotenziamento dei quadri della tradizione e dell’albero genealogico”3 . Staccati dalla trasmissione di una memoria e proiettati in un domani senza destino, essi vivono un rapporto con la quotidianità in modo instabile e sradicato – con il favore di genitori invisibili o complici. Tutti, infatti, coinvolti più o meno consapevolmente in quell’atmosfera di perenne adolescenza, contraddistinta dalla fluidità dei rapporti con se stessi e con gli altri.
La <<liberazione>> dalla costrizione familiare è iniziata con il rifiuto dei ruoli maschili e femminili, paterni e materni, in nome di una emancipazione individuale e di una fraternizzazione filiale, e continua – perché non è conclusa – con una spaccatura nelle reciproche funzioni. Da un lato, i genitori hanno privilegiato il rapporto di amicizia rispetto a quello di autorità, perdendo di vista la necessità pedagogica e sanamente conflittuale e appoggiando una mistificante quanto fallimentare democratizzazione relazionale; e lo stesso è accaduto con gli insegnanti, nella negazione dell’autorità scolastica, con la produzione di “figure patetiche come i genitori e gli insegnanti <<amici>>. (…) Una famiglia – o una classe – non è una forma di democrazia diretta dove tutti hanno diritto a un voto e dove tutti i voti hanno lo stesso valore. Famiglia e classe, lo ripeto, sono come un vascello: un solo comandante e i marinai che non possono e non debbono avere lo stesso potere. Altrimenti c’è l’ammutinamento”4 . Dall’altro, una delega voluta o tollerata al gruppo dei pari o a un più generico dispositivo collettivo per l’elaborazione dei riti di passaggio, per la codificazione di comportamenti e di stili, per la creazione di modelli culturali e comunicativi.
Questa liberazione ha decentrato i vari punti di forza che danno forma ad un organismo equilibrato, facendo saltare i rapporti di reciproca sinergia come in “un complesso sistema di vasi comunicanti in cui la debolezza o il depotenziamento dell’uno viene facilmente occupato dall’invadenza dell’altro”5 . E quell’<<altro>>, come surrogato in sostituzione all’asse naturale dei rapporti, è l’apparato tecnico che viene dispiegato per intervenire su un organismo ormai decaduto ad organizzazione.
Derubricata la famiglia dal piano simbolico, con i vari riti di passaggio e di riconoscimento attuati attraverso la messa in scena dei conflitti e la parola come cifra essenziale della comprensione e del cambiamento reciproco, a quello reale, nella sua concretezza pratica, ogni questione viene demandata allo specialista, sia esso di coppia, dell’adolescente, dell’età evolutiva, dell’educazione sessuale e quant’altro.
La caduta verticale dei rapporti intrafamiliari e, conseguentemente, sociali determina un diverso impatto anche a livello del dispositivo psichico del giovane. In un organismo governato dalla tradizione, la direzione caratteriale veniva contrassegnata dall’esempio trasmesso dagli anziani, e pur esistendo la trasgressione come rito individualizzante e formante rispetto alle regole prescritte, la deroga dagli insegnamenti implicava la preoccupazione della vergogna in caso di scoperta di un comportamento deviante. Nel momento in cui la famiglia si emancipa, e la norma passa dalla fase esogena, cioè prescritta dagli altri, a quella spontaneamente endogena, cioè interiorizzata con il Super-Io (vedi le lotte per l’autocoscienza e l’autodeterminazione del sessantotto), la deviazione dagli standard vissuti come opportuni e appropriati si manifesta nel senso di colpa – fattore di disagio che ha riempito gli studi degli psicoterapeuti dei sopravvissuti all’amore libero, alle coppie aperte e agli aborti rivendicati del post-sessantotto. In quest’ultima fase, dove le famiglie allargate, l’infantilizzazione diffusa, la negazione dell’anzianità e della vecchiaia, la rivendicazione dell’eterna giovinezza hanno reso porosi tutti i confini individuali e relazionali, non esiste più un codice di comportamento stabile e nel singolo si manifesta quello che David Riesman ha constatato avvenire nella società: “Una diffusa inquietudine”6 .
Per questo parlare del <<problema dei giovani>> o del <<disagio giovanile>> è limitativo e fuorviante, perché il problema è generale e trasversale, per categorie, per rappresentanze, per età, per funzioni e per ambiti. Anni di mancata educazione e di distorta comunicazione hanno portato – tutti – a enfatizzare l’esigenza di conferme esterne, un’impellente necessità di essere accettati dagli altri. Così i vecchi cercano l’approvazione attraverso la prestanza, la bellezza artefatta, l’efficienza e l’eccesso vitalistico. Gli adulti genitori con il successo lavorativo, i risultati di seduzione e il grado di scalata sociale. E i giovani, privati di esempi <<genealogici>> o subissati da modelli estranei, cercano un’identità sempre più inconsistente e fragile nei gruppi sociali.
