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Le assurdità dell’Eurabia…

di Justin Vaïsse - 25/03/2010


 


Un genere scadente e chiaramente infondato che si rifiuta di scomparire

 

Alla luce degli ingiustificati allarmismi che di volta in volta riemergono in relazione al concetto di “Eurabia”, ovvero alla presunta minaccia di una arabizzazione ed islamizzazione dell’Europa, lo storico francese Justin Vaïsse smaschera i falsi miti sui quali si fonda la letteratura che a partire dall’11 settembre 2001 ha contribuito a diffondere queste paure

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Entro il 2050, l’Europa sarà irriconoscibile. Invece dei romantici caffè, sul Boulevard Saint-Germain di Parigi saranno allineate macellerie halal e hookah bar dove poter fumare il narghilè: i cartelli stradali di Berlino saranno scritti in turco. Gli alunni, da Oslo a Napoli, leggeranno i versi del Corano in classe, e le donne indosseranno il velo.

O almeno, questo è ciò che gli autori del nuovo genere letterario sull’“Eurabia” vogliono farci credere. Non tutti i libri di questo genere allarmista basato sull’idea che “l’Europa sta morendo” – genere che ha già ricevuto la sua trattazione intellettualmente più imponente con la recente pubblicazione di “Reflections on the Revolution in Europe”, di  Christopher Caldwell – suggeriscono previsioni così vivide e sinistre. Ma tutti sostengono la tesi che il basso indice di natalità tra i nativi europei, la massiccia immigrazione dai paesi musulmani, e il decisivo incontro tra un’energica cultura islamica e un’insicura cultura europea porterà ad un’Europa del tutto privata dell’identità occidentale.

A dispetto del loro contenuto focalizzato sull’Europa, questi libri sono un fenomeno prevalentemente nordamericano. Bat Ye’or (alias Gisèle Littman), un’autrice britannica di origini egiziane, ha scritto uno dei primi libri di questo genere nel 2005; nel libro “Eurabia: The Euro-Arab Axis” affermava che la subordinazione politica a un’agenda musulmana stava trasformando l’Europa in un’appendice del mondo arabo. Ma molti degli attuali sostenitori di questo genere, compreso Caldwell, il faceto ed esagerato Mark Steyn, il superficiale Bruce Thornton, il più serio Walter Laqueur, e gli acuti Claire Berlinski e Bruce Bawer, scrivono dall’altra sponda dell’Atlantico.

Non è che gli europei non producano libri dello stesso filone. Si consideri ad esempio “La rabbia e l’orgoglio” della giornalista italiana Oriana Fallaci, un feroce attacco contro gli immigrati musulmani, o “Londonistan”, dell’editorialista britannica Melanie Phillips, in cui si giudica severamente la sinistra britannica per aver consegnato il paese ai Fratelli Musulmani. Eppure non esiste una vera e propria versione europea del panico da Eurabia, e i libri che sono stati pubblicati tendono a riguardare un singolo paese, e ad afferire a frange di estrema destra. Essi non si impongono sul mercato, mentre le opere prodotte da una schiera di importanti studiosi – come il lavoro sui musulmani europei del sociologo italiano Stefano Allievi; gli studi sull’Islam politico tra gli immigrati turchi, condotti dall’antropologo culturale tedesco Werner Schiffauer; “Multicultural Politics” del sociologo britannico Tariq Modood; e “Globalized Islam” dello scienziato politico francese Olivier Roy – hanno proposto importanti analisi fondate su dati concreti, che hanno scardinato le semplicistiche dicotomie del mito dell’Eurabia.

Ma negli Stati Uniti, i libri sull’Eurabia continuano a proliferare tuttora, a quasi un decennio di distanza dagli attacchi dell’11 settembre 2001, evento che ha dato il via al genere. Una parte della spiegazione risiede nella narrazione post-11 settembre di un’America assediata dall’Islam militante – uno scontro di civiltà nel quale l’Europa sarebbe in prima linea, minacciata da sovvertimenti interni. “Se l’Europa non è in grado di integrare i suoi immigrati, se l’Europa è un terreno di coltura dell’antiamericanismo e del radicalismo islamico – e lo è – questo è un nostro problema”, avverte Berlinski in “Menace in Europe”, pubblicato nel 2006. “Il pericolo che gli islamisti radicali prendano il sopravvento in Europa è altrettanto grave, per gli Stati Uniti, della minaccia rappresentata dal sopravvento dei nazisti in Europa negli anni ‘40”, scrive Tony Blankley in “The West’s Last Chance” (2005). “Non possiamo permetterci di perdere l’Europa”.