Ecco, allora, nascere le iniziative più disparate e costose a parte degli apparati dello stato: dai centri di ascolto per gli indirizzi di studio ai corsi di educazione per la coppia e la famiglia consapevole, dai seminari scolastici per l’educazione alla felicità alla formazione per lo sviluppo dell’intelligenza emotiva, fino alla preparazione alla genitorialità. Tutta questa agitazione tecnica per coprire quei vuoti affettivi e psicologici lasciati dall’evanescenza degli esempi familiari, per surrogare con strumenti pratici ciò che è prerogativa dello spirito. E questo è l’errore, ben inquadrato in altra sede e per altri motivi da Luisa Bonesio a commento del pensiero di Ernst Jünger, in quanto: “La sfida è innanzitutto di ordine metafisico”.
In questo approccio al problema non vengono né sottovalutati né esclusi dei supporti di aiuto in una situazione giovanile che viene da tutti definita allarmante – dalla precoce assunzione di alcol e droga al fenomeno del bullismo, dall’emergere delle violenze sessuali di gruppo alle svariate condotte a rischio –, ma si deve avere la consapevolezza precisa di accontentarsi di momentanei palliativi, senza una rimessa in discussione radicale, dolorosa e estrema di una fallimentare società di disvalori. Bisogna che tutti si impegnino ad evitare quelle facili scorciatoie che ricordano l’aneddoto terapeutico del grande Milton Erickson. A riguardo del diffuso equivoco della semplificazione riportava il racconto di quello che, accucciato sotto un lampione, cercava disperatamente le chiavi di casa. Dopo un po’, aiutato anche da alcuni volonterosi, ad uno venne un sospetto, e chiese al signore se fosse sicuro di aver perduto le chiavi proprio in quel punto, e lui tranquillamente rispose: “Oh no, le ho smarrite in mezzo a quel cespuglio, ma là è troppo buio per trovarle”.
Tutti i propositi di aiuto e i dispositivi di supporto sembrano rispondere proprio a questa logica disfunzionale: la parcellizzazione specialistica minuziosa e settoriale e la perdita della forma dell’insieme; la riduzione della complessità delle relazioni e la cancellazione degli snodi di legame e di influenza, la ricerca di una soluzione occasionale e semplice a discapito di un percorso difficoltoso ma costante.
In questa metafora c’è anche tutta la denuncia di Jünger a proposito dell’accecante luce della ragione tecnica: “La cecità cresce con l’illuminismo; l’uomo si muove in un labirinto di luce”7 , a denunciare la prevalenza degli apparati su ciò che per sua natura dovrebbe essere di attinenza del sovrarazionale e del simbolico.
Nell’affrontare il <<problema dei giovani>>, come tutte le altre difficoltà di origine umana, il sistema si affida a “questa illusoria sicurezza razionale”8 , senza porsi una domanda cruciale di fronte ai continui fallimenti e ai costanti peggioramenti della stessa situazione che viene così malamente affrontata: “Quello che il sistema offre è [forse] qualcosa che io non voglio”9 ?
Per questi ed altri motivi pensiamo – con cognizione di causa visti i riconosciuti insuccessi – che questa operatività a breve termine sia solo un metodo di palliazione che a lungo termine finirà alle corde sotto la pressione della realtà.

 1 F.G. JÜNGER, La perfezione della tecnica, trad. it., Settimo Sigillo, Roma 2000, pp. 71-2.
 2 G. MARTIGNONI, Nel declino della metafora paterna in AA.VV., La questione maschile, SEB, Milano 1998, p. 16.
 3 Ivi.
 4 P. CREPET, Sfamiglia, Einaudi, Torino 2009, pp. 59-60.
 5 G. MARTIGNONI, Nel declino della metafora paterna in AA.VV., La questione maschile, cit., p. 21.
 6 D. RIESMAN, La folla solitaria, trad. it., il Mulino, Bologna 1999, p. 85.
 7 E. JÜNGER, Irradiazioni, Diario 1941-1945, trad. it., Guanda, Parma 1993, p. 192.
 8 L. BONESIO, Una geografia verticale in L. BONESIO / C. RESTA, Il passaggio al bosco, Mimesis, Milano 2000, p. 169.
 9 J. HILLMAN / M. VENTURA, 100 anni di psicoterapia e il mondo va sempre peggio, trad. it., Garzanti, Milano 1993, p. 182.