In tal senso, molti di questi libri offrono una variazione della visione conservatrice della Guerra Fredda che dipingeva l’Europa come una facile preda per la diffusione del comunismo – solo che ora i musulmani hanno rimpiazzato i sovietici e gli euro-comunisti nel ruolo dei nemici. La continuità dei cliché con la letteratura eurofobica degli anni ’70-‘80 è palese: in entrambi i periodi l’Europa è descritta con termini come: arrendevole, impotente, asessuale, effeminata, post-nazionalista, irreligiosa, contrita, disgustata di se stessa, ingenua, decadente, e così via.

I cliché non sono l’unica ragione per cui le fondamenta della letteratura sull’Eurabia sono traballanti. Facendo affidamento principalmente su aneddoti piuttosto che su dati di fatto, questi libri travisano il complesso quadro in continua evoluzione dell’Islam in Europa. Essi eliminano dal quadro generale anche le condizioni sociali ed economiche, compresa la discriminazione. “C’è un livello notevolmente più elevato di fobia nei confronti degli occidentali e delle cose occidentali che non di islamofobia”, ritiene Laqueur in “The Last Days of Europe” (2007). Trascurando la povertà e il razzismo (che, con buona pace di Laqueur, sono un problema all’ordine del giorno per i non-bianchi dell’Europa, siano essi musulmani o no), gli scrittori dell’Eurabia mettono eccessivamente in risalto la cultura e la religione nello spiegare le tensioni, e scaricano la colpa esclusivamente sui musulmani.

Dopo le rivolte del 2005 nelle banlieues parigine, ad esempio, studi indipendenti hanno messo in evidenza gli stessi fattori: violenze da parte della polizia, discriminazione, disoccupazione, e un’ampia popolazione giovanile nelle case popolari in cui sono scoppiati i disordini. Ma gli autori dei libri sull’Eurabia non ne sono rimasti impressionati. Essi sostengono che gli immigrati non hanno molto di cui lamentarsi, dunque le rivolte non sono altro che frutto del jihad, o, come suggerisce Caldwell nel suo ultimo libro, della “causa araba”. “Anche se non credono nell’Islam – scrive – essi credono nella Squadra dell’Islam”.

Con ciò, ovviamente, non si vuole suggerire che le cose vadano bene. Le squallide vignette e le scioccanti storie di tensioni sociali e violenze collegate all’islamismo, come l’omicidio del regista Theo van Gogh, fanno effettivamente parte del quadro. Ma il paradosso di questo genere letterario è che si sofferma sulle accese polemiche e sulle tensioni che hanno luogo in Europa, mentre pretende allo stesso tempo che gli europei  neghino i loro problemi. E l’enfasi sull’aneddotica tende ad oscurare il fatto che, dalla battaglia sui minareti in Svizzera al dibattito sul velo in Francia, le tensioni attuali sono parte di un processo di aggiustamento normale e democratico, e non i primi segnali di un’imminente catastrofe.

Al di là di tutte le sciatte dimostrazioni aneddotiche, la letteratura sull’Eurabia si basa su due grandi falsi presupposti. Il primo è di carattere demografico. Questa letteratura sostiene che l’Europa diventerà islamica entro la fine del secolo, “al più tardi”, con alcuni paesi europei che“in un prossimo futuro” saranno a maggioranza musulmana, come sostiene Bernard Lewis nel suo pamphlet del 2007 “Europe and Islam”. Ciò avverrebbe perché “le popolazioni indigene stanno invecchiando e scomparendo e stanno per essere inesorabilmente soppiantate da una popolazione musulmana giovane”, spiega Steyn in “America Alone” (2006). “L’Europa diventerà semi-islamica nella sua natura politico-culturale, entro una generazione”.

Se questi libri insistono così tanto sul futuro, è perché le cifre attuali non impressionano più  di tanto. Secondo la stima più alta fatta dal National Intelligence Council (NIC) degli Stati Uniti, vi sono 18 milioni di musulmani nell’Europa occidentale, pari al 4,5% della popolazione. La percentuale è anche più bassa se si considerano tutti i 27 paesi dell’Unione Europea messi insieme.

Nel futuro assisteremo certamente ad un aumento, ma è difficile immaginare che in Europa questa percentuale raggiungerà anche solo il valore del 10% (tranne che in qualche nazione o città). Per un verso, come illustrato dallo stesso studio condotto dal NIC (col quale concordano i demografi), i tassi di fecondità tra i musulmani si stanno abbassando vertiginosamente mano a mano che i figli degli immigrati si conformano progressivamente agli standard sociali ed economici prevalenti. E l’immigrazione non è più una fonte importante di nuovi musulmani europei. Solo 500.000 persone all’anno, all’incirca, arrivano legalmente in Europa da paesi a maggioranza musulmana, con un numero ancora più piccolo di immigrati clandestini – il che significa che l’afflusso annuale è una frazione percentuale della popolazione europea.

Infine, sebbene i libri sull’Eurabia parlino di un’Europa che si sta “lentamente suicidando” (Thornton in “Decline and Fall”), la realtà si permette di dissentire – e in misura sempre maggiore. Secondo i demografi, nel 2008 il tasso di fecondità in Francia e Irlanda era superiore ai 2 figli per donna, molto vicino al tasso degli Stati Uniti (ed al livello di rimpiazzo generazionale); in Gran Bretagna e Svezia era superiore a 1,9. E sebbene negli anni ‘90 i paesi europei abbiano segnato un record assoluto in materia di scarsa fecondità, le cifre adesso stanno crescendo in tutta l’Unione Europea tranne che in Germania.

Ma questo rialzo non è forse dovuto ai musulmani? Sebbene le donne immigrate, alcune delle quali sono musulmane, abbiano un impatto complessivamente trascurabile sui tassi di fecondità complessivi, incrementando al massimo di 0,1 la media di qualsiasi paese, esse contribuiscono sostanzialmente al numero totale delle nascite, con una percentuale tipicamente dal 10 al 20% nei paesi con un alto tasso di immigrazione. Questa è l’origine dell’esagerata tesi di Marc Steyn secondo cui Mohammed sarebbe “il nome più diffuso fra i bambini in gran parte del mondo occidentale”. Ma questo non significa che l’Europa finirà con l’islamizzarsi.

Caldwell considera importante sottolineare quello che di fatto è il secondo ed essenziale falso mito di questa letteratura. La copertina inglese del suo libro si domanda: “L’Europa può essere la stessa con persone differenti al suo interno?”. Per molti di questi autori, i musulmani sono “persone diverse”, e l’identità musulmana è incompatibile con tutte le altre – un’ipotesi che essi condividono con gli estremisti islamici.

Ma per la grande maggioranza dei musulmani europei, l’Islam non è né un’identità esclusiva né un modo di essere irreggimentati. Recenti sondaggi compiuti dalla Gallup dimostrano che molti musulmani europei combinano felicemente le loro identità nazionali e religiose, e uno studio preliminare dell’Università di Harvard risalente al 2009, a cura di Ronald Inglehart e Pippa Norris, dimostra che sul lungo periodo i valori culturali di base degli immigrati musulmani si evolvono per conformarsi alla cultura predominante della società europea in cui vivono.

Più in generale, la media dei musulmani europei si preoccupa anzitutto dei mezzi di sussistenza e, nella misura in cui professa la religione, vuole essere in grado di praticarla liberamente e in condizioni decenti; non vuole imporre il califfato. Come chiarisce uno studio pan-europeo del 2006 condotto dal Pew Research Center, “i musulmani in Europa si preoccupano del loro futuro, ma il loro interesse è più economico che religioso o culturale”, e sebbene ci siano tensioni, esse sono principalmente causate dal razzismo, non da qualche straordinario scontro tra culture.

Lo scenario più probabile per i prossimi decenni – un aumento dell’integrazione dei musulmani di pari passo con continue tensioni culturali, sporadici attacchi terroristici e risultati variabili nei diversi paesi – rappresenta un’impossibilità concettuale per molti autori dell’Eurabia, perché secondo loro i musulmani non possono diventare davvero europei. Eppure, questa è già la realtà. Forse è il momento di prenderne atto.

Justin Vaïsse è uno storico francese; è senior fellow presso il Centro sugli Stati Uniti e l’Europa della Brookings Institution, nonché co-autore di “Integrating Islam: Political and Religious Challenges in Contemporary France”; questo articolo è apparso nel numero di gennaio/febbraio di Foreign Policy